Il confronto tra Governo e parti sociali è così arrivato alla stretta finale. E qui il dissenso si è concentrato – come prevedibile e previsto – sulla madre di tutte le questioni: quella della disciplina del licenziamento per motivi economici od organizzativi. Il ministro del Lavoro propone che in questo caso, quando il giudice non sia convinto della giustificatezza del licenziamento, la sanzione consista soltanto in un congruo indennizzo.
La Cgil chiede invece che sia lasciata al giudice la possibilità, in questo caso, di disporre anche la reintegrazione coattiva del lavoratore. Propongo al riguardo alcune considerazioni.
1. Property rule vs. liability rule - La regola della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento ritenuto dal giudice non sufficientemente giustificato è sostanzialmente una property rule: dello stesso tipo, per intenderci, della regola che impone l’abbattimento dell’opera costruita abusivamente dal vicino, in violazione del diritto di proprietà (1). La regola dell’indennizzo è invece sostanzialmente una liability rule, cioè una norma che consente all’obbligato libertà di scelta, responsabilizzandolo in riferimento alle “esternalità negative”, cioè obbligandolo a indennizzare chi subisca un pregiudizio per effetto della sua scelta.
Il problema attuale, nel mercato del lavoro italiano, è proprio quello del passaggio da un regime di job property a un regime nel quale sia protetta la sicurezza economica e professionale del lavoratore nel passaggio alla nuova occupazione, ma non la sua inamovibilità rispetto a un determinato posto di lavoro. Altrimenti, il rischio è quello che il “diritto di proprietà” del lavoratore sul posto di lavoro si trasformi talvolta in una sorta di “manomorta”, che impone la conservazione di strutture obsolete, di rami secchi, dando luogo nei casi limite a posizioni di sostanziale rendita parassitaria, impedendo la necessaria evoluzione del tessuto produttivo. Si obietterà che un giudice è ben capace di distinguere il ramo secco dal ramo florido; ma il fatto è che – quando l’intera impresa non sia già in stato pre-fallimentare – la qualificazione del singolo ramo o rametto come secco o ancora vitale è estremamente opinabile, dipendendo in larga misura dall’orientamento pro-labor o pro-business del magistrato. Se dalla valutazione di quest’ultimo può derivare la reintegrazione del lavoratore, magari anche soltanto per due o tre anni in attesa della sentenza definitiva, questo rischio per l’imprenditore si avvicina molto a un divieto di licenziare (ho spiegato più compiutamente questo effetto dalla disciplina attuale dei licenziamenti nel terzo capitolo del mio ultimo libro, Inchiesta sul lavoro, Mondadori).
In un certo senso, il passaggio dalla property rule alla liability rule in materia di lavoro presenta, paradossalmente, qualche analogia con quello che avvenne dopo la Rivoluzione francese, con il nuovo diritto civile e commerciale contenuto nel “codice Napoleone” (diffusosi rapidamente in tutta Europa e rivelatosi capace di penetrare anche nell’ordinamento britannico, nonostante che lì le truppe napoleoniche non fossero arrivate). Il nuovo ordinamento civile sacrificò nettamente i diritti di proprietà fondiaria e le rendite – di origine feudale e signorile – agli interessi della borghesia industriosa: il nuovo ordinamento privilegiava, cioè, le esigenze di sviluppo dell’industria e dei traffici rispetto all’ingessatura dei diritti proprietari, delle rendite parassitarie, dei vincoli perpetui di qualsiasi genere. Oggi l’Italia – soprattutto nel settore pubblico, ma in qualche misura anche in quello privato - si trova in una situazione per certi aspetti analoga, anche se ovviamente qui i tipi di rendite e di vincoli sono molto diversi. In questa situazione:
– la job property esercitata dalle vecchie generazioni sui posti di lavoro in alcuni casi diventa una sorta di “manomorta”, che rende non contendibili e difficilmente rivitalizzabili certi posti di lavoro e comporta la conservazione dei rami secchi, almeno finché il bilancio dell’impresa non vada in rosso;
– per reazione al regime di job property vigente nei rapporti di lavoro regolari, gli imprenditori tendono ad assumere solo con i contratti di lavoro precario e di “collaborazione autonoma”, rinunciando conseguentemente a investire sulla formazione professionale dei lavoratori ingaggiati in questo modo;
– le nuove generazioni hanno grande difficoltà (rispetto alle vecchie) di accesso alla job property; ma rischiano di rimanere anche senza il lavoro precario, per difetto di formazione e per il ristagnare dell’economia prodotto dall’ingessatura del sistema.
