Nella riunione della Direzione del Pd di sabato numerosi interventi hanno avuto per oggetto principale la politica del lavoro: tra i più esplicitamente favorevoli a una svolta decisa per il superamento del dualismo del nostro mercato del lavoro, oltre al mio intervento, quelli di Franco Marini, Ivan Scalfarotto e Ignazio Marino.
Quello che mi impressiona non è tanto lo scarto nel numero assoluto o nelle percentuali dei voti tra noi e l’attuale maggioranza: i consensi elettorali sono diventati sempre più volatili e, quando il vento come è probabile cambierà, potremo recuperare in fretta anche distacchi grossi come questi, se nel frattempo avremo curato la chiarezza e riconoscibilità della linea politica del partito, delle sue idee-forza. Mi impressiona di più il contrasto fra la ricchezza del nostro dibattito interno, del patrimonio di idee e di competenze di cui disponiamo (che a me sembra complessivamente superiore a quello del centro-destra), e l’incapacità del partito di compiere l’ultimo miglio indispensabile: estrarre da questo dibattito, da questo grande patrimonio le tre o quattro idee-forza sulle quali rendersi chiaro e riconoscibile per decine di milioni di elettori. Questa incapacità è dovuta solo in parte a un difetto di mezzi o tecniche di comunicazione: per la parte maggiore il difetto sta nell’incapacità del Pd di convincere se stesso delle proprie intuizioni migliori; quindi, a maggior ragione, di convincerne la maggioranza del Paese.
Faccio soltanto tre esempi, tratti tutti dalle poche materie in cui ho qualche competenza ed esperienza.
Sul terreno del miglioramento dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche, all’inizio della legislatura abbiamo condotto una bella battaglia in Senato, precedendo il ministro Brunetta con il nostro disegno di legge e ottenendo che i tre principi cardine della nostra proposta – trasparenza totale, valutazione indipendente e benchmarking, tutti e tre assenti nel disegno di legge originario del ministro – diventassero i cardini della nuova legge, con l’istituzione della nuova autorità indipendente per la trasparenza e la valutazione. Avremmo potuto e dovuto fare di questi temi, tutti popolarissimi nel Paese, le idee-forza di una grande campagna volta a far conoscere ed esercitare dal maggior numero possibile di persone il nuovo diritto di accesso incondizionato ai dati e documenti delle amministrazioni, a sviluppare la cultura della valutazione indipendente, del confronto pragmatico tra gli indici di performance di tutti i comparti delle amministrazioni pubbliche. Certo, avremmo dovuto mettere in evidenza anche i punti di dissenso, di critica anche dura alla legge Brunetta, per le sue parti sbagliate. Ma avremmo dovuto soprattutto mettere in evidenza le spaccature interne alla maggioranza proprio su questi temi (una conseguenza dello scontro fra Tremonti e Brunetta è che a quasi cinque mesi dal suo insediamento la nuova autorità indipendente non ha ancora gli strumenti economici per operare effettivamente). Perché non lo abbiamo fatto? Perché i sindacati della funzione pubblica sparavano a zero su questa legge; e il Pd non se l’è sentita di compiere la scelta veramente clamorosa, quella che la maggior parte dell’opinione pubblica avrebbe capito e apprezzato di più: quella cioè di fare della parte buona di quella legge la sua bandiera, di diventare il partito dell’opinione pubblica che mette il proprio fiato sul collo della dirigenza pubblica e dei politici al di sopra di essa, esigendo la fissazione di obbiettivi chiari e misurabili, la verifica del loro raggiungimento, la rimozione dei dirigenti incapaci, il riconoscimento e la premiazione di quelli capaci di realizzarli.
Per non saper scegliere tra il sindacato della funzione pubblica e l’opinione pubblica, abbiamo fatto il pesce in barile. Brunetta si è preso il merito della parte migliore della sua legge, che era originariamente roba nostra. E gli italiani non hanno identificato affatto il Pd come il partito della svolta nelle amministrazioni pubbliche.
