Intervista a Eleonora Voltolina a cura di Antonino Leone pubblicata su Sistemi e Impresa n. 5, maggio 2012
Gli effetti della crisi economica e finanziaria del nostro paese si ripercuotono in modo grave sui ceti più deboli (disoccupati, cassaintegrati, pensionati) e particolarmente sui giovani e sui precari, i quali hanno perso il diritto di costruire il proprio futuro. Dei problemi dei giovani ne abbiamo parlato con Eleonora Voltolina , la quale sta dedicando il suo impegno con Repubblica degli stagisti a favore dei giovani che in questo momento non intravedono prospettive positive nella loro vita professionale.
Come è nata la sua passione per il giornalismo?
A dir la verità sono entrata in questa professione un po’ per caso. Nel 2005 un amico si era iscritto al concorso per entrare all’Ifg, la scuola di giornalismo “storica” di Milano, e aveva convinto anche me. Poi la vita è strana, lui non entrò, io invece mi classificai e da lì cominciò il percorso. Ma adesso… penso che non avrei mai potuto fare nient’altro!
Vuole raccontare il suo percorso da giornalista disoccupata a fondatore della testata on line Repubblica degli Stagisti?
Non direi che fossi “disoccupata”, ma sicuramente ero precaria e squattrinata. Collaboravo qui e lì, ma non riuscivo a mettere insieme più di 500-600 euro al mese e soprattutto raramente riuscivo a scrivere dei temi che mi piacevano, perché ovviamente un collaboratore dev’essere sempre disponibile a scrivere quel che gli chiedono. Io ero appassionata di mercato del lavoro ma vedevo che il problema dei giovani sfruttati e sottopagati – già nel 2007/2008, in epoca pre-crisi – non veniva adeguatamente “coperto” dai media, e il fenomeno degli stage – letteralmente in esplosione – era ignorato. Così ho deciso di aprire uno spazio su internet dedicato a questo tema, la Repubblica degli Stagisti. Siccome ha avuto un bel successo, dopo poco più di un anno ho deciso di scommetterci: ho creato una piccola srl che ne diventasse la “casa editrice”, l’ho trasformato in sito web, registrato in Tribunale come testata giornalistica, ideato un sistema di finanziamento che permettesse di pagare uno stipendio a me e a tutti i miei collaboratori. Ed eccoci qui: dopo tre anni abbiamo una sede, una dipendente con contratto di apprendistato, sei-sette collaboratori fissi giornalisti, oltre 50 aziende che credono nei nostri progetti aderendovi e sostenendoli. E finalmente nessuno può dirmi “No, di occupazione giovanile non puoi scrivere, non ci interessa”.
Quali sono gli obiettivi che Repubblica degli Stagisti si propone?
Abbiamo cominciato focalizzando le nostre news sul tema degli stage e tirocini, diventando dei veri specialisti. Ma dal 2011 l’obiettivo è diventato ben più ambizioso: raccontare a 360 gradi il mondo dell’occupazione giovanile, con i suoi problemi e le sue opportunità. Da sempre facciamo un giornalismo di approfondimento e alcuni nostri scoop – come i superstage attivati dal Consiglio regionale calabrese nel 2008 oppure i praticantati non pagati presso le avvocature dell’Inps – sono diventati interrogazioni parlamentari. Ma accanto a questo lavoro di denuncia affianchiamo sempre la parte costruttiva. Facciamo lobbying, nel senso nobile del termine: facciamo proposte alla politica, con le imprese, con i sindacati affinché il tema dell’occupazione giovanile sia messo in cima all’agenda. E diciamo sempre che non tutte le imprese sono uguali: i ragazzi devono imparare a riconoscere quelle buone. Ma quelle buone devono impegnarsi di più per farsi riconoscere!
Lei ha pubblicato due libri, “La Repubblica degli stagisti. Come non farsi sfruttare” e “Se potessi avere 1000 euro al mese. L'Italia sottopagata”. Cosa viene proposto ai lettori nelle sue pubblicazioni?
Un approccio del tipo “conoscere per deliberare”. Entrambi i libri cercano di mettere a nudo un problema – nel primo caso quello degli stage, nel secondo più in generale quello dei giovani sottopagati o costretti addirittura a lavorare gratuitamente – fornendo dati, ricerche, e inframezzandoli con storie vere di vita vissuta. Affinché i numeri non restino lì, astratti, ma vengano calati nella vita di ciascuno di noi. E l’appello ai singoli lettori è sempre quello di agire, di non lasciarsi trascinare dagli eventi, ma di cercare i modi per far sentire la propria voce. Ma in realtà questi libri dovrebbero anche essere letti dai “decisori”, che molto spesso legiferano senza conoscere la realtà concreta.