L’ingessatura del sistema non dipende, ovviamente, soltanto dal regime di job property vigente nel settore pubblico e nelle aziende private medio-grandi. Ma questo regime certamente vi contribuisce in misura rilevante.
2. Il severance cost come filtro ideale delle scelte economico-organizzative imprenditoriali - Se la scelta è nel senso della liability rule, il legislatore si trova di fronte alla ulteriore alternativa tra disporre a favore del lavoratore un indennizzo automatico, che scatta in qualsiasi caso di licenziamento, e disporre invece che tale indennizzo scatti soltanto all’esito di un controllo giudiziale sui motivi del licenziamento. A me sembra che non possa esservi dubbio sul punto che per il lavoratore, a parità di altre condizioni, la prima soluzione sia la migliore.
A questa tesi Tiziano Treu obietta, in un interessante articolo pubblicato su Europa nei giorni scorsi, che l’articolo 30 della Carta di Nizza dei Diritti Fondamentali imporrebbe il controllo giudiziale anche sull’eventuale motivo economico del licenziamento. A me sembra che le cose non stiano così.
L’articolo 30 recita testualmente: “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Questa norma non vincola affatto il legislatore nazionale a istituire un controllo giudiziale sul merito delle scelte imprenditoriali di gestione aziendale, bensì impone – questo sì – che il lavoratore sia tutelato contro il licenziamento arbitrario, discriminatorio, o comunque dettato da motivi illeciti. La norma, comunque, nulla dice circa la sanzione che deve essere comminata dalla legge nazionale per il licenziamento in ipotesi “ingiustificato”, consentendo pacificamente che la sanzione stessa consista soltanto in un indennizzo monetario.
Quand’anche, dunque, l’articolo 30 della Carta di Nizza imponesse un controllo giudiziale esteso al merito delle scelte di gestione aziendale, esso consentirebbe comunque che a un esito negativo del controllo giudiziale consegua per il lavoratore soltanto il diritto all’indennizzo monetario. Se questo è vero, non si vede come possa essere considerato incompatibile con questa norma sovranazionale un ordinamento statale che preveda un indennizzo monetario in qualsiasi caso di licenziamento per motivo economico od organizzativo, riservando al giudice la sola funzione di controllare che tale motivo non ne nasconda uno di natura discriminatoria o di rappresaglia: per il lavoratore è evidentemente meglio avere diritto all’indennizzo in ogni caso, piuttosto che avervi diritto soltanto in caso di esito positivo di una controversia giudiziale (per una più compiuta argomentazione su questo punto rinvio al mio saggio pubblicato nel 2006: La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti).
D’altra parte, poiché il “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento consiste, in ultima analisi, nella perdita attesa dal datore di lavoro per effetto della prosecuzione del rapporto, non si vede davvero quale “filtro” delle scelte imprenditoriali possa essere migliore di un severance cost pari alla perdita che il legislatore ritenga idonea a giustificare lo scioglimento del rapporto (restando ovviamente al giudice la funzione di accertare, anche mediante presunzioni semplici, che dietro il motivo economico-organizzativo non se ne nasconda uno discriminatorio o di rappresaglia antisindacale: nel qual caso si applicherà la reintegrazione). Per questo motivo non riesco a comprendere la preferenza espressa da Cisl e Uil per la soluzione dell’indennizzo all’esito del giudizio, rispetto alla soluzione dell’indennizzo automatico.
3. Perché è bene che nel severance cost sia compreso anche un trattamento complementare di disoccupazione – In generale i periodi di disoccupazione tendono ad allungarsi in corrispondenza con la durata del sostegno del reddito di cui il disoccupato gode. Per evitare questo effetto pesantemente negativo è indispensabile la capacità effettiva di condizionare l’erogazione alla disponibilità effettiva del lavoratore. Oggi i servizi pubblici italiani sono totalmente privi del know-how necessario per l’esercizio di questa condizionalità nell’erogazione del sostegno del reddito al lavoratore disoccupato. Questa incapacità incide pesantemente sulla durata delle erogazioni, quindi sul fabbisogno complessivo.
