Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 26 gennaio 2013 A distanza di pochi giorni l’una dall’altra, Confindustria e Cgil sono entrate ufficialmente nel dibattito
elettorale presentando le loro «agende» su crescita e occupazione. Si tratta di
una buona notizia, per almeno due ragioni. Innanzitutto perché con questo gesto
le parti sociali danno un segnale di serietà e concretezza proprio nel momento
di massima fibrillazione della campagna elettorale. In secondo luogo perché i
due documenti contengono proposte dettagliate, con tanto di cifre su impieghi e
risorse. È forse la prima volta che le due principali organizzazioni del mondo
del lavoro si confrontano condividendo una cornice di pragmatismo metodologico
e di rispetto dei vincoli di bilancio.
Entrambi i progetti concordano sul fatto che il rilancio di crescita e occupazione richiede sforzi massicci sul piano finanziario: circa 150 miliardi in tre anni per la Cgil, 180 in cinque anni per Confindustria. Per fare cosa? Qui i sentieri si divaricano, quasi specularmente. Confindustria punta tutto sulla competitività delle imprese e propone tagli al costo del lavoro, detassazione permanente dei premi di produttività, incentivi per l’assunzione di giovani e donne, sostegno agli investimenti, promozione di ricerca e innovazione. Il potenziale d’urto della ricetta di Confindustria non sta tanto nei contenuti (piuttosto scontati), ma nell’entità finanziaria degli interventi, che in breve tempo dovrebbero
riportare il tasso di crescita almeno al 2%. I 180 miliardi necessari
proverrebbero per metà da tagli di spesa, per l’altra da maggiori entrate.
Questa è forse la parte meno convincente del progetto: da Confindustria ci
saremmo aspettati maggiore coraggio sulle riduzioni di spesa, con proposte più
specifiche e incisive (anche sul fronte dei contributi alle imprese).
Le proposte della Cgil sono tutte imperniate sul rilancio e l’espansione dell’intervento pubblico. Il piatto forte è un piano straordinario per la creazione d’impiego da parte dello Stato: circa 180 mila assunzioni nel primo anno, soprattutto giovani e donne.Le risorse? Riduzione dei costi della politica e degli «sprechi», ma soprattutto più tasse, a cominciare da una nuova Imposta sulle Grandi Ricchezze in sostituzione dell’Imu, che vale circa 24 miliardi. Nel documento della Cgil (così come nel discorso tenuto ieri da Susanna Camusso nella Conferenza programmatica di Roma) si percepisce una forte e condivisibile preoccupazione per la nuova «questione sociale» che affligge il nostro Paese e per le condizioni di crescente insicurezza in cui si trovano lavoratori e famiglie. L’impostazione programmatica suscita tuttavia forti perplessità.
A tratti sembra di rileggere diagnosi e proposte degli anni Settanta: ad esempio quando si prospetta un concorsone straordinario, con tanto di graduatorie privilegiate per i precari. Ma davvero il più grande sindacato italiano pensa che la soluzione al declino possa essere un incremento «strutturale» di spesa e di tasse pari al 3 o 4% di Pil? Con il debito pubblico che abbiamo? Con l’apparato statale che ci ritroviamo? Dopo i tanti fallimenti già sperimentati nell’uso dell’impiego pubblico come ammortizzatore sociale, soprattutto al Sud? Il futuro delle economie europee è incerto e nessuno può vantarsi di conoscere la soluzione vincente. C’è però almeno una cosa su cui possiamo trovare un accordo: non ripetere gli errori già commessi. Nel nostro Paese la spesa pubblica è il problema, non la soluzione. Su questo è auspicabile che la Cgil (e più in generale il centrosinistra) s’impegnino in un supplemento di riflessione.
Le proposte della Cgil sono tutte imperniate sul rilancio e l’espansione dell’intervento pubblico. Il piatto forte è un piano straordinario per la creazione d’impiego da parte dello Stato: circa 180 mila assunzioni nel primo anno, soprattutto giovani e donne.Le risorse? Riduzione dei costi della politica e degli «sprechi», ma soprattutto più tasse, a cominciare da una nuova Imposta sulle Grandi Ricchezze in sostituzione dell’Imu, che vale circa 24 miliardi. Nel documento della Cgil (così come nel discorso tenuto ieri da Susanna Camusso nella Conferenza programmatica di Roma) si percepisce una forte e condivisibile preoccupazione per la nuova «questione sociale» che affligge il nostro Paese e per le condizioni di crescente insicurezza in cui si trovano lavoratori e famiglie. L’impostazione programmatica suscita tuttavia forti perplessità.
A tratti sembra di rileggere diagnosi e proposte degli anni Settanta: ad esempio quando si prospetta un concorsone straordinario, con tanto di graduatorie privilegiate per i precari. Ma davvero il più grande sindacato italiano pensa che la soluzione al declino possa essere un incremento «strutturale» di spesa e di tasse pari al 3 o 4% di Pil? Con il debito pubblico che abbiamo? Con l’apparato statale che ci ritroviamo? Dopo i tanti fallimenti già sperimentati nell’uso dell’impiego pubblico come ammortizzatore sociale, soprattutto al Sud? Il futuro delle economie europee è incerto e nessuno può vantarsi di conoscere la soluzione vincente. C’è però almeno una cosa su cui possiamo trovare un accordo: non ripetere gli errori già commessi. Nel nostro Paese la spesa pubblica è il problema, non la soluzione. Su questo è auspicabile che la Cgil (e più in generale il centrosinistra) s’impegnino in un supplemento di riflessione.
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