Quali sono i problemi degli stage in Italia e quali prospettive di cambiamento vi sono all’orizzonte?
Oggi lo stage è al centro di una revisione, ha cominciato il governo Berlusconi a sorpresa nell’estate del 2011 ponendo attraverso un decreto due nuovi paletti – una durata massima di sei mesi per tutti gli stage extracurriculari, e il divieto di attivare stage a favore di persone diplomate o laureate da oltre 12 mesi – e ora il governo Monti sembra intenzionato a riformulare complessivamente tutta la normativa, per ridurre gli abusi ed evitare che lo stage continui ad essere il concorrente sleale del contratto di apprendistato. Ma il tema è molto complesso perché le Regioni rivendicano una competenza esclusiva in materia di formazione, e osteggiano le azioni del governo volte a disegnare un quadro di linee guida nazionali su questa materia. Invece c’è assolutamente bisogno di un quadro unitario, perché non ci sarebbe niente di peggio che avere 20 normative regionali diverse sullo stage, e leopardizzare i diritti e i doveri degli stagisti!
Riformare il mercato del lavoro è certamente un passo che andava fatto da anni e che nessun partito aveva il coraggio di fare, per non rischiare di inimicarsi l’opinione pubblica che su questo tema tende ad essere “conservatrice”, a non volere che siano messi in discussione i diritti acquisiti. Il ministro Fornero ha dunque preso sulle sue spalle una responsabilità che tanti altri prima di lei avevano scansato. Il disegno di legge che ha presentato è interessante, soprattutto per le misure previste come contrasto all’abuso delle odiose tipologie “finte autonome” – cococo, cocopro, partite Iva. Anche se, a mio avviso, si sarebbe potuto fare di più virando più decisamente verso una semplificazione delle tipologie contrattuali, con l’introduzione di un contratto unico a tutele progressive “ichiniano” e di un salario minimo.
Esiste uno spazio di precariato nella professione di giornalista?
Uno “spazio”? Esiste praticamente solo precariato per i giovani che si affacciano alla professione. Nel mio ultimo libro infatti il capitolo dedicato ai giornalisti ha un titolo mesto: “Da quarto potere a quarto stato”. Purtroppo la maggior parte dei giornalisti oggi fa la fame: i dati della cassa previdenziale Inpgi raccontano che i freelance under 40 portano a casa mediamente 6.525 euro, vale a dire 544 euro al mese. Nemmeno sufficienti per la sopravvivenza.
Secondo lei la bassa produttività dell’Italia dipende anche dal lavoro precario e dall’assenza di investimenti in formazione nei confronti delle persone che non hanno un rapporto di lavoro stabile con l’impresa?
Certamente l’inquadramento instabile non aiuta i lavoratori a stare bene sul posto di lavoro, e quindi a dare il massimo. Come dice l’artista Ascanio Celestini, lavorare con contratti temporanei è un po’ come avere una bomba ad orologeria sotto la sedia, e l’ansia costante di restare in mezzo alla strada se il contratto non verrà rinnovato. Per quanto riguarda la formazione, il contratto di apprendistato è stato negli ultimi 10 anni drammaticamente sottoutilizzato, malgrado tutti i ministri del lavoro abbiano gridato ai quattro venti di volerlo rilanciare. Ora staremo a vedere.
La scelta delle imprese di competere riducendo i costi premia il paese oppure occorre confrontarsi con l’innovazione nel mercato globale?
Questa scelta sta letteralmente distruggendo il Paese. Anche perché sottopagando i lavoratori, questi non avranno più la possibilità di far andare avanti l’economia, comprare oggetti e servizi, andare in vacanza, mangiare fuori. Cercare solo di ridurre il costo del lavoro è un boomerang. Detto questo, la tassazione è davvero troppo alta in Italia: bisognerà lavorare al più presto e con decisione sul problema del cuneo fiscale, cioè della differenza tra il costo che un’impresa sopporta per un dipendente e quanto a quel dipendente arriva effettivamente in tasca alla fine del mese. Ed eliminare alcune vere e proprie perversioni, come l’Irap: che è una tassa che le imprese pagano su ciascun dipendente, quindi che di fatto dissuade i datori di lavoro dall’assumere!
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