L’unico modo in cui questo nostro difetto di know-how può essere ovviato consiste nell’attivare gli incentivi giusti, nei confronti di chi può realisticamente individuare i servizi di assistenza efficienti e far funzionare la condizionalità necessaria. Questo è possibile oggi soltanto coniugando strettamente il trattamento universale di disoccupazione erogato dall’Inps (che è incapace di esercitare la necessaria condizionalità in questo campo) con un trattamento complementare a carico dell’impresa che licenzia, strutturato in modo da gravare di meno per un primo periodo ed erogato sulla base di un “contratto di ricollocazione” il cui standard minimo sia fissato per legge, firmato dal lavoratore con l’impresa. Durante il primo periodo l’impresa stessa sarà così fortemente incentivata a scegliere il meglio delle società di outplacement, e curare che quella prescelta fornisca il servizio di tutoraggio nel modo migliore.
Sarà poi compito delle Regioni coprire in tutto o in buona parte il costo standard di mercato dei servizi di outplacement, attingendo ai contributi del Fondo Sociale Europeo oggi inutilizzati e riqualificando la propria spesa in questo campo, sulla base di leggi regionali che prevedano accordi-quadro regionali e/o convenzioni individuali con le singole imprese interessate.
Il fatto che il trattamento complessivo di disoccupazione sia composto da una parte coperta dall’assicurazione generale e una parte a carico dell’impresa che licenzia consente di ridurre l’entità del contributo assicurativo per (evitando un indebito allargamento del cuneo contributivo) e al tempo stesso di istituire un premio implicito per l’impresa più capace di manpower planning.
La firma del “contratto di ricollocazione” tra impresa e lavoratore può infine costituire infine un potente fattore di riduzione del contenzioso giudiziale sul licenziamento, che di fatto finirà coll’attivarsi soltanto nei casi in cui il lavoratore ne denuncerà la natura discriminatoria o di rappresaglia.
(1) Questa affermazione trova conferma nel manifesto firmato proprio in questi giorni da un gruppo di giuslavoristi facenti capo alla rivista Lavoro e diritto, tra i quali Umberto Romagnoli e Luigi Mariucci, in difesa dell’impianto fondamentale della disciplina attuale dei licenziamenti, nel quale si legge questa frase: “Se un licenziamento è illegittimo, l’articolo 18 dispone che quell’atto sia rimosso , come accade quando si fa abbattere l’opera costruita da un vicino lesiva del diritto di proprietà del confinante…“. Lo stesso manifesto prosegue così: “…e come accade in tutte le forme di inadempimento contrattuale, in cui è il creditore adempiente che può scegliere tra esecuzione del contratto e risarcimento dei danni”; ma qui gli autori del manifesto sembrano dimenticare che, in materia di contratti, dal Codice Napoleone in poi la regola generale è quella del divieto di vincoli perpetui e pertanto del diritto di recesso di ciascuna delle parti dal contratto a tempo indeterminato. Se dunque si vuole fare riferimento al diritto comune dei contratti, non si può identificare senz’altro il licenziamento con l’inadempimento; e occorre riconoscere che la regola generale è la recedibilità, non la perpetuità del rapporto.