Sul terreno della riforma delle libere professioni avremmo avuto addirittura un compito più facile, avendo alle spalle l’ottimo lavoro svolto da Pierluigi Bersani come ministro sul terreno delle liberalizzazioni, per la promozione di una sana concorrenza che abbassi il costo dei servizi, della costruzione di una società aperta alle nuove generazioni e al meglio che ci si offre nello scenario internazionale. Su questa linea avremmo avuto dalla nostra l’Unione Europea, l’Antitrust e tutte le associazioni imprenditoriali. Invece, per non saperci dare una linea chiara, finiamo per apparire tiepidamente incerti di fronte al Governo Berlusconi che punta decisamente sulla marcia indietro, sul ripristino delle barriere corporative.
Infine il tema caldissimo del dualismo del mercato del lavoro. Qui potremmo quanto meno valorizzare il risultato positivo – niente affatto irrilevante – di un biennio di dibattito interno al partito: l’individuazione e definizione precisa della figura del lavoratore “economicamente dipendente” come nuovo riferimento di un diritto del lavoro universale, capace veramente di applicarsi a tutta la forza-lavoro e non soltanto a metà di essa, come accade oggi. Tutti e quattro i progetti presentati in Parlamento (in ordine cronologico, Ichino, Madia, Nerozzi, Bobba) fanno propria questa idea: cioè che si debba scrivere un nuovo diritto del lavoro capace di applicarsi davvero in modo universale a tutta questa grande area, di cui oggi solo metà è coperta dallo Statuto dei lavoratori: quella del lavoro subordinato regolare a tempo indeterminato. Non siamo ancora riusciti a raggiungere un accordo tra tutti noi sui contenuti del diritto che a questa grande area deve applicarsi; ma non sarà difficile compiere in tempi brevi anche questo passo ulteriore, mettendo a confronto al nostro interno gli esponenti del mondo sindacale con quelli del mondo delle imprese. Ora, invece di accelerare in questa direzione, assistiamo all’ennesima frenata.
Sull’Unità di oggi leggiamo che il Pd opta non per il “contratto unico”, ma per un “diritto del lavoro unico”, capace di applicarsi a tutti, ai giovani come ai vecchi; ma leggiamo, al tempo stesso, che “l’articolo 18 non si tocca”. Le due affermazioni, lette insieme, possono avere un solo significato: cioè che promettiamo a tutti i giovani un rapporto a tempo indeterminato regolato dallo Statuto dei Lavoratori di quaranta anni fa. Se questo è il nostro messaggio, i giovani non ci crederanno. E faranno bene a non crederci, perché avremo promesso loro una cosa impossibile: alla rigida stabilità di una metà dei rapporti di lavoro dipendente il sistema risponderà necessariamente collocando tutta la flessibilità sull’altra metà. I giovani continueranno a percepire quel che percepiscono oggi: cioè che dell’assetto attuale del diritto del lavoro non vogliamo un profondo mutamento e che quindi ciò che attende la maggior parte di loro è un lavoro di serie B o di serie C.
Chi beneficerà della nostra rinuncia a riscrivere il diritto del lavoro per i nuovi rapporti di lavoro sarà soprattutto il ministro del Lavoro in carica, che potrà tranquillamente proseguire nella sua politica di accentuazione del regime di apartheid tra protetti e non protetti, rinfrancato nella sua inerzia dalla nostra su questo terreno. Intanto, le nuove generazioni possono attendere.
A chi obietta che Cgil e Cisl (ma non la Uil) oggi ci chiedono di “non toccare l’articolo 18” dobbiamo rispondere che non lo toccheremo per i lavoratori che esse rappresentano: quelli che un lavoro stabile già lo hanno nelle imprese medio-grandi o nel settore pubblico; ma che almeno nei rapporti di lavoro destinati a costituirsi da oggi in poi ci preoccupiamo anche di superare l’apartheid tra protetti e non protetti. Non ce lo chiedono i loro iscritti di oggi, ma ce lo chiedono i giovani, le nuove generazioni che oggi sono escluse dalla cittadella del lavoro regolare, i lavoratori di domani.
