Numerose sono le perplessità e le critiche rivolte al Ministro Brunetta per l’intesa del 4 febbraio sottoscritta tra il Governo e Cisl, Uil e Ugl. Pietro Ichino e Luigi Olivieri parlano rispettivamente di azzeramento e di fine della riforma delle PA.
Si riportano gli interventi integrali per una approfondita riflessione.
La resa del Ministro Brunetta di Pietro Ichino “Lettera sul lavoro” pubblicata sul Corriere della Sera del 7 febbraio 2011
Caro Direttore, venerdì scorso il governo ha firmato con Cisl, Uil e Ugl una Intesa che sostanzialmente azzera la riforma Brunetta delle amministrazioni. Se nell’estate scorsa Tremonti aveva abolito la “carota” prevista in quella riforma, cioè i premi per i dipendenti pubblici più meritevoli, ora questa Intesa abolisce il “bastone”: in sostanza garantisce che a nessuno, per quanto inefficiente, verrà tolto un solo euro del “salario accessorio” percepito nel 2010. Per spiegare il contenuto effettivo di questo accordo, ne propongo una traduzione dal buro-sindacalese in italiano.
Intesa 4 febbraio 2011: Fermi tutti, abbiamo scherzato!
1. - Le Parti, sostituendo questo accordo agli atti di un legislatore velleitario e di un Governo inconcludente, si danno reciprocamente atto che la riforma delle amministrazioni pubbliche recata dal decreto legislativo n. 150/2009 deve considerarsi come mai emanata. In particolare, ogni funzione di valutazione della performance delle amministrazioni attribuita a organi indipendenti deve intendersi avocata a sé dalle Parti stesse, nello spirito del Memorandum Governo-sindacati 23 gennaio 2007. Tutte le invettive pronunciate dal ministro Brunetta contro il detto Memorandum nel corso degli ultimi due anni e mezzo devono intendersi revocate, con formali scuse all’ex-ministro Nicolais.
2. - Le parti convengono, in particolare, che deve considerarsi abrogato l’articolo 19 del decreto legislativo n. 150/2009: conseguentemente, in tutte le circolari e documenti emanati dal settembre 2009 in poi dal ministero della Funzione pubblica, la frase “mai più un solo centesimo di salario accessorio verrà erogato al dipendente inefficiente” e ogni frase che dica una cosa simile devono intendersi sostituite dalla seguente: “il ministro riconosce di essere incapace di differenziare il trattamento dei dipendenti pubblici in base alla rispettiva performance individuale e pertanto garantisce a ciascuno di essi che, anche se lavorerà malissimo e qualunque nefandezza commetta, non potrà percepire meno di quanto ha percepito nel 2010, a titolo sia di stipendio sia di cosiddetto ’salario accessorio’”. Siamo tutti bravi, altro che fannulloni!
3. - Al ministro della Funzione pubblica sarà ancora consentito – purché soltanto per ragioni propagandistiche – sostenere nelle trasmissioni radiofoniche e televisive, o nelle interviste a quotidiani e settimanali, che al 25% di dipendenti più meritevoli verranno destinati premi finanziati con le “risorse aggiuntive”. Le Parti, tuttavia, si danno reciprocamente atto che, stanti i vincoli posti con il d.lgs. n. 78/2010 (i “tagli lineari” del ministro Tremonti per la “stabilizzazione finanziaria”), nessuna amministrazione potrà incrementare il fondo del salario accessorio con risorse aggiuntive; conseguentemente è garantito il ritorno a un trattamento rigorosamente egualitario, secondo la buona prassi consolidata prima del decreto n. 150/2009.
4. - Le Parti convengono che devono considerarsi abrogate tutte le disposizioni nelle quali compaia il riferimento a organi indipendenti di valutazione della performance delle amministrazioni: ritorna in vigore la disposizione contenuta nel Memorandum Governo-sindacati 23 gennaio 2007, che prevedeva l’affidamento della funzione di valutazione a commissioni paritetiche, costituite da rappresentanti delle amministrazioni oggetto di controllo e da rappresentanti sindacali dei dipendenti delle amministrazioni medesime.
