Mentre l’Italia è distratta dai vari pasticci pre-elettorali il resto del mondo si interroga sull’emergenza economica più drammatica di questi ultimi tempi: la disoccupazione, che non dà cenni di miglioramento nemmeno di fronte ai timidi segnali di ripresa. Ma soprattutto si sta accorgendo che esiste un’emergenza dentro l’emergenza: la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto livelli più che doppi della disoccupazione complessiva ed è in continuo aumento.
Mentre nell’ultimo anno la disoccupazione complessiva in Europa è passata dall’8% al 10%, quella giovanile è balzata dal 16,6% al 21,4%. Un aumento di circa il 30% in media, con punte del 50-60% in paesi come la Spagna (+49%), la Grecia (+56%), e persino in un paese tradizionalmente virtuoso su questo fronte come la Danimarca (+49%, anche se il tasso assoluto in questo paese resta tra i più bassi in Europa). Anche negli Stati Uniti il fenomeno ha assunto proporzioni preoccupanti: nel luglio scorso si contavano 4,4 milioni di giovani senza lavoro, contro un milione del luglio 2008. Questo ha aperto dibattiti serrati in molti paesi. Negli Stati Uniti, così come in Inghilterra o in Spagna, il tema viene costantemente affrontato sui giornali e sui media da economisti e politici, mentre in Danimarca è stato appena pubblicato uno studio ad hoc, commissionato all’Ocse, in cui viene analizzato il problema e sono valutate una serie di misure, inclusa una possibile revisione del loro Welfare Agreement.
In Italia invece il fenomeno della disoccupazione giovanile non sembra destare troppi allarmi tra i policy makers. In parte perché vi è spesso la tentazione di attribuire questo fenomeno ad aspetti culturali, legati a scelte specifiche delle nuove generazioni (rimandare volontariamente l’ingresso nel mondo del lavoro, restare a carico dei genitori ecc.) oppure a loro carenze intrinseche (minori competenze, scarsa determinazione o flessibilità) che li renderebbero meno appetibili sul mercato del lavoro. In parte perché la disoccupazione giovanile ha minor impatto sociale nell’immediato. I giovani tipicamente non hanno figli a carico, e possono invece contare sulla famiglia di origine come ammortizzatore sociale, quindi la loro inattività ha, nel brevissimo periodo, effetti meno devastanti di quella di uomini e donne in età adulta. Ma queste considerazioni hanno un orizzonte molto limitato e non valutano fino in fondo la portata e le conseguenze del fenomeno sulla competitività futura del paese. Siamo di fronte a un’intera generazione che entrerà nel mercato del lavoro con gravi ritardi, in condizioni sub-ottimali, sia da un punto di vista economico che psicologico e motivazionale.
Giovani adulti che sono costretti ad accettare posizioni mal retribuite, poco gratificanti e poco formative. Un cattivo inizio che avrà ripercussioni su tutta la loro traiettoria professionale, come mostrano anche recenti ricerche condotte negli Stati Uniti.
L’economista di Yale Lisa Kahn, dopo una serie di studi su centinaia di giovani entrati nel mercato del lavoro dagli anni Settanta in poi, dimostra che le generazioni che iniziano a lavorare in periodi di recessione restano penalizzate per tutto il resto della loro vita: carriere più lente, lavori meno gratificanti, salari significativamente inferiori persino a distanza di anni dal primo lavoro, con gap retributivi rispetto alle generazioni più fortunate che toccano punte del 25%. Non solo, ma i giovani che hanno dovuto fare i conti con un ingresso nel mondo del lavoro più difficile sviluppano anche una maggiore avversione al rischio che si portano dietro per tutta la loro carriera, diffidenza nel cambiare lavoro (che è invece uno degli strumenti migliori per progredire e guadagnare di più), minori ambizioni. Questo si riflette non solo sulle sorti personali di questi individui, ma avrà conseguenze su tutta la collettività, soprattutto nei paesi occidentali. In questi paesi infatti l’invecchiamento costante della popolazione, e con essa i costi crescenti di pensioni, assistenza sociale e sanità, richiederanno una forza lavoro sempre più dinamica, produttiva, capace di generare innovazioni e redditi più alti, insomma: di contribuire di più all’economia del paese. Ma la forza lavoro di domani è fatta dai giovani di oggi: più svalutate sono le loro carriere, le loro competenze, i loro salari e le loro motivazioni, e meno saranno capaci di contribuire alla crescita del paese, mettendo quindi a rischio un equilibrio sociale ed economico già abbastanza fragile. Per questo dovremmo smetterla di trattare il tema della disoccupazione giovanile come una mera «questione generazionale» e affrontarlo come vera e propria questione nazionale, così come altri paesi stanno iniziando a fare.
