Il processo di apertura del settore dei servizi pubblici locali non è andato avanti, in questi anni, in maniera omogenea. Da qui partirei, senza la pretesa di essere esaustivo, ma solo per dare conto di questa disomogeneità con riferimento ai principali servizi a rete, e per trarne indicazioni operative al fine di provare ad individuare – in un’ottica di possibili driver industriali – i possibili futuri assetti per le ex municipalizzate.
Per quanto riguarda l’energia elettrica, la liberalizzazione ha fatto in questi anni indubbiamente passi in avanti, anche se meritano un approfondimento gli scenari aperti dalla scelta di rientro nel nucleare e, più in generale, del mix produttivo prospettico delineato (il 25-25-50 proposto dall’ex Ministro Scajola). Infatti, gli assetti di mercato corrono il rischio di essere pesantemente messi in discussione da un approccio che non consideri – magari per proporre idonee soluzioni – le difficoltà che possono nascere nel momento in cui si ipotizza che il 50% del mercato abbia prezzi che non si determinano nel mercato stesso, ma sono fissati dal potere politico. Sia chiaro: non è qui in discussione l’opportunità – condivisa – di riequilibrare e diversificare le nostre fonti di produzione. Ma se, com’è naturale nel medio - breve periodo, alle fonti rinnovabili deve essere garantito, attraverso forme di incentivazione, un certo prezzo che le renda economicamente sostenibili, e se chi si candida a fare il nucleare chiede una qualche forma di assicurazione sui prezzi di vendita dell’energia (e se questo soggetto, tra l’altro, è l’incumbent e quindi parte in una posizione “non di svantaggio” in termini di mix di produzione e, quindi, di modulazione), alla fine cosa rimane del mercato?
Per quanto riguarda l’energia elettrica, la liberalizzazione ha fatto in questi anni indubbiamente passi in avanti, anche se meritano un approfondimento gli scenari aperti dalla scelta di rientro nel nucleare e, più in generale, del mix produttivo prospettico delineato (il 25-25-50 proposto dall’ex Ministro Scajola). Infatti, gli assetti di mercato corrono il rischio di essere pesantemente messi in discussione da un approccio che non consideri – magari per proporre idonee soluzioni – le difficoltà che possono nascere nel momento in cui si ipotizza che il 50% del mercato abbia prezzi che non si determinano nel mercato stesso, ma sono fissati dal potere politico. Sia chiaro: non è qui in discussione l’opportunità – condivisa – di riequilibrare e diversificare le nostre fonti di produzione. Ma se, com’è naturale nel medio - breve periodo, alle fonti rinnovabili deve essere garantito, attraverso forme di incentivazione, un certo prezzo che le renda economicamente sostenibili, e se chi si candida a fare il nucleare chiede una qualche forma di assicurazione sui prezzi di vendita dell’energia (e se questo soggetto, tra l’altro, è l’incumbent e quindi parte in una posizione “non di svantaggio” in termini di mix di produzione e, quindi, di modulazione), alla fine cosa rimane del mercato?
Nel gas, al contrario, la situazione appare più articolata: se la possibile definizione di un congruo numero di ambiti di partenza, di una certa dimensione, con l’obiettivo di stimolare poi un’ulteriore riduzione naturale, spinta dal mercato, appare coerentemente funzionale ad una razionalizzazione del settore, il permanere di un sostanziale monopolio di fatto relativamente all’approvvigionamento della materia prima ed al governo delle infrastrutture di trasporto e di stoccaggio non lasciano ben sperare, e pongono pesanti interrogativi in merito alle possibilità di affermazione di una reale competizione nel settore. Competizione infatti che, per poter usare la leva prezzo al fine di favorire gli switch nel civile, ha bisogno di un’apertura significativa del mercato a monte della distribuzione.
Quanto al settore idrico, va per prima cosa sottolineato come ancora una volta si sia preferito l’approccio mordi e fuggi (con poche norme inserite all’ultimo minuto nella legge comunitaria) rispetto alla costruzione di un quadro normativo organico. La dimostrazione emblematica di questo sta nella mancata previsione di un’Autorità Indipendente di Regolazione del settore: come è infatti realisticamente ipotizzabile di poter intervenire in un settore così delicato e sensibile senza considerare che il processo che si vuole avviare ha bisogno di essere garantito da un soggetto terzo, autorevole ed indipendente? E questo per una serie di buone ragioni, che vanno dalla necessità di individuare tariffe che consentano gli investimenti necessari alla manutenzione ed allo sviluppo della rete, senza che questo faccia perdere di vista l’aspetto sociale e comune del bene acqua, al bisogno di prevedere forme di standardizzazione dei bandi e dei contratti, così da evitare il rischio di cattura delle amministrazioni periferiche (specie se di piccole dimensioni) da parte dei soggetti gestori, fino alla necessità di mantenere in maniera adeguata convenzioni complesse e di durata trentennale. Pensare di fare tutto questo senza dare a tutti (amministrazioni periferiche, cittadini ed imprese) la garanzia di un’Autorità Indipendente di Regolazione significa non capire come funzionano questi mercati e questi servizi, e limitarsi a fare norme-manifesto senza poi porsi il problema di dare loro reale efficacia (e tutti sappiamo, fin dalle grida manzoniane quanto questa sia prassi purtroppo diffusa nel nostro Paese…).
