Volete costruire un’azienda di successo? Assumete giovani ben preparati. Perché giovani? Semplice: perché sono più svegli». Con la sua solita schiettezza Mark Zuckerberg si rivolse così, pochi mesi fa, ad una platea di imprenditori riunitasi all’Università di Stanford. I giovani sanno destreggiarsi con le tecnologie, non hanno bisogno di ricorrere sempre ai manuali d’istruzione, sanno risolvere da soli un sacco di cose, imparano alla svelta e hanno voglia e curiosità di farlo. E poi hanno vite più semplici, di solito non posseggono automobili, case o famiglie e possono concentrarsi sulle grandi idee, i progetti veramente interessanti e di lungo periodo. Insomma: competenze, entusiasmo, voglia di imparare e orizzonti lunghi. Ovvero tutto quello di cui avrebbe bisogno l’Italia e a cui invece rinuncia lasciando a casa milioni di giovani.
E’ questo quello che anche Mario Draghi ci ha ricordato ieri. Ribaltando il paradigma di senso comune secondo cui «non c’è lavoro per i giovani perché non c’è crescita», Draghi ha sottolineato che la relazione causale tra occupazione giovanile e crescita va anche in direzione opposta: più emarginiamo i giovani e meno crescita avremo. Perché con loro teniamo fuori dal sistema produttivo un gran potenziale di innovazione, di energie e competenze.
Ma quanto pesa questa emarginazione sulla nostra economia? Uno studio condotto dall’Istituto per la Competitività (iCom) e presentato la settimana scorsa a Roma stima che la disoccupazione giovanile (sotto i trenta anni) fa mancare oltre 5 miliardi di euro all’anno in termini di redditi netti. E se includiamo anche tutti quelli che non figurano nelle liste di disoccupazione ma che comunque non fanno niente (i cosiddetti Neet: non occupati né impegnati in alcun piano di studio o formazione), il reddito a cui rinuncia l’Italia sale a circa 23 miliardi l’anno. Riuscire a trovare un lavoro per questi giovani dovrebbe essere, quindi, la grande priorità dell’Italia.
Ma è sufficiente inventarsi qualche posto di lavoro in più, magari siglando accordi sindacali con ministeri o altri enti per allungare qualche lista d’assunzione o sbloccare qualche concorso, per poter sprigionare questo potenziale di crescita e innovazione? No.
Provvedimenti di questo genere possono servire ad aumentare in parte l’impatto sul monte stipendi con qualche ripercussione sui consumi. Ma non garantiscono quella valorizzazione delle competenze, dell’energia, del potenziale innovativo di cui parlava Draghi. Non è cercando di replicare all’infinito il modello economico e sociale su cui ci siamo basati fino ad oggi che valorizzeremo fino in fondo le nuove generazioni. Per poterlo fare dovremo ripensare e ridisegnare molti aspetti del nostro sistema economico e sociale. Non a caso Draghi ha parlato di «riforme strutturali». Cosa significa? Significa mettere mano al funzionamento del mercato del lavoro, a quello degli ammortizzatori sociali, e anche a quello dell’istruzione, della formazione, della cultura. Tutte cose che, in questi ultimi 15 anni, non hanno saputo o voluto fare né i governi di destra né quelli di sinistra, che invocavano o tagli o allargamenti dei sistemi di protezione, lavoro e formazione, ma non un loro ridisegno organico. E invece è quello il nodo che prima o poi dovremo affrontare. Perché se Paesi come la Germania, l’Olanda o la Danimarca hanno tassi di disoccupazione giovanile che sono un terzo o un quarto del nostro è anche perché hanno sistemi di formazione e servizi sociali più radicati, che coinvolgono scuole, amministrazioni pubbliche e aziende, nel tentativo non solo di offrire delle opportunità, ma di fornire a tutti le capacità per poterle cogliere. I giovani, per quanto bravi e svegli possano essere, non nascono né scienziati né imprenditori: hanno bisogno di competenze, di sviluppare capacità critiche e di padroneggiare i linguaggi del futuro, non solo l’inglese o l’economia, ma anche i linguaggi delle nuove tecnologie e di programmazione. Per non parlare poi delle competenze relazionali e imprenditoriali, sapersi muovere in contesti diversi ed internazionali. E tutte queste capacità non si trasmettono ripristinando il 7 in condotta, le pagelle numeriche alle elementari o le classi senza stranieri.