Sia chiaro: non mi nascondo affatto la difficoltà di cambiare linea, dopo un decennio in cui la vecchia sinistra ha indicato nell’articolo 18 un baluardo intoccabile di civiltà (e pazienza se di quel baluardo beneficiavano soltanto metà dei lavoratori dipendenti italiani). Osservo soltanto che un grande partito moderno, quale il Partito Democratico si propone di essere, deve saper anche condurre le battaglie necessarie per superare le incrostazioni culturali, per sgomberare il campo dai tabù, per invertire la rotta quando quella che si sta seguendo rischia di portare in un vicolo cieco.
Faccio soltanto tre esempi, tratti tutti dalle poche materie in cui ho qualche competenza ed esperienza.
Sul terreno del miglioramento dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche, all’inizio della legislatura abbiamo condotto una bella battaglia in Senato, precedendo il ministro Brunetta con il nostro disegno di legge e ottenendo che i tre principi cardine della nostra proposta – trasparenza totale, valutazione indipendente e benchmarking, tutti e tre assenti nel disegno di legge originario del ministro – diventassero i cardini della nuova legge, con l’istituzione della nuova autorità indipendente per la trasparenza e la valutazione. Avremmo potuto e dovuto fare di questi temi, tutti popolarissimi nel Paese, le idee-forza di una grande campagna volta a far conoscere ed esercitare dal maggior numero possibile di persone il nuovo diritto di accesso incondizionato ai dati e documenti delle amministrazioni, a sviluppare la cultura della valutazione indipendente, del confronto pragmatico tra gli indici di performance di tutti i comparti delle amministrazioni pubbliche. Certo, avremmo dovuto mettere in evidenza anche i punti di dissenso, di critica anche dura alla legge Brunetta, per le sue parti sbagliate. Ma avremmo dovuto soprattutto mettere in evidenza le spaccature interne alla maggioranza proprio su questi temi (una conseguenza dello scontro fra Tremonti e Brunetta è che a quasi cinque mesi dal suo insediamento la nuova autorità indipendente non ha ancora gli strumenti economici per operare effettivamente). Perché non lo abbiamo fatto? Perché i sindacati della funzione pubblica sparavano a zero su questa legge; e il Pd non se l’è sentita di compiere la scelta veramente clamorosa, quella che la maggior parte dell’opinione pubblica avrebbe capito e apprezzato di più: quella cioè di fare della parte buona di quella legge la sua bandiera, di diventare il partito dell’opinione pubblica che mette il proprio fiato sul collo della dirigenza pubblica e dei politici al di sopra di essa, esigendo la fissazione di obbiettivi chiari e misurabili, la verifica del loro raggiungimento, la rimozione dei dirigenti incapaci, il riconoscimento e la premiazione di quelli capaci di realizzarli.
Per non saper scegliere tra il sindacato della funzione pubblica e l’opinione pubblica, abbiamo fatto il pesce in barile. Brunetta si è preso il merito della parte migliore della sua legge, che era originariamente roba nostra. E gli italiani non hanno identificato affatto il Pd come il partito della svolta nelle amministrazioni pubbliche.
Sul terreno della riforma delle libere professioni avremmo avuto addirittura un compito più facile, avendo alle spalle l’ottimo lavoro svolto da Pierluigi Bersani come ministro sul terreno delle liberalizzazioni, per la promozione di una sana concorrenza che abbassi il costo dei servizi, della costruzione di una società aperta alle nuove generazioni e al meglio che ci si offre nello scenario internazionale. Su questa linea avremmo avuto dalla nostra l’Unione Europea, l’Antitrust e tutte le associazioni imprenditoriali. Invece, per non saperci dare una linea chiara, finiamo per apparire tiepidamente incerti di fronte al Governo Berlusconi che punta decisamente sulla marcia indietro, sul ripristino delle barriere corporative.