Se questo è lo stato dell’arte per i processi di liberalizzazione dei settori, che dire dei possibili futuri assetti azionari per le ex municipalizzate?
Certamente alcuni effetti scomposti potrebbero essere prodotti dalle disposizioni del decreto Ronchi che, andando a modificare l’articolo 23-bis, vincolano le imprese che vogliano mantenere gli affidamenti in house ad allargare l’azionariato a soci privati. Prescindendo pure dall’analisi specifica di alcuni aspetti delicati della norma, quale ad esempio quello del rischio di una svalorizzazione del patrimonio pubblico in conseguenza della contemporanea immissione sul mercato di quote estremamente significative delle principali public utilities locali italiane, resta ancora aperto il tema di come possa essere riarticolato il ruolo del pubblico in questi settori. Non vi è dubbio, a parere di chi scrive, che dal superamento del conflitto di ruoli/interessi in questo campo (proprietario, regolatore, difensore degli interessi della collettività) il sistema non potrà che trarre giovamento, con un pubblico che sempre più si concentra sul ruolo di regolatore (ed impara a farlo davvero, superando quelle difficoltà che oggi fanno sì che la stragrande maggioranza delle amministrazioni locali sia del tutto priva delle competenze necessarie a svolgere tale ruolo in maniera incisiva ed efficace) ed un mercato che si dispiega ponendo al centro l’esigenza dei cittadini/consumatori di avere servizi fondamentali quali quelli in esame di qualità adeguata, a prezzi accessibili, con la possibilità di sostituire il fornitore se si dimostra inadempiente.
Ma, detto questo, qualche ulteriore osservazione va spesa in merito ai percorsi attraverso i quali giungere all’obiettivo, ed in particolare al ruolo – di cui tanto si sta parlando – delle Fondazioni Bancarie, su cui mi pare che vi sia qualche confusione. In tempi non sospetti, con Angelo Miglietta , avevamo prefigurato una possibilità ben precisa, e cioè quella che le Fondazioni intervenissero acquisendo la proprietà delle reti infrastrutturali dei servizi locali, ridisegnando così la trama dei rapporti tra Enti locali, imprese locali di pubblici servizi e istituzioni finanziarie radicate nel territorio, quali le Fondazioni Bancarie.
Il processo di separazione degli asset patrimoniali dall’azienda di gestione dei servizi può, infatti, generare una serie di conseguenze particolarmente significative per gli stakeholder delle multiutilities, in quanto la riduzione dell’incidenza del capitale investito nella società di servizi non comporta un’automatica perdita di valore, perché questo si genera sulla base dei risultati della gestione. Con la separazione viene poi distinta la commistione di rischio esistente fra l’azienda di gestione e quella che contempla la gestione delle infrastrutture. Si tratta di attività che, anche se intimamente correlate, presentano profili di rischio del tutto diversi per le caratteristiche del loro processo economico e delle correlate manifestazioni finanziarie.
Il sistema delle reti e delle infrastrutture si caratterizza per l’elevatissimo livello di intensità di capitale delle attività. Questa peculiarità si combina poi con una durata delle stesse assai superiore rispetto a quella intrinsecamente assunta attraverso il processo di ammortamento che viene utilizzato nell’esperienza delle multiutilities italiane. La natura capital intensive dell’azienda-infrastrutture, la durata certamente prolungata nel tempo di questi particolari cespiti, oltre i limiti intrinsecamente assunti con il processo di ammortamento e la loro natura di monopolio naturale conferiscono a questo ramo d’azienda un profilo particolare, caratterizzato da un basso profilo di rischio finanziario. La prevedibilità del flusso che intrinsecamente ad esse si associa, calcolato attraverso meccanismi tariffari sensibili al valore dell’investimento infrastrutturale, rafforza ulteriormente la solidità della azienda-infrastrutture, concorrendo a definire una nuova riduzione del già contenuto profilo di rischio finanziario.
Del tutto diverse sono invece le caratteristiche dell’azienda di servizi. Essa si deve caratterizzare per l’efficacia del servizio e la capacità di garantire una crescente customer satisfaction, che non può di sicuro limitarsi alla tradizionale attenzione all’efficienza.
In questo caso la posizione finanziaria netta delle società focalizzate sull’attività di gestione dovrebbe caratterizzarsi per un ridotto indebitamento (limitato al sostegno dell’investimento in capitale circolante commerciale) e per una continua ricerca di economie di scala e di scopo, in una prospettiva multibusiness solo se integrata da sinergie operative, in particolare sul fronte della produzione di servizi.
