La famosa «maledizione dell’euro»
colpisce ancora. Nonostante la ripresa della sua economia sia fragile e il
Fondo monetario internazionale preveda un ben magro tasso di crescita annuale
del Pil - meno 0,4 per cento nel 2013 e più 1 per cento nel 2014 contro l’1,6 e
il 2,6 per gli Stati Uniti - l’euro ha raggiunto il picco degli ultimi due anni
contro il dollaro e si è rivalutato di circa il 10 per cento rispetto alle
valute dell’insieme dei suoi partner commerciali.
Le ragioni sono molte. In
parte, ma non solo, spiegate dalla incertezza sul futuro dell’economia Usa,
provocata dalla caotica discussione sul debito pubblico negli Stati Uniti e
dalla aggressività della politica monetaria giapponese. Ma la verità è che,
qualsiasi cosa succeda altrove, appena la situazione comincia a migliorare la
nostra moneta si apprezza. E infatti, nonostante le nostre prospettive di
crescita siano modeste, il peggio sembra essere passato e, dalla seconda meta
di quest’anno, i segnali di ripresa sono emersi in modo sempre più convincente
sia nel Sud sia nel Nord della zona euro.
Con una moneta forte le nostre
merci all’estero sono più care (a meno che non si compensi l’effetto cambio con
un taglio dei costi). Questo implica una perdita di competitività nel
breve-medio periodo che potrebbe rallentare la crescita delle nostre
esportazioni fuori dell’area euro, cioè in quelle economie che mostrano un
maggiore vigore della domanda.
C’è chi obbietta a questa
osservazione che la competitività di un Paese non si gioca sul cambio, ma
sulla produttività, l’innovazione, la capacità di conquistare nuovi mercati e
che l’euro forte non ha impedito ai Paesi membri, Spagna e Irlanda per esempio,
di passare da un grande deficit della bilancia commerciale a un surplus.
I Paesi della moneta unica hanno risposto alla crisi contraendo la domanda interna e, con più o meno successo, accrescendo la quota delle esportazioni sul Prodotto interno lordo (Pil). Nel 2013 il Fondo monetario stima che la zona euro nel suo insieme raggiungerà un surplus del 2,5 per cento del Pil. Chi ce l’ha fatta ha ottenuto risultati scommettendo sui mercati esteri, in particolare sui Paesi emergenti.
Nonostante queste osservazioni, un euro che a questo punto della congiuntura europea si rafforza ulteriormente è un fattore preoccupante che potrebbe mettere a rischio la ripresa. Le ragioni sono due.
La prima: il surplus della bilancia commerciale in Paesi come Italia e Spagna è finanziato da un eccesso di risparmio nel settore privato in una situazione in cui la domanda di consumo e investimento è debole. Le banche, nonostante il buon andamento dei depositi, non prestano sia perché devono aggiustare i loro bilanci, sia perché la domanda è debole. D’altro canto lo Stato - indebitato - deve piazzare i suoi titoli pubblici e questi vengono comprati dalle banche. Nello stesso tempo le imprese, complessivamente, hanno un eccesso di liquidità.
Questo meccanismo ha reso Paesi come Spagna e Italia meno vulnerabili alla volatilità degli investitori esteri poiché il debito pubblico è sempre più in mani domestiche, ma ha «imbastito» l’economia. Con una domanda interna debole che con ogni probabilità rimarrà tale anche con la ripresa, il fattore trainante della crescita sono le esportazioni e in particolare quelle al di là dei confini dell’eurozona. Colpirle ora significa correre il rischio di perdere il treno della ripresa dell’economia mondiale e rendere molto più doloroso l’aggiustamento necessario all’assorbimento del debito. La seconda ragione è dovuta al fatto che l’euro forte esercita una pressione al ribasso sui prezzi in un contesto in cui l’inflazione, all’1,1 per cento, è così contenuta da far temere l’entrata in un regime di deflazione simile a quello vissuto dal Giappone negli ultimi vent’anni. La deflazione (la generale diminuzione di prezzi) agisce negativamente sul consumo: chi spende oggi se ci si aspetta che i costi saranno più bassi domani? Inoltre, accresce il peso reale del debito che, insieme alla bassa crescita, è un fattore di rischio per la sua sostenibilità. Come il Giappone insegna, una volta che la deflazione si innesta, è molto difficile liberarsene. Essa modifica i comportamenti dei consumatori e spinge l’economia verso la stagnazione.