5. - Il Governo s’impegna a impartire all’Aran entro 15 giorni istruzioni affinché l’Agenzia stessa adegui il proprio operato alle disposizioni della presente Intesa e, in particolare, adegui i contenuti della contrattazione collettiva di livello nazionale ai criteri che hanno ispirato la contrattazione integrativa in tutto il periodo precedente al decreto n. 150/2009. Il ministro della Funzione pubblica ritira tutte le critiche ingiustamente rivolte a quella felice stagione della contrattazione collettiva del settore pubblico e si impegna, in generale, a non parlar più del sindacato del settore dell’impiego pubblico, se non in termini elogiativi.
Dichiarazione a verbale – La Cgil-Funzione pubblica si astiene dal sottoscrivere la presente Intesa non perché sottovaluti il positivo rilievo dell’azzeramento delle perniciose velleità del ministro Brunetta in materia di valutazione della performance di struttura e individuale, ma perché dissente dalla sostanziale assoluzione che con l’Intesa stessa gli viene accordata dalle Organizzazioni sindacali firmatarie: compito di ogni sindacato degno di questo nome è battersi fino all’ultimo sangue contro tutti i Governi di centrodestra e rifiutare di contribuire a qualsiasi accordo con essi, quale che ne sia il contenuto.
La parola fine sulla riforma Brunetta di Luigi Oliveri articolo pubblicato su Lavoceinfo L'accordo del 4 febbraio tra governo, Cisl e Uil cancella uno dei punti qualificanti della riforma del pubblico impiego: la distribuzione obbligatoria dei dipendenti in tre livelli di valutazione. Troppo semplicistico e draconiano ridurre il problema della produttività dei dipendenti pubblici a un risultato valutativo precostituito in laboratorio. Ora una semplice intesa sindacale ne elimina gli effetti. Ma sarebbe stata più opportuna una vera autocritica, con una nuova riforma che imponesse valutazioni serie, meritocratiche e differenziate.
Il re è nudo o la montagna ha partorito un topolino oppure tanto rumore per nulla. Sono molti i modi di dire a cui far ricorso per stigmatizzare la certificazione del sostanziale fallimento dell’esperimento di introdurre in modo forzato nel pubblico impiego una valutazione differenziata che deriva dall’intesa governo-Cisl-Uil dello scorso 4 febbraio. Ma la sostanza non cambia, ormai è chiaro il gioco al ribasso voluto dai sindacati e al quale il governo si è prestato sull’applicazione della riforma del ministro Brunetta, per manifesta impossibilità di far funzionare in modo razionale il sistema delle “fasce di valutazione”.
L'ossessione della caccia al fannullone
2. - Le parti convengono, in particolare, che deve considerarsi abrogato l’articolo 19 del decreto legislativo n. 150/2009: conseguentemente, in tutte le circolari e documenti emanati dal settembre 2009 in poi dal ministero della Funzione pubblica, la frase “mai più un solo centesimo di salario accessorio verrà erogato al dipendente inefficiente” e ogni frase che dica una cosa simile devono intendersi sostituite dalla seguente: “il ministro riconosce di essere incapace di differenziare il trattamento dei dipendenti pubblici in base alla rispettiva performance individuale e pertanto garantisce a ciascuno di essi che, anche se lavorerà malissimo e qualunque nefandezza commetta, non potrà percepire meno di quanto ha percepito nel 2010, a titolo sia di stipendio sia di cosiddetto ’salario accessorio’”. Siamo tutti bravi, altro che fannulloni!
3. - Al ministro della Funzione pubblica sarà ancora consentito – purché soltanto per ragioni propagandistiche – sostenere nelle trasmissioni radiofoniche e televisive, o nelle interviste a quotidiani e settimanali, che al 25% di dipendenti più meritevoli verranno destinati premi finanziati con le “risorse aggiuntive”. Le Parti, tuttavia, si danno reciprocamente atto che, stanti i vincoli posti con il d.lgs. n. 78/2010 (i “tagli lineari” del ministro Tremonti per la “stabilizzazione finanziaria”), nessuna amministrazione potrà incrementare il fondo del salario accessorio con risorse aggiuntive; conseguentemente è garantito il ritorno a un trattamento rigorosamente egualitario, secondo la buona prassi consolidata prima del decreto n. 150/2009.