In un certo senso, il passaggio dalla property rule alla liability rule in materia di lavoro presenta, paradossalmente, qualche analogia con quello che avvenne dopo la Rivoluzione francese, con il nuovo diritto civile e commerciale contenuto nel “codice Napoleone” (diffusosi rapidamente in tutta Europa e rivelatosi capace di penetrare anche nell’ordinamento britannico, nonostante che lì le truppe napoleoniche non fossero arrivate). Il nuovo ordinamento civile sacrificò nettamente i diritti di proprietà fondiaria e le rendite – di origine feudale e signorile – agli interessi della borghesia industriosa: il nuovo ordinamento privilegiava, cioè, le esigenze di sviluppo dell’industria e dei traffici rispetto all’ingessatura dei diritti proprietari, delle rendite parassitarie, dei vincoli perpetui di qualsiasi genere. Oggi l’Italia – soprattutto nel settore pubblico, ma in qualche misura anche in quello privato - si trova in una situazione per certi aspetti analoga, anche se ovviamente qui i tipi di rendite e di vincoli sono molto diversi. In questa situazione:
– la job property esercitata dalle vecchie generazioni sui posti di lavoro in alcuni casi diventa una sorta di “manomorta”, che rende non contendibili e difficilmente rivitalizzabili certi posti di lavoro e comporta la conservazione dei rami secchi, almeno finché il bilancio dell’impresa non vada in rosso;
– per reazione al regime di job property vigente nei rapporti di lavoro regolari, gli imprenditori tendono ad assumere solo con i contratti di lavoro precario e di “collaborazione autonoma”, rinunciando conseguentemente a investire sulla formazione professionale dei lavoratori ingaggiati in questo modo;
– le nuove generazioni hanno grande difficoltà (rispetto alle vecchie) di accesso alla job property; ma rischiano di rimanere anche senza il lavoro precario, per difetto di formazione e per il ristagnare dell’economia prodotto dall’ingessatura del sistema.
L’ingessatura del sistema non dipende, ovviamente, soltanto dal regime di job property vigente nel settore pubblico e nelle aziende private medio-grandi. Ma questo regime certamente vi contribuisce in misura rilevante.
2. Il severance cost come filtro ideale delle scelte economico-organizzative imprenditoriali - Se la scelta è nel senso della liability rule, il legislatore si trova di fronte alla ulteriore alternativa tra disporre a favore del lavoratore un indennizzo automatico, che scatta in qualsiasi caso di licenziamento, e disporre invece che tale indennizzo scatti soltanto all’esito di un controllo giudiziale sui motivi del licenziamento. A me sembra che non possa esservi dubbio sul punto che per il lavoratore, a parità di altre condizioni, la prima soluzione sia la migliore.
A questa tesi Tiziano Treu obietta, in un interessante articolo pubblicato su Europa nei giorni scorsi, che l’articolo 30 della Carta di Nizza dei Diritti Fondamentali imporrebbe il controllo giudiziale anche sull’eventuale motivo economico del licenziamento. A me sembra che le cose non stiano così.
L’articolo 30 recita testualmente: “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Questa norma non vincola affatto il legislatore nazionale a istituire un controllo giudiziale sul merito delle scelte imprenditoriali di gestione aziendale, bensì impone – questo sì – che il lavoratore sia tutelato contro il licenziamento arbitrario, discriminatorio, o comunque dettato da motivi illeciti. La norma, comunque, nulla dice circa la sanzione che deve essere comminata dalla legge nazionale per il licenziamento in ipotesi “ingiustificato”, consentendo pacificamente che la sanzione stessa consista soltanto in un indennizzo monetario.
Quand’anche, dunque, l’articolo 30 della Carta di Nizza imponesse un controllo giudiziale esteso al merito delle scelte di gestione aziendale, esso consentirebbe comunque che a un esito negativo del controllo giudiziale consegua per il lavoratore soltanto il diritto all’indennizzo monetario. Se questo è vero, non si vede come possa essere considerato incompatibile con questa norma sovranazionale un ordinamento statale che preveda un indennizzo monetario in qualsiasi caso di licenziamento per motivo economico od organizzativo, riservando al giudice la sola funzione di controllare che tale motivo non ne nasconda uno di natura discriminatoria o di rappresaglia: per il lavoratore è evidentemente meglio avere diritto all’indennizzo in ogni caso, piuttosto che avervi diritto soltanto in caso di esito positivo di una controversia giudiziale (per una più compiuta argomentazione su questo punto rinvio al mio saggio pubblicato nel 2006: La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti).
D’altra parte, poiché il “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento consiste, in ultima analisi, nella perdita attesa dal datore di lavoro per effetto della prosecuzione del rapporto, non si vede davvero quale “filtro” delle scelte imprenditoriali possa essere migliore di un severance cost pari alla perdita che il legislatore ritenga idonea a giustificare lo scioglimento del rapporto (restando ovviamente al giudice la funzione di accertare, anche mediante presunzioni semplici, che dietro il motivo economico-organizzativo non se ne nasconda uno discriminatorio o di rappresaglia antisindacale: nel qual caso si applicherà la reintegrazione). Per questo motivo non riesco a comprendere la preferenza espressa da Cisl e Uil per la soluzione dell’indennizzo all’esito del giudizio, rispetto alla soluzione dell’indennizzo automatico.