Mentre nell’ultimo anno la disoccupazione complessiva in Europa è passata dall’8% al 10%, quella giovanile è balzata dal 16,6% al 21,4%. Un aumento di circa il 30% in media, con punte del 50-60% in paesi come la Spagna (+49%), la Grecia (+56%), e persino in un paese tradizionalmente virtuoso su questo fronte come la Danimarca (+49%, anche se il tasso assoluto in questo paese resta tra i più bassi in Europa). Anche negli Stati Uniti il fenomeno ha assunto proporzioni preoccupanti: nel luglio scorso si contavano 4,4 milioni di giovani senza lavoro, contro un milione del luglio 2008. Questo ha aperto dibattiti serrati in molti paesi. Negli Stati Uniti, così come in Inghilterra o in Spagna, il tema viene costantemente affrontato sui giornali e sui media da economisti e politici, mentre in Danimarca è stato appena pubblicato uno studio ad hoc, commissionato all’Ocse, in cui viene analizzato il problema e sono valutate una serie di misure, inclusa una possibile revisione del loro Welfare Agreement.
In Italia invece il fenomeno della disoccupazione giovanile non sembra destare troppi allarmi tra i policy makers. In parte perché vi è spesso la tentazione di attribuire questo fenomeno ad aspetti culturali, legati a scelte specifiche delle nuove generazioni (rimandare volontariamente l’ingresso nel mondo del lavoro, restare a carico dei genitori ecc.) oppure a loro carenze intrinseche (minori competenze, scarsa determinazione o flessibilità) che li renderebbero meno appetibili sul mercato del lavoro. In parte perché la disoccupazione giovanile ha minor impatto sociale nell’immediato. I giovani tipicamente non hanno figli a carico, e possono invece contare sulla famiglia di origine come ammortizzatore sociale, quindi la loro inattività ha, nel brevissimo periodo, effetti meno devastanti di quella di uomini e donne in età adulta. Ma queste considerazioni hanno un orizzonte molto limitato e non valutano fino in fondo la portata e le conseguenze del fenomeno sulla competitività futura del paese. Siamo di fronte a un’intera generazione che entrerà nel mercato del lavoro con gravi ritardi, in condizioni sub-ottimali, sia da un punto di vista economico che psicologico e motivazionale.
Giovani adulti che sono costretti ad accettare posizioni mal retribuite, poco gratificanti e poco formative. Un cattivo inizio che avrà ripercussioni su tutta la loro traiettoria professionale, come mostrano anche recenti ricerche condotte negli Stati Uniti.
L’economista di Yale Lisa Kahn, dopo una serie di studi su centinaia di giovani entrati nel mercato del lavoro dagli anni Settanta in poi, dimostra che le generazioni che iniziano a lavorare in periodi di recessione restano penalizzate per tutto il resto della loro vita: carriere più lente, lavori meno gratificanti, salari significativamente inferiori persino a distanza di anni dal primo lavoro, con gap retributivi rispetto alle generazioni più fortunate che toccano punte del 25%. Non solo, ma i giovani che hanno dovuto fare i conti con un ingresso nel mondo del lavoro più difficile sviluppano anche una maggiore avversione al rischio che si portano dietro per tutta la loro carriera, diffidenza nel cambiare lavoro (che è invece uno degli strumenti migliori per progredire e guadagnare di più), minori ambizioni. Questo si riflette non solo sulle sorti personali di questi individui, ma avrà conseguenze su tutta la collettività, soprattutto nei paesi occidentali. In questi paesi infatti l’invecchiamento costante della popolazione, e con essa i costi crescenti di pensioni, assistenza sociale e sanità, richiederanno una forza lavoro sempre più dinamica, produttiva, capace di generare innovazioni e redditi più alti, insomma: di contribuire di più all’economia del paese. Ma la forza lavoro di domani è fatta dai giovani di oggi: più svalutate sono le loro carriere, le loro competenze, i loro salari e le loro motivazioni, e meno saranno capaci di contribuire alla crescita del paese, mettendo quindi a rischio un equilibrio sociale ed economico già abbastanza fragile. Per questo dovremmo smetterla di trattare il tema della disoccupazione giovanile come una mera «questione generazionale» e affrontarlo come vera e propria questione nazionale, così come altri paesi stanno iniziando a fare.
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