Né continuando a trattare i giovani con compiaciuto paternalismo come fanno tanti politici, sindacalisti e anche tanti «buoni padri di famiglia». Persone che, mentre mostrano tanto accorato dispiacimento per i giovani che non avranno casa né pensioni, o che non riescono ad aprire uno studio o una farmacia, restano però aggrappati con le unghie e con i denti alle proprie piccole grandi protezioni, che siano vitalizi o pensioni prese a 40 anni, professioni super protette o studi e aziende che stanno in piedi grazie a stagisti, precari o clandestini che lavorano fuori da ogni regola. E se da un lato elogiano gli appelli di Draghi o Napolitano, dall’altro fanno pressioni sui loro rappresentanti perché nulla cambi. Non è così che risolleveremo il nostro Paese.
Ma è sufficiente inventarsi qualche posto di lavoro in più, magari siglando accordi sindacali con ministeri o altri enti per allungare qualche lista d’assunzione o sbloccare qualche concorso, per poter sprigionare questo potenziale di crescita e innovazione? No.
Provvedimenti di questo genere possono servire ad aumentare in parte l’impatto sul monte stipendi con qualche ripercussione sui consumi. Ma non garantiscono quella valorizzazione delle competenze, dell’energia, del potenziale innovativo di cui parlava Draghi. Non è cercando di replicare all’infinito il modello economico e sociale su cui ci siamo basati fino ad oggi che valorizzeremo fino in fondo le nuove generazioni. Per poterlo fare dovremo ripensare e ridisegnare molti aspetti del nostro sistema economico e sociale. Non a caso Draghi ha parlato di «riforme strutturali». Cosa significa? Significa mettere mano al funzionamento del mercato del lavoro, a quello degli ammortizzatori sociali, e anche a quello dell’istruzione, della formazione, della cultura. Tutte cose che, in questi ultimi 15 anni, non hanno saputo o voluto fare né i governi di destra né quelli di sinistra, che invocavano o tagli o allargamenti dei sistemi di protezione, lavoro e formazione, ma non un loro ridisegno organico. E invece è quello il nodo che prima o poi dovremo affrontare. Perché se Paesi come la Germania, l’Olanda o la Danimarca hanno tassi di disoccupazione giovanile che sono un terzo o un quarto del nostro è anche perché hanno sistemi di formazione e servizi sociali più radicati, che coinvolgono scuole, amministrazioni pubbliche e aziende, nel tentativo non solo di offrire delle opportunità, ma di fornire a tutti le capacità per poterle cogliere. I giovani, per quanto bravi e svegli possano essere, non nascono né scienziati né imprenditori: hanno bisogno di competenze, di sviluppare capacità critiche e di padroneggiare i linguaggi del futuro, non solo l’inglese o l’economia, ma anche i linguaggi delle nuove tecnologie e di programmazione. Per non parlare poi delle competenze relazionali e imprenditoriali, sapersi muovere in contesti diversi ed internazionali. E tutte queste capacità non si trasmettono ripristinando il 7 in condotta, le pagelle numeriche alle elementari o le classi senza stranieri.
Né continuando a trattare i giovani con compiaciuto paternalismo come fanno tanti politici, sindacalisti e anche tanti «buoni padri di famiglia». Persone che, mentre mostrano tanto accorato dispiacimento per i giovani che non avranno casa né pensioni, o che non riescono ad aprire uno studio o una farmacia, restano però aggrappati con le unghie e con i denti alle proprie piccole grandi protezioni, che siano vitalizi o pensioni prese a 40 anni, professioni super protette o studi e aziende che stanno in piedi grazie a stagisti, precari o clandestini che lavorano fuori da ogni regola. E se da un lato elogiano gli appelli di Draghi o Napolitano, dall’altro fanno pressioni sui loro rappresentanti perché nulla cambi. Non è così che risolleveremo il nostro Paese.
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