Se è perciò vero che le due tipologie di azienda sono tra loro correlate, è anche chiara la significativa differenza dei profili rischio-rendimento delle due aziende, sia sul piano economico-produttivo, sia su quello finanziario. In altre parole, dovrebbe ridursi il costo del capitale delle due entità post-separazione.
Anche sul piano industriale si rivelano interessanti opportunità per le multiutilities, soprattutto nella prospettiva di rafforzare con la separazione la loro capacità competitiva. Con la separazione, infatti, si consegue l’importante obiettivo di ridurre il capitale investito e, di riK esso, pure l’indebitamento, migliorando il profilo di rischio dell’investitore. Ne consegue una stabilizzazione della dinamica del rimborso dell’indebitamento relativo alla società di gestione, che libera così tutte le sue potenzialità sul fronte del miglioramento del servizio, alla ricerca delle sinergie che possono derivare in particolare dal processo di aggregazione con realtà simili. È infatti opinione diffusa che le fonti principali di sinergie per le multiutilities siano rappresentate da economie di scala e di esperienza che scaturiscono dalla contiguità territoriale. La riduzione del peso patrimoniale di tali realtà non può che facilitare il rapporto di cambio e ridurre le resistenze che derivano dalla perdita dell’identità territoriale, in presenza di fusioni tra realtà riferite a territori diversi pur se contigui.
Lo scorporo infatti “toglie dal campo” il tema del riconoscimento dei valori patrimoniali, per trasferire il ragionamento al tema della capacità commerciale e quindi di produzione dei servizi. Si confrontano quindi patrimoni di clienti e non più asset, che spesso sono il frutto di processi di accumulazione di risorse nel corso di decenni e rispetto ai quali è più difficile trovare quell’omogeneità dei criteri che è fondamentale là dove si debba procedere alla valutazione delle imprese ai fini del con cambio. Non da ultimo, il mantenimento presso un soggetto pubblico di beni di primaria utilità – quali sono le reti – che consentono di fornire servizi in condizioni di monopolio naturale può costituire un momento di rafforzamento dello stesso processo di liberalizzazione e privatizzazione. Il rischio e le ostilità del contesto socio-economico sono infatti ridotte alle sole società di gestione.
Nel contesto così delineato, le Fondazioni Bancarie rappresentano il soggetto ideale che può investire nelle infrastrutture di rete di supporto all’erogazione dei servizi pubblici locali, in ragione della loro particolare natura e finalità, del consolidato rapporto che hanno con i territori d’origine, e di conseguenza per la valenza che tale intervento verrebbe ad assumere, consentendo alla collettività la possibilità di smobilizzare parte dell’investimento pubblico nelle reti, per destinarlo ad altri impieghi a sostegno della comunità locale, peraltro con la garanzia di un mantenimento di fatto della proprietà, sia pure sotto forma giuridica diversa, alla comunità stessa.
Cosa del tutto diversa è, invece, ipotizzare tout court l’entrata delle Fondazioni Bancarie nell’equity delle ex municipalizzate: al di là delle caratteristiche diverse dell’investimento che le Fondazioni stesse si troverebbero a fare (in un soggetto, in questo caso, che opera in un mercato che si spera sempre più liberalizzato e quindi, in quanto tale, maggiormente rischioso), quale sarebbe il risultato che si verrebbe ad ottenere? Certo, verrebbe evitato l’ingresso di soggetti imprenditoriali privati nelle compagini azionarie, le previsioni normative di cui all’art. 23-bis sarebbero formalmente rispettate, il controllo rimarrebbe – sia pure in misura più indiretta – nelle mani delle Amministrazioni Locali che, insieme ad altre espressioni del territorio, di fatto definiscono gli assetti di governo delle Fondazioni. Ma proprio così facendo si enfatizzerebbe ulteriormente il tema del conflitto di ruoli dell’Ente Pubblico (proprietario, regolatore, difensore degli interessi della collettività) di cui prima si parlava, poiché in questa ipotesi sarebbe ancora più difficile, per il cittadino/consumatore, avere una rappresentazione lineare ed esplicita della governance di chi gli fornisce servizi essenziali, finendo così per essere privato della possibilità di chiedere conto di quanto ricevuto in occasione (almeno) delle competizioni elettorali.
Quindi, in sintesi, appare più convincente e produttivo ragionare degli assetti dei mercati, puntando a rimuovere – attraverso una regolazione forte, indipendente, autorevole – quegli ostacoli che fanno sì che questi non siano ancora realmente concorrenziali, e chiedere alle ex municipalizzate di giocare su questo campo tutte le loro competenze e capacità, piuttosto che concentrare l’attenzione alla ridefinizione degli assetti proprietari delle imprese, magari per fare sì che, ancora una volta, “tutto cambi affinché non cambi nulla”.
Federico Testa, Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese all’Università degli Studi di Verona, componente della Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati e responsabile energia e servizi pubblici locali del Partito Democratico
(1) “Oltre l’art. 35. Creazione di valore e capacità competitiva con la separazione delle reti nelle multiutilities locali”, Management delle utilities, n. 1, gennaio-marzo 2004
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