Intervista a Pietro Micheli a cura di Antonino Leone che verrà pubblicata nel prossimo numero di Sistemi e Impresa
Le Pubbliche Amministrazioni in Italia rappresentano un punto di debolezza del sistema a causa della scarsa efficienza ed efficacia, dei ritardi nell’erogazione dei servizi e nei pagamenti alle imprese per la fornitura dei servizi ed opere e dei costi della burocrazia.
A due anni dall’approvazione della riforma Brunetta i benefici non si vedono ancora per i cittadini e per le imprese.
Per la grave crisi economica e finanziaria che interessa l’Italia servirebbe una PA efficiente ed efficace che incida positivamente sulla competitività delle imprese nello scenario globale e sulla qualità della vita dei cittadini in particolar modo per le classi più deboli che pagano gli effetti sociali della crisi.
Secondo il rapporto di Transparency International sulla percezione della corruzione nella pubblica amministrazione l’Italia si classifica al 67° posto a livello mondiale su 178 paesi, subito dopo Ruanda e Samoa e con il punteggio più basso dal 1997. L’alta corruzione significa bassa trasparenza del nostro paese.
L’applicazione della total disclosure in Italia, disposta dal D. Lgs n. 150/2009, insieme ad altri fattori rappresenta una inversione di tendenza ed una nuova considerazione del nostro paese con una ricaduta positiva sullo scenario competitivo globale.
La maggior parte degli enti locali ha preferito mantenere lo status quo e non avventurarsi nell’attuazione operativa del decreto anche a causa dell’insufficiente presenza di norme obbligatorie, dell’assenza di controlli e di sostegno da parte del Governo.
Del cambiamento delle PA, previsto dal D. Lgs. N. 150/2009, ne parliamo con Pietro Micheli, ex componente della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, docente di performance presso l’Università di Cranfield e consulente di alcune agenzie di valutazione delle amministrazioni pubbliche britanniche.
Ma è cosi difficile avviare un grande cambiamento delle PA in Italia?
Purtroppo sì. Ma questo sarebbe valido in qualsiasi contesto. Proclami riguardo a cambiamenti epocali ottenibili in poco tempo e con due soldi sono sempre da guardare con diffidenza. Sembra però che ci si caschi in continuazione. I grandi cambiamenti possono avvenire, ma richiedono una leadership e una determinazione molto forti: ahimè, ne’ l’una ne’ l’altra sono mai state di casa nell’attuale governo.
Non potremmo adattare almeno alcune buone pratiche sviluppate all’estero?
Assolutamente sì, ma la sindrome nel ‘not invented here’ (non inventato qui) è sempre pronta a colpire. Ci sono comunque delle organizzazioni pubbliche che si sono date da fare e bene, ma queste sono la minoranza e i loro successi sono dovuti più alla volontà e alle capacità dei singoli, che non a uno sforzo riformatore a livello nazionale.
Lei ha detto che le difficoltà che si incontrano dipendono da una visione prettamente giuridica e non manageriale. Cosa vuol dire?
In Italia hanno più importanza la correttezza formale e gli adempimenti (documenti, relazioni), che l’utilizzo efficiente delle risorse e la capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini. Un’organizzazione pubblica può redigere documenti programmatici perfettamente in linea con quanto indicato in un decreto, ma poi non utilizzare nulla di quanto vi è scritto. Si può sbandierare di essere trasparenti, limitandosi in realtà a mettere alcuni dati minimi sul sito Internet.
Il paradigma gestionale che, in modi e tempi diversi, altri paesi hanno cercato di introdurre, segue traiettorie completamente diverse, perché punta principalmente all’utilizzo migliore delle risorse (in termini di qualità, efficienza ecc.). Innanzitutto, si è spesso dato meno peso ai resoconti formali e più importanza ai risultati effettivamente conseguiti. Secondo, questo ha comportato delle forme di verifica dirette (audit), sia in termini di spesa sia di risultati, e quindi non basate unicamente su analisi documentali. Terzo, un’effettiva distinzione dei risultati conseguiti dalle amministrazioni ha reso possibili delle forme di finanziamento e regolamentazione mirate: le organizzazioni più virtuose hanno ricevuto più fondi e ottenuto maggior libertà di azione, e quindi più possibilità di innovare. Quelle incapaci di conseguire risultati soddisfacenti sono state penalizzate e hanno avuto un livello di controllo esterno più stringente.
