Commento del senatore Pietro Ichino all’Accordo interconfederale 28 giugno 2011, pubblicato sul sito di http://www.pietroichino.it/ e http://www.lavoce.info/
Per farsi un’idea dell’importanza dell’accordo firmato martedì dalle tre confederazioni sindacali maggiori con Confindustria, basti pensare che esso può forse avviare a conclusione la lunghissima fase del cosiddetto “diritto sindacale transitorio”, aperta nel 1944 con l’abrogazione del regime corporativo e finora mai chiusa, perché restano a tutt’oggi in larga parte inattuati gli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione repubblicana in materia di contrattazione collettiva. Ma l’accordo, anche se non sarà seguito da un intervento legislativo volto ad attuare o modificare quella norma costituzionale, segna comunque la fine di un decennio di relazioni sindacali rissose e poco concludenti. E volta pagina rispetto a un triennio nel quale il ministro del Lavoro si è intensamente adoperato per costruire un sistema di relazioni industriali capace di funzionare escludendo la Cgil. Le divergenze tra quest’ultima confederazione e le altre due non sono superate; ma il nuovo accordo interconfederale detta le regole di democrazia sindacale che consentiranno di dirimere i contrasti, là dove essi si presenteranno come insanabili.
Può essere che la firma di questo accordo segni anche l’apertura di una nuova stagione di unità d’azione fra le tre confederazioni maggiori. Ma, anche se così non sarà, le nuove regole condivise consentiranno di evitare che i dissensi tra sindacati – fisiologici in un regime di vero pluralismo sindacale – si traducano in paralisi delle relazioni industriali e perdita di rilevanza pratica della contrattazione collettiva, come troppo sovente è accaduto negli ultimi anni.
RAPPRESENTANZA SINDACALE
La disposizione contenuta nel primo capoverso dell’accordo ha per oggetto la misurazione della rappresentatività dei sindacati sul piano nazionale. Qui si affida al CNEL di costruire gli indici di rappresentatività delle confederazioni e delle organizzazioni di settore sulla base di una media tra il “dato associativo”, cioè il numero di deleghe conferite dai lavoratori alle imprese per il versamento delle quote di iscrizione a ciascun sindacato, fornito dall’INPS, e il dato relativo ai risultati del voto per le rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro, fornito dalle confederazioni: si incomincia così finalmente ad attribuire al CNEL una funzione di grande rilievo anche pratico (il che – sia detto per inciso – nulla toglie all’opportunità che il numero dei membri e la struttura di questo organo costituzionale vengano drasticamente ridotti).
La misurazione della rappresentatività al livello aziendale è oggetto del quarto e del quinto capoverso dell’accordo. Qui si consolida l’alternativa oggi in atto: dove i tre sindacati vanno d’accordo, si attivano le rappresentanze sindacali unitarie-rsu, previste e disciplinate dal protocollo del 23 luglio 1993 (protocollo che è espressamente richiamato e, dunque, per questo aspetto rimane in vigore); dove i tre sindacati non vanno d’accordo, si attivano le rappresentanze sindacali aziendali-rsa previste e disciplinate dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori del 1970. Le rsu sono caratterizzate dall’investitura “dal basso”, data ai rappresentanti dall’essere eletti direttamente dai lavoratori; le rsa sono invece caratterizzate dal rapporto organico esclusivo che le lega al rispettivo sindacato territoriale, il quale designa i propri rappresentanti. Poiché l’accordo non prevede una modifica dell’articolo 19 dello Statuto – salva la previsione del limite triennale di durata della carica di rappresentante sindacale aziendale –, in questo secondo caso la rappresentatività dei sindacati non è misurata: donde la perdurante distribuzione dei rappresentanti sindacali in misura pari tra tutti i sindacati accreditati a norma dell’articolo 19 e la necessità di una disciplina particolare in materia di contratto aziendale stipulato da una o più rsa.
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Per la legittimazione a negoziare sul piano nazionale, l’accordo stabilisce soltanto una soglia minima di rappresentatività (il 5 per cento); non prevede invece alcuna soglia per la stipulazione del contratto di settore. L’accordo non preclude, dunque, l’efficacia del contratto collettivo nazionale stipulato da una coalizione sindacale minoritaria nel settore, ma neppure regola il caso in cui questo contratto si sovrapponga a uno precedente stipulato da una coalizione maggioritaria (è il caso verificatosi tra il 2008 e il 2009 nel settore metalmeccanico, dal quale è nato un nutrito contenzioso giudiziario). La soluzione della questione resta dunque per ora fondata sui criteri desumibili dal diritto comune dei contratti; ma non è escluso che in un futuro prossimo le parti sociali possano fare su questo terreno il passo ulteriore necessario per colmare la lacuna, spianando la strada all’attuazione o modifica degli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione.
Il secondo e il terzo capoverso dell’accordo sembrano ribadire l’assetto centralizzato del sistema della contrattazione sancito dal protocollo del luglio 1993, ribadendo che al livello aziendale essa si esercita soltanto sulle “materie delegate” dal contratto nazionale. Ma in materia di contrattazione aziendale le novità sono numerose e assai rilevanti: qui sta la vera svolta.
