Editoriale di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa del 5 giugno 2011
La Fiat si ricompra la quota di azioni della Chrylser finora in possesso del governo americano e ne diventa azionista di maggioranza. Una delle aziende storiche della produzione di auto mondiale, inserita nel cuore produttivo degli Stati Uniti, da oggi issa bandiera italiana, e incassa i ringraziamenti di Obama.
Basterebbe questo per festeggiare tutti assieme, per ritrovare un po’ di orgoglio nazionale. E invece no. Molti sembrano quasi seccati. Eppure si tratta di un bella rivincita per il nostro Paese, così deriso ultimamente per gli scandali e le vicende da operetta, e una rivincita soprattutto per uno dei nostri marchi più antichi ma anche maggiormente caduti in disgrazia negli ultimi anni.
È ormai nota a tutti l’interpretazione dell’acronimo Fiat diffusa negli Stati Uniti: «Fix It Again Tony» (aggiustala ancora Tony), a indicare la scarsa qualità del prodotto. Ed è una fortuna che gli italiani non abbiano visto le facce incredule di tanti americani quando due anni fa venne annunciata l’entrata della Fiat in Chrysler, con un manager italiano al timone di tutta la baracca: sarebbe stato un vero schiaffo al nostro orgoglio nazionale. Ma questa era l’immagine che la nostra capacità produttiva aveva in America allora. Come se agli italiani qualcuno annunciasse che la nazionale di calcio da domani è allenata da Bob Bradley, l’attuale allenatore della nazionale americana.
Gli americani erano esterrefatti. Eppure hanno sospeso il loro giudizio e hanno dato una chance a uno straniero venuto d’Oltreoceano a insegnare a fare macchine a chi le macchine le aveva inventate. Hanno aspettato, hanno dato un’opportunità, e hanno riconosciuto i risultati ottenuti. Una cosa semplicissima, così semplice che a noi, chissà perché, non riesce mai. I risultati della Fiat, nostra vecchia gloria, non ci hanno scaldato.
Ancora segnata dai conflitti e dalle divisioni causate dalle vicende della Fiat degli ultimi tempi, l’Italia non riesce a ritrovare unità neppure di fronte ad un successo che, per una volta, non minaccia e non tocca gli interessi di nessuno. Anzi, forse proprio questo successo contribuisce a far tornare a galla quest’antica incapacità dell’Italia di sentirsi Paese, di compattarsi di fronte a degli obiettivi che riguardano il bene collettivo e non di una sola parte, l’incapacità di capire che un paese non cresce e non può crescere solo per gli avvocati o i tassisti o i farmacisti o i manager o gli operai, ma può e deve crescere per tutti e tutti devono avere una chance di mettersi alla prova, dallo stagista al top manager.
Il monito di Marchionne, che in perfetta linea col suo stile poco accomodante non ha mancato di sottolineare la differenza di trattamento avuta in America da quella riservatagli in Italia («ringraziamenti là, insulti qua»), è un monito che va ben oltre la Fiat e ricorda molto da vicino l’esperienza di migliaia di italiani, soprattutto quelli che sono stati costretti a trasferirsi all’estero per lavorare. Tutti denunciano questo «atteggiamento», questo clima di diffidenza preventiva che in Italia accoglie ogni nuovo progetto e ogni cambiamento, che fa sì che le cosa si combattano prima, sul terreno dello scontro delle parti, delle ideologie, e non dopo, sui risultati e sul contributo dato ad un obiettivo comune.
Chiunque in Italia abbia provato a proporre un’idea nuova, in aziende pubbliche o private così come in università o in centri di ricerca, sa cosa significa scontrarsi con quella diffidenza di chi, di fronte a un progetto innovativo, non si chiede quale sia la potenzialità e il contributo al bene collettivo che questo progetto può dare, ma si chiede prima se e come può danneggiare il suo interesse particolare, scalzarlo dalla sua posizione, o se magari può essere usato per indebolire una parte avversa. Persino il ministro Sacconi di fronte alle dichiarazioni di Marchionne non ha perso occasione per dare la colpa ai sindacati conservatori, alla magistratura ideologizzata e alla borghesia bancaria. Come se costruire un «Sistema Italia» migliore non chiami in causa tutti quanti, e ricadendo pure lui nel gioco degli scontri di parte, delle dita puntate.
