Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, valuta a “Che tempo che fa” la situazione della Fiat e del sistema Italia. Riporta i risultati delle ricerche di World Economic Forum che posizionano l’Italia al 48° posto per competitività, dopo la Lituania, il Cile, Cipro, l’Islanda ed al 118° posto per efficienza produttiva. Questi sono dati preoccupanti che non lasciano intravedere miglioramenti del sistema economico del paese al di là delle difficoltà che la Fiat vive in questo periodo in Italia.
Ho intervistato il senatore Pietro Ichino del Partito Democratico per approfondire l’argomento.
L’intervento di Sergio Marchionne l’ha colto di sorpresa o ha confermato le sue convinzioni?
Non mi ha sorpreso affatto: sono le stesse cose che sto dicendo da più di tre anni. D’altra parte, l’idea che una multinazionale come la Fiat debba investire in Italia soltanto perché il suo amministratore delegato è italiano, oggi, a me sembra una grossa sciocchezza. E mi preoccupa un pò, per le sorti del nostro Paese, sentirla anche in bocca a politici di primo piano.
Perché l’Italia ha una scarsa capacità di attrarre gli investimenti esteri delle imprese globali?
Le cause sono molte, dai difetti di funzionamento delle amministrazioni pubbliche ai difetti delle nostre infrastrutture, al difetto di cultura delle regole che caratterizza tutto il nostro Paese e in modo particolare il nostro Mezzogiorno. Ma tra queste cause va messa anche una legislazione del lavoro caotica, illeggibile, intraducibile in inglese; e un sistema di relazioni sindacali inconcludente, perché attribuisce di fatto un potere di veto sui piani industriali innovativi anche al sindacato minoritario.
Tra le cause della scarsa attrattività dell’Italia per gli investimenti stranieri vi sono anche l’alto costo del lavoro o lo scarso ambiente innovativo, le regole che non privilegiano il merito e il talento?
C’è anche un problema di costo del lavoro: non come costo orario assoluto, ma come costo per unità di prodotto. In altre parole, la produttività del lavoro è mediamente più bassa in Italia che altrove in Europa. Vi contribuisce anche una peggiore allocazione delle risorse umane, determinata da un mercato del lavoro molto vischioso. Poi c’è il discorso sulla chiusura del sistema ai piani industriali più innovativi, che è in parte imputabile alla regola della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale, anche nelle sue parti relative all’organizzazione, ai tempi di lavoro, all’inquadramento, alla struttura delle retribuzioni. E’ un discorso complesso, cui ho cinque anni fa ho dedicato un libro (“A che cosa serve il sindacato”, Mondadori, 2005): sarebbe difficile riassumerlo qui in due battute.
La scarsa attenzione del Governo verso le riforme da varare nel periodo di crisi è una scelta giusta o prefigura una scelta errata per costruire un futuro in cui la posizione competitiva dell’Italia sia più avanzata rispetto agli altri Stati occidentali e la redistribuzione della ricchezza più equa?
La grande crisi è un’occasione da non sprecare, per ristrutturare il tessuto produttivo e le amministrazioni pubbliche del Paese. Ma per questo occorre avere il coraggio di chiudere aziende e uffici inefficienti, offrendo ai lavoratori coinvolti una solida garanzia di continuità del reddito e di un investimento efficace nella loro professionalità.
La produttività ed i salari in Italia nel privato e nel pubblico sono bassi rispetto agli altri paesi europei. Questo rapporto o equilibrio bisognerebbe farlo saltare perché non produce benefici all’Italia, alle aziende ed ai lavoratori?
Ovviamente sì: dobbiamo uscire dal circolo vizioso della bassa produttività e dei bassi salari. Ma per questo occorre maggior coraggio e incisività nel fare quello che dicevo prima: assecondare la ristrutturazione del tessuto produttivo e amministrativo del Paese.
Quali posizioni i soggetti sociali e politici potrebbero assumere per costruire un nuovo equilibrio più equo e responsabile?
Anche qui il discorso sarebbe troppo lungo e complesso per essere svolto in questa sede. Mi limito a rinviare, per la parte del discorso relativa alla riforma del diritto del lavoro e del sistema delle relazioni industriali, al mio progetto per un nuovo Codice del Lavoro semplificato, contenuto nei due disegni di legge n. 1872 e 1873, che ho presentato l’anno scorso con altri 54 senatori del Pd.
Cosa condivide dell’intervento di Marchionne e cosa invece ritiene che vada corretto o integrato?
A me sembra che Marchionne sostanzialmente abbia ragione quando pone questo problema: in Italia non basta che un accordo come quello di Pomigliano sia firmato da quattro sindacati su cinque e approvato da due lavoratori su tre, per garantirne l’effettività.
Perché ha ragione?
Perché, per esempio, lo sciopero dello straordinario proclamato dai Cobas da qui fino al 2014 produce l’effetto pratico di rendere facoltativa l’applicazione della clausola sul 18mo turno per ciascuno dei lavoratori interessati, che è invece un ingranaggio essenziale del piano. Ma, al di là di questo, io capisco che tutto il dibattito seguito a quell’accordo possa essere visto come una follia.
In che senso una follia?
Quel dibattito è nato da una denuncia della Fiom che non sta in piedi: quella secondo cui l’accordo violerebbe la legge e addirittura la Costituzione. Gli stessi dirigenti della Fiom, quando ne discuto con loro, anche in pubblico, riconoscono che non c’è alcuna violazione di legge e che la vera questione è quella delle deroghe al contratto collettivo nazionale. Ma, intanto, metà dell’opinione pubblica italiana si è convinta che Marchionne offra lavoro solo in cambio di rinuncia ai diritti fondamentali dei lavoratori.
Ma i dirigenti della Fiom ribattono che le deroghe al contratto nazionale portano un peggioramento delle condizioni di lavoro.
Niente affatto. L’ora e mezza in più di straordinario alla settimana porta quaranta ore di lavoro settimanali e 300 euro in più in busta-paga. Fare le barricate contro una “deroga” come questa, in una regione afflitta da una drammatica mancanza di lavoro come la Campania, è davvero una cosa da matti. Quanto alla clausola contro l’assenteismo abusivo, quella avrebbero dovuto chiederla da tempo gli stessi lavoratori, o almeno la maggioranza di loro. Perché non si può difendere il diritto alla malattia retribuita senza combatterne gli abusi più gravi e diffusi, come quelli che ancora recentemente hanno caratterizzato lo stabilimento di Pomigliano.
Qualcuno obietta che si incomincia così e non si sa dove si va a finire.
L’argomento dello slippery slope, del “piano inclinato”, è sempre stato il cavallo di battaglia di tutti i peggiori conservatorismi. Lo è anche in questo caso. Non ci si può chiudere a riccio contro tutte le innovazioni: in questo modo, per evitare le innovazioni cattive si chiude la porta anche a quelle buone.
Perché è cosi difficile avviare il cambiamento in Italia al fine di adattare con continuità le istituzioni ai bisogni ed alle esigenze del Paese?
Perché siamo un Paese in cui il pragmatismo è molto svalutato. Un Paese bloccato da troppi circoli viziosi.
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