Le amministrazioni centrali dello Stato e gli enti pubblici hanno avviato il processo di adattamento al D. Lgs. n. 150 del 2009. Infatti, risultano nel sito della CiVIT i documenti predisposti da introdurre nel 2011. Negli enti locali la situazione è diversa in quanto l’art. 13 del Decreto prevede dei protocolli di collaborazione tra la CiVIT e le associazioni delle autonomie locali. Tali associazioni non esercitano operativamente le funzioni di controllo e di sostegno alle autonomie locali in particolar modo ai comuni con il risultato che non si conoscono i risultati raggiunti ed il livello di attuazione della riforma. Condivide tale scelta che non aiuta i comuni a realizzare il performance management?
Purtroppo l’assenza di dati affidabili sull’efficacia della spesa pubblica (non si sa neanche quanto si spende, perciò figuriamoci se si può parlare di efficacia!), l’assenza di controllo vero e proprio (non solo documentale) e, ancor più, l’assenza di sostegno alle organizzazioni pubbliche rende ogni intervento a livello centrale praticamente vano. Ripeto, questo non vuol dire che nessuno stia facendo nulla. C’e’ chi fa, e bene, ma avrebbe fatto comunque, con o senza ‘riforma’. Chi non fa, semplicemente non farà.
La CiVIT costituita nella forma di una commissione e non di un’autorità indipendente e l’assenza di poteri di intervento sanzionatorio e di controllo hanno influito sull’attuazione efficace della riforma?
Assolutamente si. Se io non ho il potere di ispezionare e di eventualmente sanzionare l’operato delle organizzazioni pubbliche meno virtuose, allora non potrò mai intervenire efficacemente su cattiva gestione e sprechi (e sono tantissimi). Si poteva comunque lavorare di più sul campo, ma purtroppo non e’ stato e non sarà così.
La difficoltà di attuare il benchmarking nei settori delle PA che gestiscono i medesimi servizi (per esempio i comuni) e che adottano parametri diversi di misurazione e valutazione della performance rappresenta un ostacolo per attuare il miglioramento continuo della performance?
Il benchmarking è uno strumento utile perché ci può dare degli spunti verso il miglioramento delle performance – sia interne (efficienza) che esterne (efficacia e qualità) delle organizzazioni pubbliche. Certo e’ che, se introduco indicatori di performance diversi, la comparazione sarà difficile, se non impossibile. A questo riguardo, si poteva lavorare con gruppi di organizzazioni per definire degli indicatori comuni e rendere visibili i miglioramenti anche nel breve termine (l’idea di stabilire degli indicatori nazionali sarebbe stata un approccio sbagliato, a mio avviso).
Vi sono comuni che hanno confermato il Nucleo di valutazione e non hanno introdotto gli strumenti manageriali previsti dal Decreto (piano della performance, relazione della performance, sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa ed individuale). Il ciclo della performance può essere realizzato senza tali strumenti o altri indicati nel Decreto?
Il ciclo della performance richiede che gli strumenti da lei indicati siano introdotti e che vi sia un elemento di indipendenza o almeno di “distanza” tra il vertice politico-amministrativo e chi si occupa di valutazione. Se una delle due condizioni decade, allora siamo ritornati da dove eravamo partiti.
Molti sono i comuni che hanno applicato la trasparenza disciplinata dalla precedente normativa (retribuzioni, curriculum dei dirigenti, codice di disciplina). La trasparenza prevista dal Decreto va oltre ed è intesa come accessibilità totale alle informazioni. Quanto è importante la trasparenza totale nell’attuazione del Decreto e che effetti produce nei dipendenti e nei cittadini?
La trasparenza e’ fondamentale per la migliore gestione della cosa pubblica. Attraverso l’accessibilità dei dati, i cittadini possono finalmente contare di più e giocare un ruolo maggiormente incisivo, non solo come controllori, ma anche come “co-produttori” dei servizi e come utenti più informati e perciò responsabili. Se per trasparenza però si intende una serie di dati caricati su un sito web e utilizzati al massimo per chiacchierare sugli stipendi dei dipendenti pubblici, allora di miglioramenti ce ne saranno gran pochi.
Come fare per introdurre nei manager e nei dipendenti delle PA la cultura di impresa e come possono essere utilizzati gli strumenti della formazione e del reclutamento del personale per conseguire tale obiettivo?
Il reclutamento e la formazione sono fondamentali per introdurre la cultura gestionale di cui abbiamo parlato. Il problema e’ che di reclutamento non se ne potrà parlare per un bel pò e di formazione non se n’e’ mai fatta un granché.