Il contratto aziendale, anche se non sottoscritto da uno o più dei sindacati firmatari dell’accordo interconfederale, è vincolante per tutti sotto una delle due seguenti condizioni: a) se stipulato dalla rsu con il voto favorevole della maggioranza dei suoi membri (quarto capoverso); b) se stipulato da una o più delle rsa titolari della maggioranza delle deleghe in seno all’azienda; ma in quest’ultimo caso il contratto deve essere sottoposto a referendum se lo chiede uno dei sindacati firmatari dell’accordo interconfederale, oppure il 30 per cento dei lavoratori interessati (quinto capoverso): in tal caso la maggioranza dei votanti può, con il proprio voto contrario, privare il contratto dei suoi effetti.
Il sesto capoverso prevede – e anche questa è una novità rilevantissima – che sia vincolante per tutti i sindacati anche la clausola di tregua sindacale contenuta nel contratto aziendale, quando ricorrano, alternativamente, le condizioni di cui si è detto sopra alle lettere a) o b). L’accordo – in omaggio a un orientamento della dottrina giuslavoristica – precisa che clausola stessa non è vincolante per i singoli lavoratori; ma questa precisazione ha uno scarso effetto pratico, dal momento che devono essere i sindacati a proclamare lo sciopero.
Un’altra novità rilevantissima è contenuta nel settimo capoverso dell’accordo, dove si prevede che, in linea generale, il contratto nazionale stabilisca “i limiti e le procedure” della contrattazione aziendale modificativa rispetto al contratto nazionale. Dove il contratto nazionale nulla preveda in proposito, l’accordo autorizza comunque, “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa”, la stipulazione di contratti aziendali modificativi “con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. Se il contratto aziendale è stipulato nel rispetto delle condizioni di cui si è detto sopra alle lettere a) o b), anche la deroga rispetto al contratto nazionale ha efficacia generale nell’ambito dell’unità produttiva.
Se questo accordo interconfederale fosse stato in vigore un anno fa, non si sarebbero posti i problemi giuridici che sono invece sorti in riferimento ai contratti Fiat di Mirafiori, Pomigliano e Grugliasco, e in particolare ai loro rapporti con i contratti nazionali. L’accordo, però, non ha efficacia retroattiva: esso pertanto non può essere direttamente utilizzato per la soluzione di quelle controversie. La Fiat mantiene dunque la propria richiesta di un intervento legislativo che colmi la lacuna sulla materia: intervento che potrebbe recepire i contenuti essenziali dell’accordo, estendendone l’efficacia nei confronti di tutti i sindacati, anche di quelli che non lo sottoscriveranno. Sarà interessante rilevare, nei giorni prossimi, le posizioni che verranno espresse dai firmatari dell’accordo sulla prospettiva di legificazione di questa materia. Tradizionalmente la Cgil è favorevole a questo intervento legislativo e la Cisl vi è contraria; ma oggi, per ragioni contingenti, le posizioni potrebbero invertirsi.
Accordo interconfederale 28 giugno 2011
Può essere che la firma di questo accordo segni anche l’apertura di una nuova stagione di unità d’azione fra le tre confederazioni maggiori. Ma, anche se così non sarà, le nuove regole condivise consentiranno di evitare che i dissensi tra sindacati – fisiologici in un regime di vero pluralismo sindacale – si traducano in paralisi delle relazioni industriali e perdita di rilevanza pratica della contrattazione collettiva, come troppo sovente è accaduto negli ultimi anni.
RAPPRESENTANZA SINDACALE
La disposizione contenuta nel primo capoverso dell’accordo ha per oggetto la misurazione della rappresentatività dei sindacati sul piano nazionale. Qui si affida al CNEL di costruire gli indici di rappresentatività delle confederazioni e delle organizzazioni di settore sulla base di una media tra il “dato associativo”, cioè il numero di deleghe conferite dai lavoratori alle imprese per il versamento delle quote di iscrizione a ciascun sindacato, fornito dall’INPS, e il dato relativo ai risultati del voto per le rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro, fornito dalle confederazioni: si incomincia così finalmente ad attribuire al CNEL una funzione di grande rilievo anche pratico (il che – sia detto per inciso – nulla toglie all’opportunità che il numero dei membri e la struttura di questo organo costituzionale vengano drasticamente ridotti).
