Può apparire strano che in un'epoca di fallimenti, salvataggi e disastri bancari e aziendali si ritenga che il management abbia ancora qualcosa da insegnare. Eppure mai come in questo momento di grande indecisione, populismo e miopia, la politica potrebbe
imparare qualcosa dalla management science, la scienza (o l'arte) di fare avvenire le cose (giuste) nelle aziende.
Le riforme politiche (lavoro, giustizia, scuola, economia) dovrebbero essere fatte con una logica che in un'azienda viene chiamata «pianificazione strategica»: ovvero valutandone la priorità, i costì, gli effetti, le reazioni degli altri soggetti coinvolti; e soprattutto considerandone la fattibilità. Perché una strategia, anche ottima, che però non si può realizzare, non serve a nulla. Basta pensare al tema dei
miliardi di debiti arretrati della pubblica amministrazione: ancora non sappiamo se sarà possibile pagarli, se questo peggiorerà il deficit o il debito, e infine ignoriamo come farli arrivare ai creditori «giusti» e non ai furbi; questo avviene perché manca un minimo di pianificazione finanziaria e di efficace contabilità. Molte delle nostre riforme sono dettate dal populismo di breve termine, cosa che nelle aziende ben gestite non avviene perché ciò che si decide di fare nei prossimi mesi e nel corso dell'anno è il risultato di piani a medio e lungo termine. E le priorità delle riforme politiche sono spesso poco ragionate, non basate su fatti e mai condivise: per la giustizia i «saggi» stanno definendo come urgente il problema delle intercettazioni, quando la
nostra economia è bloccata da una giustizia civile con i tempi del Gabon.
Questa incapacità da parte di un Parlamento rissoso e poco competente di pianificare bene le riforme alla fine fa sì che da noi le leggi debbano essere fatte dal governo (con il meccanismo della fiducia) e che siano un modello di legislazione caotica e di pessima qualità: leggi fatte in fretta e furia per reagire a un'emergenza, alla pressione sociale e dei media o perché scadono i termini.
La pessima pianificazione strategica delle riforme si traduce infine nella cronica incapacità dell'esecutivo di «eseguire» le leggi approvate perché sono mal concepite, scritte e comunicate malissimo. Ma, se anche le riforme e le leggi fossero impeccabili esiste un altro insormontabile ostacolo alla loro attuazione: un management della pubblica amministrazione antimeritocratico, con preparazione soprattutto giuridica o accademica e pochissimo responsabilizzato, formato e incentivato. E anche qui ci sarebbe molto da imparare dal (buon) management aziendale: la gestione delle risorse umane che è nelle aziende una variabile assolutamente cruciale, perché un bravo manager è soprattutto un bravo gestore di persone. Quindi, la politica può imparare dal management non solo nel marketing elettorale, convincendo i «clienti» (gli elettori) a comprare il proprio prodotto (dare il proprio voto al politico): è anche fare buone riforme e leggi in Parlamento e realizzarle con efficacia nel governo e nella pubblica amministrazione. E anche per questo potrebbe imparare molto dal management. Ma non necessariamente «importando» in politica imprenditori e manager. In Italia abbiamo avuto l'esperienza di Silvio Berlusconi che è diventato un ottimo politico nel senso che è riuscito a convincere per anni milioni di italiani a comprare il «prodotto» Berlusconi grazie a un marketing di tipo aziendale ma che non sembra essere stato in grado di mettere a posto l'azienda Italia, pur essendo lui un grande imprenditore. Peraltro sono rari i casi di imprenditori come Michael Bloomberg (sindaco di New York) che hanno guidato bene partiti o governi, e la ragione è chiara: gestire un Paese (o una città) è molto più difficile che gestire un'azienda, ed è per questo che esiste la «professione» della politica. E allora, se non si possono importare dalle aziende in politica imprenditori o manager, come può la politica imparare dal management? Intanto, quando gli elettori italiani potranno scegliere i candidati (loro e non i capi dei partiti), dovranno abbandonare le ideologie del passato e del presente (esempio Internet) cercando di valutare chi è più credibile nel realizzare le promesse che fa: bisognerà guardare ai risultati ottenuti nella carriera politica passata, dando preferenza a chi ha dimostrato di avere fatto qualcosa in un ruolo amministrativo e gestionale a livello locale (per esempio un sindaco o un assessore).