Se si paragona l’Italia agli altri stati della UE, si nota la pressoché totale assenza in Italia di piani di formazione e di investimenti nel personale che vadano al di là di aggiornamenti sulla normativa. Se si considerano i periodi 2001-2003 e 2004-2006, si vede come l'incidenza della spesa per la formazione sul monte retribuzioni si sia mantenuta costantemente sotto all'1% (passando dallo 0,9% allo 0,7%) e la percentuale del personale che ha partecipato ai corsi di formazione sia diminuita del 2,7% in quegli stessi periodi. Ancor peggio, in proporzione, i dipendenti pubblici italiani sono in numero inferiore, più vecchi (età media circa 50 anni) e meno produttivi. Col blocco del turnover si passerà da 3.6 milioni a meno di 3.3 e, ovviamente, l’età’ media aumenterà ulteriormente.
Molto spesso il management pubblico usa l’espressione “bisogna lavorare di più” per giustificare l’insufficienza di risultati e per addossare ai dipendenti la responsabilità di non aver conseguito gli obiettivi programmati. Nel terzo millennio che tipo di leadership occorre nelle PA per iniziare un cammino all’insegna del cambiamento?
L’esortazione a lavorare di più è l’altro lato della medaglia della continua richiesta di fondi. Certo, lavorare di più può essere utile, tanto quanto l’ottenimento di maggiori risorse. Il punto è che nel settore pubblico bisogna iniziare a lavorare meglio. La pubblica amministrazione italiana sta affondando, soffocata da leggi, decreti e linee guida che danno origine a documenti da incubo la cui lunghezza è inversamente proporzionale all’utilità. L’unico modo per venirne fuori è di ridurre sprechi e burocrazia.
Inoltre, come lei suggerisce, c'è bisogno di dimostrare leadership, dando fiducia ai propri dipendenti e dimostrando loro che i sacrifici (necessari in situazioni difficili come quella attuale) porteranno a uno stato migliore delle cose. Il leader deve sostenere i propri collaboratori e farsi carico dei loro problemi perché comandare soltanto non è sufficiente per avviare il cambiamento. Il morale, la fiducia in sé stessi e il senso di appartenenza alla propria organizzazione sono i tre punti critici su cui il prossimo Ministro per la Pubblica Amministrazione dovrà concentrarsi fin dall'inizio.
Parliamo di Cambiamento nella PA, come dovrebbe cambiare la nostra pubblica amministrazione per essere di sostegno alle imprese?
La PA deve passare dalla prospettiva autoreferenziale spesso dominante a una rivolta all'esterno.
Capire e soddisfare il più possibile le priorità e le necessità delle imprese si traduce in riduzione dei passaggi burocratici per ottenere servizi, permessi e autorizzazioni, ma anche in risposte più precise e accurate.
La maggior parte della domanda per le PA è "domanda fallita" ("failure demand"), cioè consiste in richieste derivate dall'incapacità' di soddisfare una domanda iniziale. Questo fa perdere tempo e soldi non solo alle PA, ma anche e soprattutto alle imprese.
Infine, la PA non deve assolutamente assumere un atteggiamento passivo, ma deve anche saper proporre e incentivare il tessuto imprenditoriale locale, cosa che molto spesso avviene poco e male.
Purtroppo sì. Ma questo sarebbe valido in qualsiasi contesto. Proclami riguardo a cambiamenti epocali ottenibili in poco tempo e con due soldi sono sempre da guardare con diffidenza. Sembra però che ci si caschi in continuazione. I grandi cambiamenti possono avvenire, ma richiedono una leadership e una determinazione molto forti: ahimè, ne’ l’una ne’ l’altra sono mai state di casa nell’attuale governo.
Non potremmo adattare almeno alcune buone pratiche sviluppate all’estero?
Assolutamente sì, ma la sindrome nel ‘not invented here’ (non inventato qui) è sempre pronta a colpire. Ci sono comunque delle organizzazioni pubbliche che si sono date da fare e bene, ma queste sono la minoranza e i loro successi sono dovuti più alla volontà e alle capacità dei singoli, che non a uno sforzo riformatore a livello nazionale.
Lei ha detto che le difficoltà che si incontrano dipendono da una visione prettamente giuridica e non manageriale. Cosa vuol dire?
In Italia hanno più importanza la correttezza formale e gli adempimenti (documenti, relazioni), che l’utilizzo efficiente delle risorse e la capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini. Un’organizzazione pubblica può redigere documenti programmatici perfettamente in linea con quanto indicato in un decreto, ma poi non utilizzare nulla di quanto vi è scritto. Si può sbandierare di essere trasparenti, limitandosi in realtà a mettere alcuni dati minimi sul sito Internet.