4. - Le Parti convengono che devono considerarsi abrogate tutte le disposizioni nelle quali compaia il riferimento a organi indipendenti di valutazione della performance delle amministrazioni: ritorna in vigore la disposizione contenuta nel Memorandum Governo-sindacati 23 gennaio 2007, che prevedeva l’affidamento della funzione di valutazione a commissioni paritetiche, costituite da rappresentanti delle amministrazioni oggetto di controllo e da rappresentanti sindacali dei dipendenti delle amministrazioni medesime.
5. - Il Governo s’impegna a impartire all’Aran entro 15 giorni istruzioni affinché l’Agenzia stessa adegui il proprio operato alle disposizioni della presente Intesa e, in particolare, adegui i contenuti della contrattazione collettiva di livello nazionale ai criteri che hanno ispirato la contrattazione integrativa in tutto il periodo precedente al decreto n. 150/2009. Il ministro della Funzione pubblica ritira tutte le critiche ingiustamente rivolte a quella felice stagione della contrattazione collettiva del settore pubblico e si impegna, in generale, a non parlar più del sindacato del settore dell’impiego pubblico, se non in termini elogiativi.
Dichiarazione a verbale – La Cgil-Funzione pubblica si astiene dal sottoscrivere la presente Intesa non perché sottovaluti il positivo rilievo dell’azzeramento delle perniciose velleità del ministro Brunetta in materia di valutazione della performance di struttura e individuale, ma perché dissente dalla sostanziale assoluzione che con l’Intesa stessa gli viene accordata dalle Organizzazioni sindacali firmatarie: compito di ogni sindacato degno di questo nome è battersi fino all’ultimo sangue contro tutti i Governi di centrodestra e rifiutare di contribuire a qualsiasi accordo con essi, quale che ne sia il contenuto.
La parola fine sulla riforma Brunetta di Luigi Oliveri articolo pubblicato su Lavoceinfo L'accordo del 4 febbraio tra governo, Cisl e Uil cancella uno dei punti qualificanti della riforma del pubblico impiego: la distribuzione obbligatoria dei dipendenti in tre livelli di valutazione. Troppo semplicistico e draconiano ridurre il problema della produttività dei dipendenti pubblici a un risultato valutativo precostituito in laboratorio. Ora una semplice intesa sindacale ne elimina gli effetti. Ma sarebbe stata più opportuna una vera autocritica, con una nuova riforma che imponesse valutazioni serie, meritocratiche e differenziate.
Il re è nudo o la montagna ha partorito un topolino oppure tanto rumore per nulla. Sono molti i modi di dire a cui far ricorso per stigmatizzare la certificazione del sostanziale fallimento dell’esperimento di introdurre in modo forzato nel pubblico impiego una valutazione differenziata che deriva dall’intesa governo-Cisl-Uil dello scorso 4 febbraio. Ma la sostanza non cambia, ormai è chiaro il gioco al ribasso voluto dai sindacati e al quale il governo si è prestato sull’applicazione della riforma del ministro Brunetta, per manifesta impossibilità di far funzionare in modo razionale il sistema delle “fasce di valutazione”.
L'ossessione della caccia al fannullone
L’accordo del 4 febbraio, infatti, nella sostanza finisce per disapplicare proprio uno dei punti maggiormente qualificanti della riforma: l’obbligatoria distribuzione dei dipendenti in tre livelli di valutazione.
Non è detto, tuttavia, che di per sé ciò sia un male. Certo, la riforma Brunetta (il decreto legislativo 150/2009) non è sicuramente nata e cresciuta sotto una buona stella. È stata impostata in modo da andare a regime nel 2011 (per gli enti locali, in parte nel 2012), ma una serie di incertezze interpretative dovute alla non felice formulazione del testo, la feroce opposizione delle organizzazioni sindacali alla sua completa attuazione, una serie di sentenze dei giudici del lavoro secondo le quali la riforma non potrebbe essere applicata se non dopo la nuova contrattazione nazionale collettiva, l’hanno resa sostanzialmente una norma-slogan. Molto pubblicizzata, poco attuata.