3. Perché è bene che nel severance cost sia compreso anche un trattamento complementare di disoccupazione – In generale i periodi di disoccupazione tendono ad allungarsi in corrispondenza con la durata del sostegno del reddito di cui il disoccupato gode. Per evitare questo effetto pesantemente negativo è indispensabile la capacità effettiva di condizionare l’erogazione alla disponibilità effettiva del lavoratore. Oggi i servizi pubblici italiani sono totalmente privi del know-how necessario per l’esercizio di questa condizionalità nell’erogazione del sostegno del reddito al lavoratore disoccupato. Questa incapacità incide pesantemente sulla durata delle erogazioni, quindi sul fabbisogno complessivo.
L’unico modo in cui questo nostro difetto di know-how può essere ovviato consiste nell’attivare gli incentivi giusti, nei confronti di chi può realisticamente individuare i servizi di assistenza efficienti e far funzionare la condizionalità necessaria. Questo è possibile oggi soltanto coniugando strettamente il trattamento universale di disoccupazione erogato dall’Inps (che è incapace di esercitare la necessaria condizionalità in questo campo) con un trattamento complementare a carico dell’impresa che licenzia, strutturato in modo da gravare di meno per un primo periodo ed erogato sulla base di un “contratto di ricollocazione” il cui standard minimo sia fissato per legge, firmato dal lavoratore con l’impresa. Durante il primo periodo l’impresa stessa sarà così fortemente incentivata a scegliere il meglio delle società di outplacement, e curare che quella prescelta fornisca il servizio di tutoraggio nel modo migliore.
Sarà poi compito delle Regioni coprire in tutto o in buona parte il costo standard di mercato dei servizi di outplacement, attingendo ai contributi del Fondo Sociale Europeo oggi inutilizzati e riqualificando la propria spesa in questo campo, sulla base di leggi regionali che prevedano accordi-quadro regionali e/o convenzioni individuali con le singole imprese interessate.
Il fatto che il trattamento complessivo di disoccupazione sia composto da una parte coperta dall’assicurazione generale e una parte a carico dell’impresa che licenzia consente di ridurre l’entità del contributo assicurativo per (evitando un indebito allargamento del cuneo contributivo) e al tempo stesso di istituire un premio implicito per l’impresa più capace di manpower planning.
La firma del “contratto di ricollocazione” tra impresa e lavoratore può infine costituire infine un potente fattore di riduzione del contenzioso giudiziale sul licenziamento, che di fatto finirà coll’attivarsi soltanto nei casi in cui il lavoratore ne denuncerà la natura discriminatoria o di rappresaglia.
(1) Questa affermazione trova conferma nel manifesto firmato proprio in questi giorni da un gruppo di giuslavoristi facenti capo alla rivista Lavoro e diritto, tra i quali Umberto Romagnoli e Luigi Mariucci, in difesa dell’impianto fondamentale della disciplina attuale dei licenziamenti, nel quale si legge questa frase: “Se un licenziamento è illegittimo, l’articolo 18 dispone che quell’atto sia rimosso , come accade quando si fa abbattere l’opera costruita da un vicino lesiva del diritto di proprietà del confinante…“. Lo stesso manifesto prosegue così: “…e come accade in tutte le forme di inadempimento contrattuale, in cui è il creditore adempiente che può scegliere tra esecuzione del contratto e risarcimento dei danni”; ma qui gli autori del manifesto sembrano dimenticare che, in materia di contratti, dal Codice Napoleone in poi la regola generale è quella del divieto di vincoli perpetui e pertanto del diritto di recesso di ciascuna delle parti dal contratto a tempo indeterminato. Se dunque si vuole fare riferimento al diritto comune dei contratti, non si può identificare senz’altro il licenziamento con l’inadempimento; e occorre riconoscere che la regola generale è la recedibilità, non la perpetuità del rapporto.
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