Mario Draghi ha recentemente dichiarato di guardare con preoccupazione alla rivalutazione dell’euro, non tanto per i suoi effetti diretti sull’export ma per quelli indiretti su Pil e inflazione. La Banca centrale europea, comela Federal Reserve ,
non ha un target esplicito sul tasso di cambio, ma deve agire con forza se la
dinamica di quest’ultimo dovesse avere l’effetto sui prezzi che è ragionevole
prevedere. Ci auguriamo che lo faccia con forza, utilizzando le cartucce che ha
ancora a disposizione.
I Paesi della moneta unica hanno risposto alla crisi contraendo la domanda interna e, con più o meno successo, accrescendo la quota delle esportazioni sul Prodotto interno lordo (Pil). Nel 2013 il Fondo monetario stima che la zona euro nel suo insieme raggiungerà un surplus del 2,5 per cento del Pil. Chi ce l’ha fatta ha ottenuto risultati scommettendo sui mercati esteri, in particolare sui Paesi emergenti.
Nonostante queste osservazioni, un euro che a questo punto della congiuntura europea si rafforza ulteriormente è un fattore preoccupante che potrebbe mettere a rischio la ripresa. Le ragioni sono due.
La prima: il surplus della bilancia commerciale in Paesi come Italia e Spagna è finanziato da un eccesso di risparmio nel settore privato in una situazione in cui la domanda di consumo e investimento è debole. Le banche, nonostante il buon andamento dei depositi, non prestano sia perché devono aggiustare i loro bilanci, sia perché la domanda è debole. D’altro canto lo Stato - indebitato - deve piazzare i suoi titoli pubblici e questi vengono comprati dalle banche. Nello stesso tempo le imprese, complessivamente, hanno un eccesso di liquidità.
Questo meccanismo ha reso Paesi come Spagna e Italia meno vulnerabili alla volatilità degli investitori esteri poiché il debito pubblico è sempre più in mani domestiche, ma ha «imbastito» l’economia. Con una domanda interna debole che con ogni probabilità rimarrà tale anche con la ripresa, il fattore trainante della crescita sono le esportazioni e in particolare quelle al di là dei confini dell’eurozona. Colpirle ora significa correre il rischio di perdere il treno della ripresa dell’economia mondiale e rendere molto più doloroso l’aggiustamento necessario all’assorbimento del debito. La seconda ragione è dovuta al fatto che l’euro forte esercita una pressione al ribasso sui prezzi in un contesto in cui l’inflazione, all’1,1 per cento, è così contenuta da far temere l’entrata in un regime di deflazione simile a quello vissuto dal Giappone negli ultimi vent’anni. La deflazione (la generale diminuzione di prezzi) agisce negativamente sul consumo: chi spende oggi se ci si aspetta che i costi saranno più bassi domani? Inoltre, accresce il peso reale del debito che, insieme alla bassa crescita, è un fattore di rischio per la sua sostenibilità. Come il Giappone insegna, una volta che la deflazione si innesta, è molto difficile liberarsene. Essa modifica i comportamenti dei consumatori e spinge l’economia verso la stagnazione.
Mario Draghi ha recentemente dichiarato di guardare con preoccupazione alla rivalutazione dell’euro, non tanto per i suoi effetti diretti sull’export ma per quelli indiretti su Pil e inflazione. La Banca centrale europea, come
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