Editoriale di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa del 19 dicembre 2010
Alcuni commentatori negli ultimi giorni hanno evidenziato l’impasse politica italiana, in cui una coalizione di governo ormai debole e monca resta tuttavia «aggrappata» al potere, come ha scritto il Financial Times. Pochi però si sono soffermati ad analizzare il contesto sociale che accompagna questa crisi, un contesto in cui sta germogliando un paradosso preoccupante per il futuro del Paese.
Da un lato infatti siamo di fronte ad un governo che fatica ad agire e che ha fallito la sua missione più importante.
Ovvero quella della rivoluzione liberale tanto declamata agli inizi. Come ci dicono anche gli ultimi dati la pressione fiscale in Italia è aumentata, la burocrazia non si è snellita, le amministrazioni pubbliche sono aumentate anziché diminuire, le liberalizzazioni sono bloccate, le professioni ancora più protette e la concorrenza in molti settori è ancora al palo. Dall’altro lato però troviamo un’opposizione - non solo politica ma anche civile e sociale - che anziché incalzare sul fronte delle riforme, dell’innovazione sociale ed economica, del progresso, si chiude sulla difesa dell’esistente, legittimando e dando voce ad una miriade di piccoli o grandi conservatorismi che nell’ultimo anno sono esplosi ovunque.
Se si pensa bene, infatti, tante delle proteste che negli ultimi mesi hanno scosso l’Italia non sono proteste alimentate dalla sete di quel cambiamento che stenta ad affermarsi, ma proteste per la paura di tutto quello che è cambiato e che può cambiare, la paura di perdere qualcosa. Dalle proteste contro l’Alta velocità (che presto otterranno la grandiosa vittoria di farci togliere dall’Unione europea tutti i fondi stanziati per la realizzazione della Tav), a quelle contro le quote latte e le multe per gli sforamenti. Dalle rivolte contro una nuova organizzazione del lavoro a Pomigliano, a quelle contro l’apertura di nuove discariche, fino alle manifestazioni che, con la giustificazione pur legittima di protestare contro i tagli all’istruzione, di fatto mirano ad affossare una Riforma che tentava timidamente di aprire il mondo chiuso dell’Università italiana.
Questo è il paradosso italiano che fa paura: un governo che già ha fatto poco per modernizzare il paese, incalzato però da una serie di forze ancora più conservatrici. Un paese terrorizzato dal cambiamento, incapace ormai di guardare oltre la siepe del proprio giardino.
Per i cittadini di Terzigno e Boscoreale la battaglia si gioca a Cava Vitiello, per gli anti-Tav piemontesi l’orizzonte si ferma in Val di Susa, nella baita costruita in difesa della loro Valle. E mentre gli operai di Pomigliano o di Lesmo salgono sui tetti dei capannoni per contrastare riorganizzazioni aziendali che mettono a rischio i loro posti, gli allevatori invadono le strade di trattori per non pagare le multe, e anche i ricercatori si arrampicano sul tetto delle università per difendere i loro contratti. Ognuno di loro ha un fantasma da combattere, che non è solo il governo, ma è, a seconda dei casi, l’Unione europea, l’euro, la globalizzazione, la competizione dei lavoratori asiatici o degli scienziati stranieri. Ognuno vorrebbe più o meno segretamente potersi proteggere da queste minacce, chiedere al Governo di spendere un po’ di più per neutralizzarle, perché facciano meno paura e generino meno disagio.
È probabilmente normale che singoli o piccoli gruppi di cittadini di fronte alla crisi reagiscano così, quello che non è normale e che preoccupa è che tanti leader civili e politici non siano capaci di elevarsi sopra gli interessi particolari e indicare una strada di crescita moderna e unitaria. Nessuno ha avuto il coraggio di dire a queste persone che pur avendo ragione a chiedere prospettive di vita migliori, non potranno aspettarsi che tali condizioni siano le stesse che hanno avuto i loro genitori. Nessuno ha detto che il diritto al lavoro non potrà più essere inteso come diritto al posto di lavoro a vita, ma il diritto a delle opportunità che magari si concretizzeranno in 5 o 6 lavori diversi nell’arco di una vita.
Nessuno ha detto che anche i diritti per i quali lottare possono cambiare forma perché cambiano le cose da cui dobbiamo proteggerci. E quindi, così come oggi i bambini si vaccinano contro l’epatite B e il papilloma e non più contro il vaiolo, similmente oggi è meglio pensare ad ammortizzatori e servizi che aiutino in caso di flessibilità piuttosto che a lotte per impedirla, così come avviene da anni in Paesi come Olanda, Svezia e Danimarca. Nessuno ha detto che diminuire la tassazione sul lavoro e aumentarla sul patrimonio significherà anche smetterla con le politiche di supporto al possesso della casa - che invece è un tormentone ricorrente della politica italiana di ogni colore -, e che nei paesi che amiamo citare per l’alta protezione sociale come Germania, Francia o Danimarca il tasso di proprietà della casa va dal 43% della Germania al 54% della Francia mentre da noi sfiora l’80%.