Su queste pagine più volte si è rimarcato l’errore di impostazione insito nella riforma e che consiste nell’insistere eccessivamente nella valutazione della prestazione individuale come sistema meritocratico. L’ossessione della “caccia al fannullone” ha fatto perdere di vista che anche nelle aziende i premi sono per lo più assegnati per la produttività dell’impresa o di gruppi di lavoro. Difficilmente, se non per particolari categorie di lavoratori (ad esempio gli agenti di vendita) si insiste troppo sui premi individuali. Troppo alto il rischio che da una sana competizione si trascenda in una competitività fine a se stessa, senza benefici per l’organizzazione. In fondo, questa è stata una delle principali motivazioni delle clamorose dimissioni di Pietro Micheli dalla Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche), che dovrebbe garantire la corretta applicazione della riforma.
L’accordo del 4 febbraio, tuttavia, in piena contraddizione con gli intenti della riforma impone di salvaguardare il salario dei dipendenti pubblici, compreso quello discendente dalla valutazione della produttività. Rendendo impossibile modificare il sistema di valutazione e, dunque, la distribuzione in fasce di premio e, di conseguenza, la differenziazione del merito.
A questo punto, l’intero sistema di valutazione immaginato dalla riforma, che prevede documenti complessi, scadenze, organismi interni di valutazione di nuovo conio, un ente nuovo e oneroso (8 milioni di euro l’anno) come la Civit, perde oggettivamente di senso. Anche considerando, come lavoce.info ha avuto modo di evidenziare, che – almeno per il comparto Regioni-enti locali, in media i premi per il merito ammontano a circa 400 euro lordi.
L’accordo certifica come fosse forzato e poco giustificato pretendere che il 25 per cento dei dipendenti pubblici (fascia di merito d’eccellenza) fosse di per sé produttivo, mentre un 50 per cento fosse capace di lavorare in modo ordinario (fascia mediana), e sicuramente il restante 25 per cento (ultima fascia valutativa) non meritevole di alcun incentivo economico. Troppo semplicistico e draconiano ridurre il problema – se tale davvero è – della produttività dei dipendenti pubblici a un risultato valutativo precostituito in laboratorio.
Inevitabile, dunque, giungere a una disapplicazione (sotto mentite spoglie) della relativa norma. Sarebbe stata più opportuna una vera e seria autocritica, mediante una riforma legislativa che imponesse valutazioni serie, meritocratiche e differenziate, ma senza prefissarne i risultati. Il legislatore dovrebbe esentarsi dall’agire come un capo ufficio e gestire direttamente i rapporti di lavoro.
Dopo il 4 febbraio
Due considerazioni finali e una domanda. Prima considerazione: dopo anni di gran parlare e approfondire la riforma, una semplice intesa sindacale ne elimina sostanzialmente gli effetti, lasciando in piedi, però, l’onerosissimo sistema di valutazione. Occorre chiedersi se il costo valga il beneficio. Seconda considerazione: la Civit, in barba a qualsiasi regola di efficienza aziendale, aveva di recente imposto alle amministrazioni di garantire il contraddittorio per la valutazione, rendendo obbligatoria la conciliazione, che il recente collegato lavoro (legge 183/2010) ha reso facoltativa. Rendendo, così, il processo valutativo ancor più farraginoso e incerto, esposto a continui ricorsi.
La domanda: a sottoscrivere l’accordo del 4 febbraio col governo, in un’ottica di ipertutela di lavoratori non poco protetti, come i dipendenti pubblici, sono quegli stessi sindacati che, sul piano delle relazioni sindacali con la grande industria, hanno invece decisamente lasciato molto terreno sulle tutele?
Non è detto, tuttavia, che di per sé ciò sia un male. Certo, la riforma Brunetta (il decreto legislativo 150/2009) non è sicuramente nata e cresciuta sotto una buona stella. È stata impostata in modo da andare a regime nel 2011 (per gli enti locali, in parte nel 2012), ma una serie di incertezze interpretative dovute alla non felice formulazione del testo, la feroce opposizione delle organizzazioni sindacali alla sua completa attuazione, una serie di sentenze dei giudici del lavoro secondo le quali la riforma non potrebbe essere applicata se non dopo la nuova contrattazione nazionale collettiva, l’hanno resa sostanzialmente una norma-slogan. Molto pubblicizzata, poco attuata.