Infine il tema caldissimo del dualismo del mercato del lavoro. Qui potremmo quanto meno valorizzare il risultato positivo – niente affatto irrilevante – di un biennio di dibattito interno al partito: l’individuazione e definizione precisa della figura del lavoratore “economicamente dipendente” come nuovo riferimento di un diritto del lavoro universale, capace veramente di applicarsi a tutta la forza-lavoro e non soltanto a metà di essa, come accade oggi. Tutti e quattro i progetti presentati in Parlamento (in ordine cronologico, Ichino, Madia, Nerozzi, Bobba) fanno propria questa idea: cioè che si debba scrivere un nuovo diritto del lavoro capace di applicarsi davvero in modo universale a tutta questa grande area, di cui oggi solo metà è coperta dallo Statuto dei lavoratori: quella del lavoro subordinato regolare a tempo indeterminato. Non siamo ancora riusciti a raggiungere un accordo tra tutti noi sui contenuti del diritto che a questa grande area deve applicarsi; ma non sarà difficile compiere in tempi brevi anche questo passo ulteriore, mettendo a confronto al nostro interno gli esponenti del mondo sindacale con quelli del mondo delle imprese. Ora, invece di accelerare in questa direzione, assistiamo all’ennesima frenata.
Sull’Unità di oggi leggiamo che il Pd opta non per il “contratto unico”, ma per un “diritto del lavoro unico”, capace di applicarsi a tutti, ai giovani come ai vecchi; ma leggiamo, al tempo stesso, che “l’articolo 18 non si tocca”. Le due affermazioni, lette insieme, possono avere un solo significato: cioè che promettiamo a tutti i giovani un rapporto a tempo indeterminato regolato dallo Statuto dei Lavoratori di quaranta anni fa. Se questo è il nostro messaggio, i giovani non ci crederanno. E faranno bene a non crederci, perché avremo promesso loro una cosa impossibile: alla rigida stabilità di una metà dei rapporti di lavoro dipendente il sistema risponderà necessariamente collocando tutta la flessibilità sull’altra metà. I giovani continueranno a percepire quel che percepiscono oggi: cioè che dell’assetto attuale del diritto del lavoro non vogliamo un profondo mutamento e che quindi ciò che attende la maggior parte di loro è un lavoro di serie B o di serie C.
Chi beneficerà della nostra rinuncia a riscrivere il diritto del lavoro per i nuovi rapporti di lavoro sarà soprattutto il ministro del Lavoro in carica, che potrà tranquillamente proseguire nella sua politica di accentuazione del regime di apartheid tra protetti e non protetti, rinfrancato nella sua inerzia dalla nostra su questo terreno. Intanto, le nuove generazioni possono attendere.
A chi obietta che Cgil e Cisl (ma non la Uil) oggi ci chiedono di “non toccare l’articolo 18” dobbiamo rispondere che non lo toccheremo per i lavoratori che esse rappresentano: quelli che un lavoro stabile già lo hanno nelle imprese medio-grandi o nel settore pubblico; ma che almeno nei rapporti di lavoro destinati a costituirsi da oggi in poi ci preoccupiamo anche di superare l’apartheid tra protetti e non protetti. Non ce lo chiedono i loro iscritti di oggi, ma ce lo chiedono i giovani, le nuove generazioni che oggi sono escluse dalla cittadella del lavoro regolare, i lavoratori di domani.
Sia chiaro: non mi nascondo affatto la difficoltà di cambiare linea, dopo un decennio in cui la vecchia sinistra ha indicato nell’articolo 18 un baluardo intoccabile di civiltà (e pazienza se di quel baluardo beneficiavano soltanto metà dei lavoratori dipendenti italiani). Osservo soltanto che un grande partito moderno, quale il Partito Democratico si propone di essere, deve saper anche condurre le battaglie necessarie per superare le incrostazioni culturali, per sgomberare il campo dai tabù, per invertire la rotta quando quella che si sta seguendo rischia di portare in un vicolo cieco.
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