Il paradigma gestionale che, in modi e tempi diversi, altri paesi hanno cercato di introdurre, segue traiettorie completamente diverse, perché punta principalmente all’utilizzo migliore delle risorse (in termini di qualità, efficienza ecc.). Innanzitutto, si è spesso dato meno peso ai resoconti formali e più importanza ai risultati effettivamente conseguiti. Secondo, questo ha comportato delle forme di verifica dirette (audit), sia in termini di spesa sia di risultati, e quindi non basate unicamente su analisi documentali. Terzo, un’effettiva distinzione dei risultati conseguiti dalle amministrazioni ha reso possibili delle forme di finanziamento e regolamentazione mirate: le organizzazioni più virtuose hanno ricevuto più fondi e ottenuto maggior libertà di azione, e quindi più possibilità di innovare. Quelle incapaci di conseguire risultati soddisfacenti sono state penalizzate e hanno avuto un livello di controllo esterno più stringente.
Le amministrazioni centrali dello Stato e gli enti pubblici hanno avviato il processo di adattamento al D. Lgs. n. 150 del 2009. Infatti, risultano nel sito della CiVIT i documenti predisposti da introdurre nel 2011. Negli enti locali la situazione è diversa in quanto l’art. 13 del Decreto prevede dei protocolli di collaborazione tra la CiVIT e le associazioni delle autonomie locali. Tali associazioni non esercitano operativamente le funzioni di controllo e di sostegno alle autonomie locali in particolar modo ai comuni con il risultato che non si conoscono i risultati raggiunti ed il livello di attuazione della riforma. Condivide tale scelta che non aiuta i comuni a realizzare il performance management?
Purtroppo l’assenza di dati affidabili sull’efficacia della spesa pubblica (non si sa neanche quanto si spende, perciò figuriamoci se si può parlare di efficacia!), l’assenza di controllo vero e proprio (non solo documentale) e, ancor più, l’assenza di sostegno alle organizzazioni pubbliche rende ogni intervento a livello centrale praticamente vano. Ripeto, questo non vuol dire che nessuno stia facendo nulla. C’e’ chi fa, e bene, ma avrebbe fatto comunque, con o senza ‘riforma’. Chi non fa, semplicemente non farà.
La CiVIT costituita nella forma di una commissione e non di un’autorità indipendente e l’assenza di poteri di intervento sanzionatorio e di controllo hanno influito sull’attuazione efficace della riforma?
Assolutamente si. Se io non ho il potere di ispezionare e di eventualmente sanzionare l’operato delle organizzazioni pubbliche meno virtuose, allora non potrò mai intervenire efficacemente su cattiva gestione e sprechi (e sono tantissimi). Si poteva comunque lavorare di più sul campo, ma purtroppo non e’ stato e non sarà così.
La difficoltà di attuare il benchmarking nei settori delle PA che gestiscono i medesimi servizi (per esempio i comuni) e che adottano parametri diversi di misurazione e valutazione della performance rappresenta un ostacolo per attuare il miglioramento continuo della performance?
Il benchmarking è uno strumento utile perché ci può dare degli spunti verso il miglioramento delle performance – sia interne (efficienza) che esterne (efficacia e qualità) delle organizzazioni pubbliche. Certo e’ che, se introduco indicatori di performance diversi, la comparazione sarà difficile, se non impossibile. A questo riguardo, si poteva lavorare con gruppi di organizzazioni per definire degli indicatori comuni e rendere visibili i miglioramenti anche nel breve termine (l’idea di stabilire degli indicatori nazionali sarebbe stata un approccio sbagliato, a mio avviso).
Vi sono comuni che hanno confermato il Nucleo di valutazione e non hanno introdotto gli strumenti manageriali previsti dal Decreto (piano della performance, relazione della performance, sistema di misurazione e valutazione della performance organizzativa ed individuale). Il ciclo della performance può essere realizzato senza tali strumenti o altri indicati nel Decreto?
Il ciclo della performance richiede che gli strumenti da lei indicati siano introdotti e che vi sia un elemento di indipendenza o almeno di “distanza” tra il vertice politico-amministrativo e chi si occupa di valutazione. Se una delle due condizioni decade, allora siamo ritornati da dove eravamo partiti.