Su queste pagine più volte si è rimarcato l’errore di impostazione insito nella riforma e che consiste nell’insistere eccessivamente nella valutazione della prestazione individuale come sistema meritocratico. L’ossessione della “caccia al fannullone” ha fatto perdere di vista che anche nelle aziende i premi sono per lo più assegnati per la produttività dell’impresa o di gruppi di lavoro. Difficilmente, se non per particolari categorie di lavoratori (ad esempio gli agenti di vendita) si insiste troppo sui premi individuali. Troppo alto il rischio che da una sana competizione si trascenda in una competitività fine a se stessa, senza benefici per l’organizzazione. In fondo, questa è stata una delle principali motivazioni delle clamorose dimissioni di Pietro Micheli dalla Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche), che dovrebbe garantire la corretta applicazione della riforma.
L’accordo del 4 febbraio, tuttavia, in piena contraddizione con gli intenti della riforma impone di salvaguardare il salario dei dipendenti pubblici, compreso quello discendente dalla valutazione della produttività. Rendendo impossibile modificare il sistema di valutazione e, dunque, la distribuzione in fasce di premio e, di conseguenza, la differenziazione del merito.
A questo punto, l’intero sistema di valutazione immaginato dalla riforma, che prevede documenti complessi, scadenze, organismi interni di valutazione di nuovo conio, un ente nuovo e oneroso (8 milioni di euro l’anno) come la Civit, perde oggettivamente di senso. Anche considerando, come lavoce.info ha avuto modo di evidenziare, che – almeno per il comparto Regioni-enti locali, in media i premi per il merito ammontano a circa 400 euro lordi.
L’accordo certifica come fosse forzato e poco giustificato pretendere che il 25 per cento dei dipendenti pubblici (fascia di merito d’eccellenza) fosse di per sé produttivo, mentre un 50 per cento fosse capace di lavorare in modo ordinario (fascia mediana), e sicuramente il restante 25 per cento (ultima fascia valutativa) non meritevole di alcun incentivo economico. Troppo semplicistico e draconiano ridurre il problema – se tale davvero è – della produttività dei dipendenti pubblici a un risultato valutativo precostituito in laboratorio.
Inevitabile, dunque, giungere a una disapplicazione (sotto mentite spoglie) della relativa norma. Sarebbe stata più opportuna una vera e seria autocritica, mediante una riforma legislativa che imponesse valutazioni serie, meritocratiche e differenziate, ma senza prefissarne i risultati. Il legislatore dovrebbe esentarsi dall’agire come un capo ufficio e gestire direttamente i rapporti di lavoro.
Dopo il 4 febbraio
Due considerazioni finali e una domanda. Prima considerazione: dopo anni di gran parlare e approfondire la riforma, una semplice intesa sindacale ne elimina sostanzialmente gli effetti, lasciando in piedi, però, l’onerosissimo sistema di valutazione. Occorre chiedersi se il costo valga il beneficio. Seconda considerazione: la Civit, in barba a qualsiasi regola di efficienza aziendale, aveva di recente imposto alle amministrazioni di garantire il contraddittorio per la valutazione, rendendo obbligatoria la conciliazione, che il recente collegato lavoro (legge 183/2010) ha reso facoltativa. Rendendo, così, il processo valutativo ancor più farraginoso e incerto, esposto a continui ricorsi.
La domanda: a sottoscrivere l’accordo del 4 febbraio col governo, in un’ottica di ipertutela di lavoratori non poco protetti, come i dipendenti pubblici, sono quegli stessi sindacati che, sul piano delle relazioni sindacali con la grande industria, hanno invece decisamente lasciato molto terreno sulle tutele?
2 commenti:
a me non risulta affatto che la parte peggiore della riforma Brunetta (e che ovviamente era l'unica che si voleva realizzare, fin dall'inizio) sia stata abolita, al contrario, si è deciso di farla partire. Ovviamente mi riferisco alla possibilità del licenziamento per chi rientra per due anni nel quarto dei "peggiori" dipendenti pubblici. Di fatto, si crea il mezzo per licenziare TUTTI i dipendenti pubblici nel giro di 8 anni, a colpi di 25% ogni 2 anni
Non basta un particolare per fare una buona riforma. Il sistema di incentivazione 25%, 50% e 25% non funzionerà poiche l'organizzazione del lavoro si svolge per progetti e gruppi di lavoro. Questo non vuol dire che coloro che non lavorano devono essere premiati. Inoltre è saltata la valutazione indipendente, elemento fondamentale della riforma, che è stata sostituita da commissioni paritetiche
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