L'area dove la politica potrà imparare di più dal management è sicuramente però quella della gestione delle risorse umane. Che non significa solo «licenziare i fannulloni» ma inserire una seria meritocrazia, ispirandosi a modelli vecchi (la pubblica amministrazione francese) e soprattutto nuovi (quella di Singapore). Infine è essenziale che il nostro servizio pubblico impari dalle aziende come avere più trasparenza: i costi e la qualità dei servizi pubblici chiave come la scuola e la giustizia sono oggi incomprensibili ai cittadini. La politica in Italia sembra entrata in una crisi di portata epocale. Quello che accade in questi casi nelle aziende è un profondo rinnovamento nella leadership: saprà farlo la politica.
La pessima pianificazione strategica delle riforme si traduce infine nella cronica incapacità dell'esecutivo di «eseguire» le leggi approvate perché sono mal concepite, scritte e comunicate malissimo. Ma, se anche le riforme e le leggi fossero impeccabili esiste un altro insormontabile ostacolo alla loro attuazione: un management della pubblica amministrazione antimeritocratico, con preparazione soprattutto giuridica o accademica e pochissimo responsabilizzato, formato e incentivato. E anche qui ci sarebbe molto da imparare dal (buon) management aziendale: la gestione delle risorse umane che è nelle aziende una variabile assolutamente cruciale, perché un bravo manager è soprattutto un bravo gestore di persone. Quindi, la politica può imparare dal management non solo nel marketing elettorale, convincendo i «clienti» (gli elettori) a comprare il proprio prodotto (dare il proprio voto al politico): è anche fare buone riforme e leggi in Parlamento e realizzarle con efficacia nel governo e nella pubblica amministrazione. E anche per questo potrebbe imparare molto dal management. Ma non necessariamente «importando» in politica imprenditori e manager. In Italia abbiamo avuto l'esperienza di Silvio Berlusconi che è diventato un ottimo politico nel senso che è riuscito a convincere per anni milioni di italiani a comprare il «prodotto» Berlusconi grazie a un marketing di tipo aziendale ma che non sembra essere stato in grado di mettere a posto l'azienda Italia, pur essendo lui un grande imprenditore. Peraltro sono rari i casi di imprenditori come Michael Bloomberg (sindaco di New York) che hanno guidato bene partiti o governi, e la ragione è chiara: gestire un Paese (o una città) è molto più difficile che gestire un'azienda, ed è per questo che esiste la «professione» della politica. E allora, se non si possono importare dalle aziende in politica imprenditori o manager, come può la politica imparare dal management? Intanto, quando gli elettori italiani potranno scegliere i candidati (loro e non i capi dei partiti), dovranno abbandonare le ideologie del passato e del presente (esempio Internet) cercando di valutare chi è più credibile nel realizzare le promesse che fa: bisognerà guardare ai risultati ottenuti nella carriera politica passata, dando preferenza a chi ha dimostrato di avere fatto qualcosa in un ruolo amministrativo e gestionale a livello locale (per esempio un sindaco o un assessore).
L'area dove la politica potrà imparare di più dal management è sicuramente però quella della gestione delle risorse umane. Che non significa solo «licenziare i fannulloni» ma inserire una seria meritocrazia, ispirandosi a modelli vecchi (la pubblica amministrazione francese) e soprattutto nuovi (quella di Singapore). Infine è essenziale che il nostro servizio pubblico impari dalle aziende come avere più trasparenza: i costi e la qualità dei servizi pubblici chiave come la scuola e la giustizia sono oggi incomprensibili ai cittadini. La politica in Italia sembra entrata in una crisi di portata epocale. Quello che accade in questi casi nelle aziende è un profondo rinnovamento nella leadership: saprà farlo la politica.
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