Alle parti sociali ancora non piace. Ma, valutata in base agli standard europei, la riforma messa a punto dal ministro Fornero appare come un apprezzabile compromesso, capace di contrastare le enormi distorsioni del nostro mercato del lavoro. La riforma affronta di petto precarietà, ammortizzatori sociali e flessibilità in uscita, ossia i nodi su cui da anni si discute senza risultati.
La cultura del «posto fisso» va superata, come nel resto d’Europa, ma l’Italia non può proporre ai giovani solo precarietà. La riforma Fornero razionalizza i contratti a termine, privilegiando l’apprendistato, scoraggiando gli abusi e incentivando le imprese a stabilizzare i rapporti di lavoro. La flessibilità non viene abolita, ma bonificata. Le aziende avranno qualche vincolo in più, ma saranno spinte verso percorsi di crescita basati sulla qualità del lavoro e del capitale umano.
In tema di ammortizzatori, la riforma poserà il tassello mancante di quel «nuovo welfare» tratteggiato quindici anni fa dalla Commissione Onofri: uno schema universale per tutti i lavoratori che perdono il posto. Si chiamerà Aspi (Assicurazione Sociale per l’Impiego), erogherà indennità per almeno un anno, con importi mensili fino a circa 1.100 euro. Verrà eliminato lo steccato fra lavoratori di serie A e di serie B: tutti saranno coperti sulla base di un diritto individuale. Come in Germania, la cassa integrazione si limiterà al sostegno di crisi congiunturali o di «buone» ristrutturazioni. Cesserà in altre parole il suo uso distorto per tenere in vita aziende decotte o sussidiare sine die lavoratori che non potranno più tornare al loro vecchio posto. Certo, le imprese dovranno versare un po’ più di contributi. Ma in tutta Europa l’assicurazione per l’impiego è a carico di datori e lavoratori. La sfida del costo del lavoro (che in Italia è troppo alto) va affrontata agendo su altre voci, ad esempio l’Irap. Quanto ai sindacati, dovranno rinunciare a ruoli di mediazione e poteri di veto in difesa degli insider. Potrebbero cogliere l’occasione per ripensare la propria funzione, in termini sia di servizi sia di rappresentanza.
Sul fronte della flessibilità in uscita, la riforma conferma le tutele previste dall’articolo 18 per i licenziamenti discriminatori (l’aspetto per cui si può davvero parlare di «conquista di civiltà»), mentre introduce forme di indennizzo economico per gli altri tipi di rottura contrattuale. La Cgil sta gridando «al lupo», ma le nuove regole sono quelle che governano i mercati del lavoro più equi ed efficienti d’Europa.
Si poteva fare di più? Certamente sì. I vincoli politici hanno però bloccato sul nascere proposte più ambiziose (come quelle di Pietro Ichino) e il tempo stringe. Proprio per questo appare oggi difficilmente accettabile che qualcuno pensi di boicottare l’accordo «all’ultimo miglio». E, nel caso, il governo tiri dritto. L’Europa aspetta e soprattutto aspettano i giovani. I quali si meritano, finalmente, una riforma che apra loro prospettive di buona occupazione, in condizioni di eguale trattamento e pari opportunità.
In tema di ammortizzatori, la riforma poserà il tassello mancante di quel «nuovo welfare» tratteggiato quindici anni fa dalla Commissione Onofri: uno schema universale per tutti i lavoratori che perdono il posto. Si chiamerà Aspi (Assicurazione Sociale per l’Impiego), erogherà indennità per almeno un anno, con importi mensili fino a circa 1.100 euro. Verrà eliminato lo steccato fra lavoratori di serie A e di serie B: tutti saranno coperti sulla base di un diritto individuale. Come in Germania, la cassa integrazione si limiterà al sostegno di crisi congiunturali o di «buone» ristrutturazioni. Cesserà in altre parole il suo uso distorto per tenere in vita aziende decotte o sussidiare sine die lavoratori che non potranno più tornare al loro vecchio posto. Certo, le imprese dovranno versare un po’ più di contributi. Ma in tutta Europa l’assicurazione per l’impiego è a carico di datori e lavoratori. La sfida del costo del lavoro (che in Italia è troppo alto) va affrontata agendo su altre voci, ad esempio l’Irap. Quanto ai sindacati, dovranno rinunciare a ruoli di mediazione e poteri di veto in difesa degli insider. Potrebbero cogliere l’occasione per ripensare la propria funzione, in termini sia di servizi sia di rappresentanza.
Sul fronte della flessibilità in uscita, la riforma conferma le tutele previste dall’articolo 18 per i licenziamenti discriminatori (l’aspetto per cui si può davvero parlare di «conquista di civiltà»), mentre introduce forme di indennizzo economico per gli altri tipi di rottura contrattuale. La Cgil sta gridando «al lupo», ma le nuove regole sono quelle che governano i mercati del lavoro più equi ed efficienti d’Europa.
Si poteva fare di più? Certamente sì. I vincoli politici hanno però bloccato sul nascere proposte più ambiziose (come quelle di Pietro Ichino) e il tempo stringe. Proprio per questo appare oggi difficilmente accettabile che qualcuno pensi di boicottare l’accordo «all’ultimo miglio». E, nel caso, il governo tiri dritto. L’Europa aspetta e soprattutto aspettano i giovani. I quali si meritano, finalmente, una riforma che apra loro prospettive di buona occupazione, in condizioni di eguale trattamento e pari opportunità.
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