Intervento di Luigi Mariucci, responsabile per il Lavoro del Pd in Emilia Romagna e professore di diritto del lavoro nell’Università Ca’ Foscari di Venezia, svolto nel corso del Forum Lavoro del Pd, il 12 gennaio 2012
Il confronto tra le parti sociali e il governo farà presto chiarezza sul confuso dibattito in corso sui temi del mercato del lavoro. A quel punto arriverà l’ora della verità anche per il PD, le cui posizioni sulle questioni del lavoro costituiscono una discriminante essenziale in termini di credibilità e visione strategica.
Va riacquistato anzitutto il senso delle proporzioni. Un profondo riaggiustamento delle caotiche regole in materia di mercato del lavoro ereditate da un decennio di governo delle destre è certamente necessario. Ma è del tutto fuori misura immaginare chissà quali effetti miracolistici di nuovi interventi legislativi. I problemi italiani, e europei, hanno ben note radici strutturali che poco hanno a che fare con regolazioni formali dei rapporti di lavoro.
Perciò penso che le diverse proposte di legge fin qui presentate da parlamentari del PD, nella fase del governo Berlusconi, spesso a fini simbolici o di “manifesto politico”, dovrebbero essere accantonate. Invece che porsi l’inutile compito di effettuare “sintesi” o “mediazioni” di carattere puramente interno, che rischiano di essere persino dannose, il PD deve riconfermare l’impostazione programmatica già approvata dalla Assemblea nazionale del maggio 2010 e dalla Conferenza del lavoro di Genova del giugno 2011 e individuare alcune essenziali priorità. Occorre:
1) abrogare l’art. 8 della l. n. 148 del 2011, quello che ipotizza la derogabilità dell’intero diritto del lavoro ad opera di contratti aziendali o territoriali: una norma indecente, una vera anomalia rispetto agli ordinamenti europei;
2) modificare l’ art.19 dello Statuto nel senso di attribuire il diritto a costituire rappresentanze nei luoghi di lavoro ai sindacati che raggiungono specifiche soglie di rappresentatività, in termini di iscritti o di voti ricevuti, ponendo fine alla aberrante applicazione di tale norma diretta ad escludere i sindacati rappresentativi ma dissenzienti da specifici accordi (come accade alla Fiom negli stabilimenti Fiat), e ripristinando quindi un fondamento essenziale della libertà sindacale, come accade in tutti i paesi europei;
3) disboscare la giungla dei contratti precari accorpando i contratti atipici di lavoro in tre o quattro figure essenziali: l’apprendistato, il contratto a termine, la somministrazione di lavoro;
4) rendere convenienti per le imprese con incentivi fiscali le assunzioni a tempo indeterminato.
Si può anche prevedere un nuovo contratto di “ingresso al lavoro”, aggiornando il già esistente contratto di inserimento, per giovani, donne e lavoratori maturi licenziati per motivi di crisi, assegnando a questi soggetti una congrua indennità di avviamento al lavoro, una volta accertato rigorosamente l’effettivo stato di disoccupazione e l’autentica volontà di cercare lavoro.
Penso invece che sia sbagliata la proposta di introdurre un nuovo contratto c.d. “prevalente” [il riferimento è alla proposta illustrata nell'intervento di Stefano Fassina - n.d.r.], da contrapporre semanticamente al c.d. “contratto unico”, che unico naturalmente non è perché si aggiungerebbe agli altri contratti atipici. Prevalente in che senso? E con quali regole? A quanto si intende questa ennesima tipologia contrattuale si caratterizzerebbe per prevedere la licenziabilità nei primi tre anni, monetizzata con un risarcimento ex ante. Nulla si dice di cosa accadrebbe nel caso in cui quel lavoratore, al termine del triennio o in corso di rapporto, venisse appunto licenziato con un modesto indennizzo economico. Dovrebbe ricominciare daccapo, in una sorta di infinito gioco dell’oca.
È più ragionevole la piattaforma unitaria a cui stanno lavorando i sindacati: usare i contratti esistenti (apprendistato, contratto di inserimento), incentivare fiscalmente le assunzioni a tempo indeterminato, estendere gli ammortizzatori sociali a chi oggi non li ha, ridurre i contratti di ingresso al lavoro ad alcune forme essenziali. Quanto all’art.18 dello Statuto l’unica misura utile di riforma consisterebbe nello stabilire termini cogenti di abbreviamento delle controversie.
Introdurre nuovi e astrusi marchingegni normativi è inutile, anzi persino dannoso. I problemi della crescita sono altri. Guarda caso la stagnazione italiana dell’ultimo decennio è coincisa con la diffusione del lavoro precario. Va rovesciata l’idea mercantile per cui il lavoro è l’ultimo anello della catena produttiva, quello su cui scaricare risparmi di costo e iper-sfruttamento. Bisogna ripartire dai fondamenti: solo la valorizzazione del lavoro, in tutte le sue forme, può costituire un incentivo alla crescita. I diritti naturalmente vanno distinti dai privilegi, dalle posizioni parassitarie e assistenziali. Da qui la necessità di politiche selettive mirate a intervenire sulle differenze strutturali: nord-sud, settore privato e pubblico, occupazione giovanile e femminile.