Molti sono i comuni che hanno applicato la trasparenza disciplinata dalla precedente normativa (retribuzioni, curriculum dei dirigenti, codice di disciplina). La trasparenza prevista dal Decreto va oltre ed è intesa come accessibilità totale alle informazioni. Quanto è importante la trasparenza totale nell’attuazione del Decreto e che effetti produce nei dipendenti e nei cittadini?
La trasparenza e’ fondamentale per la migliore gestione della cosa pubblica. Attraverso l’accessibilità dei dati, i cittadini possono finalmente contare di più e giocare un ruolo maggiormente incisivo, non solo come controllori, ma anche come “co-produttori” dei servizi e come utenti più informati e perciò responsabili. Se per trasparenza però si intende una serie di dati caricati su un sito web e utilizzati al massimo per chiacchierare sugli stipendi dei dipendenti pubblici, allora di miglioramenti ce ne saranno gran pochi.
Come fare per introdurre nei manager e nei dipendenti delle PA la cultura di impresa e come possono essere utilizzati gli strumenti della formazione e del reclutamento del personale per conseguire tale obiettivo?
Il reclutamento e la formazione sono fondamentali per introdurre la cultura gestionale di cui abbiamo parlato. Il problema e’ che di reclutamento non se ne potrà parlare per un bel pò e di formazione non se n’e’ mai fatta un granché.
Se si paragona l’Italia agli altri stati della UE, si nota la pressoché totale assenza in Italia di piani di formazione e di investimenti nel personale che vadano al di là di aggiornamenti sulla normativa. Se si considerano i periodi 2001-2003 e 2004-2006, si vede come l'incidenza della spesa per la formazione sul monte retribuzioni si sia mantenuta costantemente sotto all'1% (passando dallo 0,9% allo 0,7%) e la percentuale del personale che ha partecipato ai corsi di formazione sia diminuita del 2,7% in quegli stessi periodi. Ancor peggio, in proporzione, i dipendenti pubblici italiani sono in numero inferiore, più vecchi (età media circa 50 anni) e meno produttivi. Col blocco del turnover si passerà da 3.6 milioni a meno di 3.3 e, ovviamente, l’età’ media aumenterà ulteriormente.
Molto spesso il management pubblico usa l’espressione “bisogna lavorare di più” per giustificare l’insufficienza di risultati e per addossare ai dipendenti la responsabilità di non aver conseguito gli obiettivi programmati. Nel terzo millennio che tipo di leadership occorre nelle PA per iniziare un cammino all’insegna del cambiamento?
L’esortazione a lavorare di più è l’altro lato della medaglia della continua richiesta di fondi. Certo, lavorare di più può essere utile, tanto quanto l’ottenimento di maggiori risorse. Il punto è che nel settore pubblico bisogna iniziare a lavorare meglio. La pubblica amministrazione italiana sta affondando, soffocata da leggi, decreti e linee guida che danno origine a documenti da incubo la cui lunghezza è inversamente proporzionale all’utilità. L’unico modo per venirne fuori è di ridurre sprechi e burocrazia.
Inoltre, come lei suggerisce, c'è bisogno di dimostrare leadership, dando fiducia ai propri dipendenti e dimostrando loro che i sacrifici (necessari in situazioni difficili come quella attuale) porteranno a uno stato migliore delle cose. Il leader deve sostenere i propri collaboratori e farsi carico dei loro problemi perché comandare soltanto non è sufficiente per avviare il cambiamento. Il morale, la fiducia in sé stessi e il senso di appartenenza alla propria organizzazione sono i tre punti critici su cui il prossimo Ministro per la Pubblica Amministrazione dovrà concentrarsi fin dall'inizio.
Parliamo di Cambiamento nella PA, come dovrebbe cambiare la nostra pubblica amministrazione per essere di sostegno alle imprese?
La PA deve passare dalla prospettiva autoreferenziale spesso dominante a una rivolta all'esterno.
Capire e soddisfare il più possibile le priorità e le necessità delle imprese si traduce in riduzione dei passaggi burocratici per ottenere servizi, permessi e autorizzazioni, ma anche in risposte più precise e accurate.
La maggior parte della domanda per le PA è "domanda fallita" ("failure demand"), cioè consiste in richieste derivate dall'incapacità' di soddisfare una domanda iniziale. Questo fa perdere tempo e soldi non solo alle PA, ma anche e soprattutto alle imprese.
Infine, la PA non deve assolutamente assumere un atteggiamento passivo, ma deve anche saper proporre e incentivare il tessuto imprenditoriale locale, cosa che molto spesso avviene poco e male.
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