Ecco, se l’Italia riuscirà a cambiare questo atteggiamento e a ritrovare un senso di bene comune e di obiettivi condivisi, farà un piacere non tanto a Marchionne, della cui contentezza si può forse anche fare a meno, ma restituirà entusiasmo, fiducia ed energia a tutta una generazione di italiani, in Italia e in giro per il mondo, che aspettano solo di avere una chance, un’opportunità di dare un piccolo contributo al Paese, facendo del proprio meglio, senza dover fare i conti con le diffidenze preventive, gli insulti, le lotte di parte, i poteri acquisiti. E di loro no, l’Italia non può fare a meno.
Ancora segnata dai conflitti e dalle divisioni causate dalle vicende della Fiat degli ultimi tempi, l’Italia non riesce a ritrovare unità neppure di fronte ad un successo che, per una volta, non minaccia e non tocca gli interessi di nessuno. Anzi, forse proprio questo successo contribuisce a far tornare a galla quest’antica incapacità dell’Italia di sentirsi Paese, di compattarsi di fronte a degli obiettivi che riguardano il bene collettivo e non di una sola parte, l’incapacità di capire che un paese non cresce e non può crescere solo per gli avvocati o i tassisti o i farmacisti o i manager o gli operai, ma può e deve crescere per tutti e tutti devono avere una chance di mettersi alla prova, dallo stagista al top manager.
Il monito di Marchionne, che in perfetta linea col suo stile poco accomodante non ha mancato di sottolineare la differenza di trattamento avuta in America da quella riservatagli in Italia («ringraziamenti là, insulti qua»), è un monito che va ben oltre la Fiat e ricorda molto da vicino l’esperienza di migliaia di italiani, soprattutto quelli che sono stati costretti a trasferirsi all’estero per lavorare. Tutti denunciano questo «atteggiamento», questo clima di diffidenza preventiva che in Italia accoglie ogni nuovo progetto e ogni cambiamento, che fa sì che le cosa si combattano prima, sul terreno dello scontro delle parti, delle ideologie, e non dopo, sui risultati e sul contributo dato ad un obiettivo comune.
Chiunque in Italia abbia provato a proporre un’idea nuova, in aziende pubbliche o private così come in università o in centri di ricerca, sa cosa significa scontrarsi con quella diffidenza di chi, di fronte a un progetto innovativo, non si chiede quale sia la potenzialità e il contributo al bene collettivo che questo progetto può dare, ma si chiede prima se e come può danneggiare il suo interesse particolare, scalzarlo dalla sua posizione, o se magari può essere usato per indebolire una parte avversa. Persino il ministro Sacconi di fronte alle dichiarazioni di Marchionne non ha perso occasione per dare la colpa ai sindacati conservatori, alla magistratura ideologizzata e alla borghesia bancaria. Come se costruire un «Sistema Italia» migliore non chiami in causa tutti quanti, e ricadendo pure lui nel gioco degli scontri di parte, delle dita puntate.
Ecco, se l’Italia riuscirà a cambiare questo atteggiamento e a ritrovare un senso di bene comune e di obiettivi condivisi, farà un piacere non tanto a Marchionne, della cui contentezza si può forse anche fare a meno, ma restituirà entusiasmo, fiducia ed energia a tutta una generazione di italiani, in Italia e in giro per il mondo, che aspettano solo di avere una chance, un’opportunità di dare un piccolo contributo al Paese, facendo del proprio meglio, senza dover fare i conti con le diffidenze preventive, gli insulti, le lotte di parte, i poteri acquisiti. E di loro no, l’Italia non può fare a meno.
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