Vi sono certo altre rilevanti questioni su cui sarebbe necessaria una organica riforma: il riordino complessivo degli ammortizzatori sociali, l’introduzione di efficaci strutture pubbliche di gestione e controllo sul mercato del lavoro (perché non costituire una vera Agenzia nazionale del lavoro, al posto degli attuali frammentati centri pubblici dell’impiego, abolendo nel frattempo altri organismi inutili, tipo l’ineffabile Civit, organo di controllo sulla produttività del pubblico impiego?), il tema della efficacia giuridica dei contratti collettivi sulla base dell’accertamento della effettiva rappresentatività dei sindacati stipulanti, e un più generale progetto di semplificazione del diritto del lavoro, diventato ormai una normativa caotica e persino irriconoscibile, centrato su un obiettivo autentico di razionalizzazione delle normative e non su quello, criptico, di controriformare il diritto del lavoro in senso regressivo. La bozza-Ichino, con gli opportuni correttivi di merito, può essere una buona base di partenza per un confronto utile.
Ma, al momento, le urgenze e le priorità sono quelle indicate.
1) abrogare l’art. 8 della l. n. 148 del 2011, quello che ipotizza la derogabilità dell’intero diritto del lavoro ad opera di contratti aziendali o territoriali: una norma indecente, una vera anomalia rispetto agli ordinamenti europei;
2) modificare l’ art.19 dello Statuto nel senso di attribuire il diritto a costituire rappresentanze nei luoghi di lavoro ai sindacati che raggiungono specifiche soglie di rappresentatività, in termini di iscritti o di voti ricevuti, ponendo fine alla aberrante applicazione di tale norma diretta ad escludere i sindacati rappresentativi ma dissenzienti da specifici accordi (come accade alla Fiom negli stabilimenti Fiat), e ripristinando quindi un fondamento essenziale della libertà sindacale, come accade in tutti i paesi europei;
3) disboscare la giungla dei contratti precari accorpando i contratti atipici di lavoro in tre o quattro figure essenziali: l’apprendistato, il contratto a termine, la somministrazione di lavoro;
4) rendere convenienti per le imprese con incentivi fiscali le assunzioni a tempo indeterminato.
Si può anche prevedere un nuovo contratto di “ingresso al lavoro”, aggiornando il già esistente contratto di inserimento, per giovani, donne e lavoratori maturi licenziati per motivi di crisi, assegnando a questi soggetti una congrua indennità di avviamento al lavoro, una volta accertato rigorosamente l’effettivo stato di disoccupazione e l’autentica volontà di cercare lavoro.
Penso invece che sia sbagliata la proposta di introdurre un nuovo contratto c.d. “prevalente” [il riferimento è alla proposta illustrata nell'intervento di Stefano Fassina - n.d.r.], da contrapporre semanticamente al c.d. “contratto unico”, che unico naturalmente non è perché si aggiungerebbe agli altri contratti atipici. Prevalente in che senso? E con quali regole? A quanto si intende questa ennesima tipologia contrattuale si caratterizzerebbe per prevedere la licenziabilità nei primi tre anni, monetizzata con un risarcimento ex ante. Nulla si dice di cosa accadrebbe nel caso in cui quel lavoratore, al termine del triennio o in corso di rapporto, venisse appunto licenziato con un modesto indennizzo economico. Dovrebbe ricominciare daccapo, in una sorta di infinito gioco dell’oca.
È più ragionevole la piattaforma unitaria a cui stanno lavorando i sindacati: usare i contratti esistenti (apprendistato, contratto di inserimento), incentivare fiscalmente le assunzioni a tempo indeterminato, estendere gli ammortizzatori sociali a chi oggi non li ha, ridurre i contratti di ingresso al lavoro ad alcune forme essenziali. Quanto all’art.18 dello Statuto l’unica misura utile di riforma consisterebbe nello stabilire termini cogenti di abbreviamento delle controversie.
Introdurre nuovi e astrusi marchingegni normativi è inutile, anzi persino dannoso. I problemi della crescita sono altri. Guarda caso la stagnazione italiana dell’ultimo decennio è coincisa con la diffusione del lavoro precario. Va rovesciata l’idea mercantile per cui il lavoro è l’ultimo anello della catena produttiva, quello su cui scaricare risparmi di costo e iper-sfruttamento. Bisogna ripartire dai fondamenti: solo la valorizzazione del lavoro, in tutte le sue forme, può costituire un incentivo alla crescita. I diritti naturalmente vanno distinti dai privilegi, dalle posizioni parassitarie e assistenziali. Da qui la necessità di politiche selettive mirate a intervenire sulle differenze strutturali: nord-sud, settore privato e pubblico, occupazione giovanile e femminile.
Vi sono certo altre rilevanti questioni su cui sarebbe necessaria una organica riforma: il riordino complessivo degli ammortizzatori sociali, l’introduzione di efficaci strutture pubbliche di gestione e controllo sul mercato del lavoro (perché non costituire una vera Agenzia nazionale del lavoro, al posto degli attuali frammentati centri pubblici dell’impiego, abolendo nel frattempo altri organismi inutili, tipo l’ineffabile Civit, organo di controllo sulla produttività del pubblico impiego?), il tema della efficacia giuridica dei contratti collettivi sulla base dell’accertamento della effettiva rappresentatività dei sindacati stipulanti, e un più generale progetto di semplificazione del diritto del lavoro, diventato ormai una normativa caotica e persino irriconoscibile, centrato su un obiettivo autentico di razionalizzazione delle normative e non su quello, criptico, di controriformare il diritto del lavoro in senso regressivo. La bozza-Ichino, con gli opportuni correttivi di merito, può essere una buona base di partenza per un confronto utile.
Ma, al momento, le urgenze e le priorità sono quelle indicate.
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