Articolo di Bruno Montanari pubblicato su Europa il 12 gennaio 2012
Il 18 è un numero che riassume in modo sbrigativo una controversia politica e mediatica tra sindacati, governo e partiti. Il nostro sistema, sia quello comunicativo, sia quello istituzionale, si è abituato, infatti, a muoversi in modo “semplicistico”, convertendo le differenze legittime tra punti di vista, soprattutto in relazione a questioni gravi, in una polarizzazione di posizioni antagoniste. Dal che non può uscire nulla di buono. È questa una delle cause di quella povertà di pensiero politico sottolineata, di recente, da Giovanni Sartori sulle pagine del Corriere.
Altrettanto chiaro è che qui viene in questione il sistema produttivo italiano e la sua (pseudo) cultura industriale. Non intendo generalizzare, ma mi sembra che la linea guida dell’imprenditore italiano (e non mi riferisco alla piccola o anche media impresa) sia stata quella di ancorare il profitto a due fattori: alla riduzione o contenimento dei costi e all’assistenza statale, diretta o indiretta. Riprova ne sia che quando il costo del lavoro italiano è stato valutato concorrenzialmente troppo oneroso, nonostante i bassi salari, l’imprenditore ha preferito delocalizzare la produzione, pur in presenza di domanda di quel prodotto, o di convogliare le proprie risorse nell’investimento finanziario. A ciò si aggiunga il disinteresse per investimenti in ricerca a medio e lungo termine: meglio comprare un brevetto che finanziarne uno originale. Come dire, il capitale è mio e ne faccio ciò che voglio, senza preoccuparmi delle ricadute sociali, interrompendo così la continuità indispensabile per la tenuta delle moderne democrazie: quella tra libertà economica e responsabilità sociale.
A titolo di esempio di questa mentalità, negli anni passati la Bocconi svolse una ricerca sui manager legalmente licenziati e si venne a scoprire che causa del loro licenziamento a cinquant’anni (!) non erano le difficoltà industriali dell’azienda, ma la possibilità di ridurre i “costi” affidando le stesse funzioni a giovani “meno costosi”, ignorando l’apporto della qualità dell’esperienza.
Vengono alla mente, allora, due riflessioni: la prima è culturale e riguarda quell’“etica” capitalistica illustrata da Max Weber. «Capitalista» non è colui che possiede un patrimonio, ma colui che impiega le proprie risorse, anche se modeste, in azioni produttive che generano frutti per la società. Insomma, “capitalista” è l’artigiano che produce da sé e con qualche aiuto beni socialmente utili, e non il ricco, ma inerte, possessore di un cospicuo patrimonio. In base al criterio weberiano, mi sembra che l’industriale italiano sia ricco, ma non sia un “capitalista”.
La seconda riflessione trae spunto dalla nostra Costituzione, quando indirizza l’esercizio della libertà economica dei privati verso uno scopo sociale, che mi sembra essere, questa sì, la traduzione giuridica del capitalismo weberiano.
Dal canto loro, i sindacati, se non si contrapponessero in modo acritico, a fronte di una non modifica radicale dell’articolo 18, potrebbero accettare una estensione della sua inapplicabilità alle aziende medie (per esempio fino a 50 dipendenti), ma con un conseguente, rigoroso, controllo sull’emersione del lavoro in nero. Inoltre, accettando la linea di una contrattazione decentrata, potrebbero chiedere un maggiore coinvolgimento dei “lavoratori” nelle strategie aziendali, sul modello tedesco. C’è da chiedersi, infatti, come mai i salari tedeschi siano notevolmente superiori a quelli italiani, senza che la produzione ne soffra, anzi con suo beneficio.
Insomma, oggi, avere fantasia consiste solo nel capire una cosa evidente: che siamo tutti sulla stessa barca, mentre l’idea abitualmente praticata è navigare ciascuno con la propria barca o barchetta nello stesso mare.
A titolo di esempio di questa mentalità, negli anni passati la Bocconi svolse una ricerca sui manager legalmente licenziati e si venne a scoprire che causa del loro licenziamento a cinquant’anni (!) non erano le difficoltà industriali dell’azienda, ma la possibilità di ridurre i “costi” affidando le stesse funzioni a giovani “meno costosi”, ignorando l’apporto della qualità dell’esperienza.
Vengono alla mente, allora, due riflessioni: la prima è culturale e riguarda quell’“etica” capitalistica illustrata da Max Weber. «Capitalista» non è colui che possiede un patrimonio, ma colui che impiega le proprie risorse, anche se modeste, in azioni produttive che generano frutti per la società. Insomma, “capitalista” è l’artigiano che produce da sé e con qualche aiuto beni socialmente utili, e non il ricco, ma inerte, possessore di un cospicuo patrimonio. In base al criterio weberiano, mi sembra che l’industriale italiano sia ricco, ma non sia un “capitalista”.
La seconda riflessione trae spunto dalla nostra Costituzione, quando indirizza l’esercizio della libertà economica dei privati verso uno scopo sociale, che mi sembra essere, questa sì, la traduzione giuridica del capitalismo weberiano.
Dal canto loro, i sindacati, se non si contrapponessero in modo acritico, a fronte di una non modifica radicale dell’articolo 18, potrebbero accettare una estensione della sua inapplicabilità alle aziende medie (per esempio fino a 50 dipendenti), ma con un conseguente, rigoroso, controllo sull’emersione del lavoro in nero. Inoltre, accettando la linea di una contrattazione decentrata, potrebbero chiedere un maggiore coinvolgimento dei “lavoratori” nelle strategie aziendali, sul modello tedesco. C’è da chiedersi, infatti, come mai i salari tedeschi siano notevolmente superiori a quelli italiani, senza che la produzione ne soffra, anzi con suo beneficio.
Insomma, oggi, avere fantasia consiste solo nel capire una cosa evidente: che siamo tutti sulla stessa barca, mentre l’idea abitualmente praticata è navigare ciascuno con la propria barca o barchetta nello stesso mare.
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