La misurazione della rappresentatività al livello aziendale è oggetto del quarto e del quinto capoverso dell’accordo. Qui si consolida l’alternativa oggi in atto: dove i tre sindacati vanno d’accordo, si attivano le rappresentanze sindacali unitarie-rsu, previste e disciplinate dal protocollo del 23 luglio 1993 (protocollo che è espressamente richiamato e, dunque, per questo aspetto rimane in vigore); dove i tre sindacati non vanno d’accordo, si attivano le rappresentanze sindacali aziendali-rsa previste e disciplinate dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori del 1970. Le rsu sono caratterizzate dall’investitura “dal basso”, data ai rappresentanti dall’essere eletti direttamente dai lavoratori; le rsa sono invece caratterizzate dal rapporto organico esclusivo che le lega al rispettivo sindacato territoriale, il quale designa i propri rappresentanti. Poiché l’accordo non prevede una modifica dell’articolo 19 dello Statuto – salva la previsione del limite triennale di durata della carica di rappresentante sindacale aziendale –, in questo secondo caso la rappresentatività dei sindacati non è misurata: donde la perdurante distribuzione dei rappresentanti sindacali in misura pari tra tutti i sindacati accreditati a norma dell’articolo 19 e la necessità di una disciplina particolare in materia di contratto aziendale stipulato da una o più rsa.
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Per la legittimazione a negoziare sul piano nazionale, l’accordo stabilisce soltanto una soglia minima di rappresentatività (il 5 per cento); non prevede invece alcuna soglia per la stipulazione del contratto di settore. L’accordo non preclude, dunque, l’efficacia del contratto collettivo nazionale stipulato da una coalizione sindacale minoritaria nel settore, ma neppure regola il caso in cui questo contratto si sovrapponga a uno precedente stipulato da una coalizione maggioritaria (è il caso verificatosi tra il 2008 e il 2009 nel settore metalmeccanico, dal quale è nato un nutrito contenzioso giudiziario). La soluzione della questione resta dunque per ora fondata sui criteri desumibili dal diritto comune dei contratti; ma non è escluso che in un futuro prossimo le parti sociali possano fare su questo terreno il passo ulteriore necessario per colmare la lacuna, spianando la strada all’attuazione o modifica degli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione.
Il secondo e il terzo capoverso dell’accordo sembrano ribadire l’assetto centralizzato del sistema della contrattazione sancito dal protocollo del luglio 1993, ribadendo che al livello aziendale essa si esercita soltanto sulle “materie delegate” dal contratto nazionale. Ma in materia di contrattazione aziendale le novità sono numerose e assai rilevanti: qui sta la vera svolta.
Il contratto aziendale, anche se non sottoscritto da uno o più dei sindacati firmatari dell’accordo interconfederale, è vincolante per tutti sotto una delle due seguenti condizioni: a) se stipulato dalla rsu con il voto favorevole della maggioranza dei suoi membri (quarto capoverso); b) se stipulato da una o più delle rsa titolari della maggioranza delle deleghe in seno all’azienda; ma in quest’ultimo caso il contratto deve essere sottoposto a referendum se lo chiede uno dei sindacati firmatari dell’accordo interconfederale, oppure il 30 per cento dei lavoratori interessati (quinto capoverso): in tal caso la maggioranza dei votanti può, con il proprio voto contrario, privare il contratto dei suoi effetti.
Il sesto capoverso prevede – e anche questa è una novità rilevantissima – che sia vincolante per tutti i sindacati anche la clausola di tregua sindacale contenuta nel contratto aziendale, quando ricorrano, alternativamente, le condizioni di cui si è detto sopra alle lettere a) o b). L’accordo – in omaggio a un orientamento della dottrina giuslavoristica – precisa che clausola stessa non è vincolante per i singoli lavoratori; ma questa precisazione ha uno scarso effetto pratico, dal momento che devono essere i sindacati a proclamare lo sciopero.
Un’altra novità rilevantissima è contenuta nel settimo capoverso dell’accordo, dove si prevede che, in linea generale, il contratto nazionale stabilisca “i limiti e le procedure” della contrattazione aziendale modificativa rispetto al contratto nazionale. Dove il contratto nazionale nulla preveda in proposito, l’accordo autorizza comunque, “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa”, la stipulazione di contratti aziendali modificativi “con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. Se il contratto aziendale è stipulato nel rispetto delle condizioni di cui si è detto sopra alle lettere a) o b), anche la deroga rispetto al contratto nazionale ha efficacia generale nell’ambito dell’unità produttiva.
Se questo accordo interconfederale fosse stato in vigore un anno fa, non si sarebbero posti i problemi giuridici che sono invece sorti in riferimento ai contratti Fiat di Mirafiori, Pomigliano e Grugliasco, e in particolare ai loro rapporti con i contratti nazionali. L’accordo, però, non ha efficacia retroattiva: esso pertanto non può essere direttamente utilizzato per la soluzione di quelle controversie. La Fiat mantiene dunque la propria richiesta di un intervento legislativo che colmi la lacuna sulla materia: intervento che potrebbe recepire i contenuti essenziali dell’accordo, estendendone l’efficacia nei confronti di tutti i sindacati, anche di quelli che non lo sottoscriveranno. Sarà interessante rilevare, nei giorni prossimi, le posizioni che verranno espresse dai firmatari dell’accordo sulla prospettiva di legificazione di questa materia. Tradizionalmente la Cgil è favorevole a questo intervento legislativo e la Cisl vi è contraria; ma oggi, per ragioni contingenti, le posizioni potrebbero invertirsi.
Accordo interconfederale 28 giugno 2011
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