Caro direttore, è ricorrente, nei momenti di crisi della politica, guardare alla società civile come a una sorta di indispensabile risorsa per rafforzare la democrazia, per evitarne l'irreparabile declino. Ma la contrapposizione fra società civile e partiti politici si carica di significati culturalmente oscuri e i pericoli che ne derivano sono tutt'altro che irrilevanti. È vero che la debolezza della politica, i suoi ritardi, gli scandali che la ingiuriano provocano una reazione che prende il volto dell'antipolitica, del discredito per i partiti, senza alcuna distinzione fra quelli che della rovinosa deriva sono i più responsabili e quelli che vi hanno resistito. La rabbia che esplode nella società civile fa di questa il contraltare virtuoso di una politica sciatta, volgare e inconcludente. Ma sembra fin troppo elementare ricordare la brutalità di questa logica semplificatoria. I partiti invero sono figli della società che li esprime. Una società segnata da un costume morale e civile di basso livello non potrà che esprimere una politica e dei partiti altrettanto di basso livello. E quando si avverte che la misura è colma, la società civile non può prescindere dalla politica, che è come l'ombra che sempre ti insegue. Deve semplicemente cambiarla. Proprio per tutte queste ragioni è bene non tacere una preoccupazione che viene nel vedere ogni giorno insistente e insidiosa l'esaltazione della società civile e soprattutto un'ostentata e ricercata «lontananza» dai partiti, dall'idea stessa di partito. Si preferisce parlare di «movimento» non di partito e così proliferano le liste cosiddette «civiche»; liste non riferite a un partito, a una determinata area culturale e politica, ma, al contrario, un partito o partiti «stanchi» che si riferiscono a una lista civica espressione diretta del leader del movimento, indiscusso e prestigioso. Sappiamo bene la trama di questo percorso. I partiti politici come sono oggi non sono credibili, non hanno consenso. Il Paese però ha bisogno della politica, di una nuova e buona politica; ecco allora il «movimento» intelligente e saggio che la determina, chiamando a raccolta forze aggiuntive disposte all'impresa.
Questo il percorso e l'impresa può anche riuscire, ma c'è il pericolo di un'infausta eterogenesi dei fini: un movimento elitario, infatti, per di più a vocazione maggioritaria, indebolisce la democrazia non diversamente da populismi resi liberi e scatenati dall'insufficienza di partiti arretrati.
Il rifiuto dell'idea di partito è alla base, a mio giudizio, di questo percorso sbagliato. Non a caso i nostri padri costituenti, che bene conoscevano la politica e i suoi strumenti, che la libertà avevano custodito nella clandestinità e conquistata nella lotta di liberazione, hanno parlato, in modo solenne, dei partiti. Li hanno evocati come strumento di cui i cittadini hanno diritto «per determinare, con metodo democratico, la politica nazionale» (Cost. art. 49). Avrebbero potuto ? i nostri costituenti ? limitarsi a dire che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per determinare la politica nazionale. No, hanno parlato di «partiti», e non a caso, perché il «partito» è molto di più di un movimento, o di una associazione, è «storia». È storia del proprio Paese, certamente soggettiva, di una «parte», ma sempre storia forte, di ieri e di domani. Rispetto a questa idea di partito, il movimento elitario (ma anche quello populista) ha una insostenibile «leggerezza» quanto all'esercizio del potere per cui si vuole candidare. Di fatto, diventa un partito personale, centrato sul leader, e così la democrazia anziché ampliarsi si restringe e si mortifica. Non si corregge, insomma, una democrazia e insieme una politica con l'invenzione del movimento; la si corregge innovando profondamente i partiti che ci sono (vediamo la meritoria fatica di Bersani e del suo partito che, con le primarie, si è rinnovato, anche programmaticamente, più di quanto non sappiano essere innovatori quanti si affaticano in riunioni e patteggiamenti privati) o proponendone dei nuovi.
Certo il movimento può diventare un partito, trovare nella forma partito il suo sbocco naturale. Ma quando? ma come?
Mi viene in mente don Sturzo, nel '19, il suo Manifesto e l'offerta di un nuovo partito agli italiani, «liberi e forti». Tenendo conto del variegato mondo cattolico, il grande prete di Caltagirone poteva limitarsi a proporre e a organizzare un movimento. No, ha voluto nettamente essere «parte»; ha voluto un partito che riassumesse una storia in cui ci si potesse riconoscere, vivendola nella sua imprevedibile e dinamica progressione. È una lezione lontana nel tempo, certo, ma è bene non dimenticarla.
Questo il percorso e l'impresa può anche riuscire, ma c'è il pericolo di un'infausta eterogenesi dei fini: un movimento elitario, infatti, per di più a vocazione maggioritaria, indebolisce la democrazia non diversamente da populismi resi liberi e scatenati dall'insufficienza di partiti arretrati.
Il rifiuto dell'idea di partito è alla base, a mio giudizio, di questo percorso sbagliato. Non a caso i nostri padri costituenti, che bene conoscevano la politica e i suoi strumenti, che la libertà avevano custodito nella clandestinità e conquistata nella lotta di liberazione, hanno parlato, in modo solenne, dei partiti. Li hanno evocati come strumento di cui i cittadini hanno diritto «per determinare, con metodo democratico, la politica nazionale» (Cost. art. 49). Avrebbero potuto ? i nostri costituenti ? limitarsi a dire che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per determinare la politica nazionale. No, hanno parlato di «partiti», e non a caso, perché il «partito» è molto di più di un movimento, o di una associazione, è «storia». È storia del proprio Paese, certamente soggettiva, di una «parte», ma sempre storia forte, di ieri e di domani. Rispetto a questa idea di partito, il movimento elitario (ma anche quello populista) ha una insostenibile «leggerezza» quanto all'esercizio del potere per cui si vuole candidare. Di fatto, diventa un partito personale, centrato sul leader, e così la democrazia anziché ampliarsi si restringe e si mortifica. Non si corregge, insomma, una democrazia e insieme una politica con l'invenzione del movimento; la si corregge innovando profondamente i partiti che ci sono (vediamo la meritoria fatica di Bersani e del suo partito che, con le primarie, si è rinnovato, anche programmaticamente, più di quanto non sappiano essere innovatori quanti si affaticano in riunioni e patteggiamenti privati) o proponendone dei nuovi.
Certo il movimento può diventare un partito, trovare nella forma partito il suo sbocco naturale. Ma quando? ma come?
Mi viene in mente don Sturzo, nel '19, il suo Manifesto e l'offerta di un nuovo partito agli italiani, «liberi e forti». Tenendo conto del variegato mondo cattolico, il grande prete di Caltagirone poteva limitarsi a proporre e a organizzare un movimento. No, ha voluto nettamente essere «parte»; ha voluto un partito che riassumesse una storia in cui ci si potesse riconoscere, vivendola nella sua imprevedibile e dinamica progressione. È una lezione lontana nel tempo, certo, ma è bene non dimenticarla.
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