Nessuno insomma ha parlato del cambiamento sociale, culturale ed economico che tutto il Paese dovrà avviare per rimettersi in moto e per generare nuove opportunità di crescita. Nessun leader civile o politico ha saputo delineare questa visione e ha avuto il coraggio di opporla ai conservatorismi di parte. Beppe Grillo si fa fotografare di fronte alla baita no-Tav, Bersani e Vendola posano compiaciuti mentre sbucano dalla scala che li porta sopra i tetti, Bossi arringa gli allevatori lombardi, i sindacati portano in piazza i giovani contro un Paese bloccato e nepotista, ma poi firmano tutti contenti accordi con le banche perché assumano i figli dei dipendenti. Ed è proprio di fronte a questo scenario che Berlusconi può permettersi di chiudere i propri giochi nel perimetro di Palazzo Madama e Montecitorio.
Per questo il problema dell’Italia, quello vero, non è tanto se continuerà a governare Berlusconi o qualcun altro, il problema vero, per chiunque si troverà in mano il Paese, sarà affrontare senza ipocrisie e populismi queste paure così radicate tra i cittadini, e indicare un obiettivo che dia il coraggio a milioni di italiani di guardare oltre la siepe e fare il salto.
Questo è il paradosso italiano che fa paura: un governo che già ha fatto poco per modernizzare il paese, incalzato però da una serie di forze ancora più conservatrici. Un paese terrorizzato dal cambiamento, incapace ormai di guardare oltre la siepe del proprio giardino.
Per i cittadini di Terzigno e Boscoreale la battaglia si gioca a Cava Vitiello, per gli anti-Tav piemontesi l’orizzonte si ferma in Val di Susa, nella baita costruita in difesa della loro Valle. E mentre gli operai di Pomigliano o di Lesmo salgono sui tetti dei capannoni per contrastare riorganizzazioni aziendali che mettono a rischio i loro posti, gli allevatori invadono le strade di trattori per non pagare le multe, e anche i ricercatori si arrampicano sul tetto delle università per difendere i loro contratti. Ognuno di loro ha un fantasma da combattere, che non è solo il governo, ma è, a seconda dei casi, l’Unione europea, l’euro, la globalizzazione, la competizione dei lavoratori asiatici o degli scienziati stranieri. Ognuno vorrebbe più o meno segretamente potersi proteggere da queste minacce, chiedere al Governo di spendere un po’ di più per neutralizzarle, perché facciano meno paura e generino meno disagio.
È probabilmente normale che singoli o piccoli gruppi di cittadini di fronte alla crisi reagiscano così, quello che non è normale e che preoccupa è che tanti leader civili e politici non siano capaci di elevarsi sopra gli interessi particolari e indicare una strada di crescita moderna e unitaria. Nessuno ha avuto il coraggio di dire a queste persone che pur avendo ragione a chiedere prospettive di vita migliori, non potranno aspettarsi che tali condizioni siano le stesse che hanno avuto i loro genitori. Nessuno ha detto che il diritto al lavoro non potrà più essere inteso come diritto al posto di lavoro a vita, ma il diritto a delle opportunità che magari si concretizzeranno in 5 o 6 lavori diversi nell’arco di una vita.
Nessuno ha detto che anche i diritti per i quali lottare possono cambiare forma perché cambiano le cose da cui dobbiamo proteggerci. E quindi, così come oggi i bambini si vaccinano contro l’epatite B e il papilloma e non più contro il vaiolo, similmente oggi è meglio pensare ad ammortizzatori e servizi che aiutino in caso di flessibilità piuttosto che a lotte per impedirla, così come avviene da anni in Paesi come Olanda, Svezia e Danimarca. Nessuno ha detto che diminuire la tassazione sul lavoro e aumentarla sul patrimonio significherà anche smetterla con le politiche di supporto al possesso della casa - che invece è un tormentone ricorrente della politica italiana di ogni colore -, e che nei paesi che amiamo citare per l’alta protezione sociale come Germania, Francia o Danimarca il tasso di proprietà della casa va dal 43% della Germania al 54% della Francia mentre da noi sfiora l’80%.
Nessuno insomma ha parlato del cambiamento sociale, culturale ed economico che tutto il Paese dovrà avviare per rimettersi in moto e per generare nuove opportunità di crescita. Nessun leader civile o politico ha saputo delineare questa visione e ha avuto il coraggio di opporla ai conservatorismi di parte. Beppe Grillo si fa fotografare di fronte alla baita no-Tav, Bersani e Vendola posano compiaciuti mentre sbucano dalla scala che li porta sopra i tetti, Bossi arringa gli allevatori lombardi, i sindacati portano in piazza i giovani contro un Paese bloccato e nepotista, ma poi firmano tutti contenti accordi con le banche perché assumano i figli dei dipendenti. Ed è proprio di fronte a questo scenario che Berlusconi può permettersi di chiudere i propri giochi nel perimetro di Palazzo Madama e Montecitorio.
Per questo il problema dell’Italia, quello vero, non è tanto se continuerà a governare Berlusconi o qualcun altro, il problema vero, per chiunque si troverà in mano il Paese, sarà affrontare senza ipocrisie e populismi queste paure così radicate tra i cittadini, e indicare un obiettivo che dia il coraggio a milioni di italiani di guardare oltre la siepe e fare il salto.
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