intervista a Federico Testa * a cura di Antonino Leone in corso di pubblicazione su Sistemi e Impresa
Una premessa necessaria: ma quale sarà la domanda negli anni a venire?
Negli ultimi 2 anni, infatti, la domanda di energia elettrica, in Italia come nel resto d’Europa, ha subito una significativa riduzione, imputabile certamente in primo luogo alla crisi economica, ma riconducibile in parte anche alle politiche di efficienza e risparmio messe in atto dai Governi. In ragione di questo trend, tutti gli Istituti di ricerca hanno rivisto le previsioni di crescita della domanda, ridimensionandole: così, si prevede di ritornare ai consumi del 2007 non prima dei prossimi 4-6 anni, anche se evidentemente la speranza di un’accelerazione della ripresa economica porta con sé previsioni di crescita più elevate, pur in un quadro –relativamente ai Paesi OECD- di sostanziale costanza della domanda, a fronte invece di importanti trend di crescita relativi al resto del mondo (cfr all. 1 relativo alle tendenze della domanda globale di energia e all. 2 relativo ai diversi scenari di domanda elettrica nel nostro Paese). A ciò si deve aggiungere il fatto che ulteriori aumenti della domanda possono essere generati dall’utilizzo dell’energia elettrica quale vettore energetico più flessibile (si pensi al tema raffreddamento-riscaldamento degli edifici attraverso pompe di calore e/o split elettrici) o dal perseguimento della mobilità elettrica come strada per diminuire l’inquinamento, soprattutto nei centri urbani.
In questo quadro, quali dovrebbero essere le principali linee di intervento (in ordine di priorità)?
- efficienza energetica e risparmio: perseguire l’efficienza energetica comporta investimenti di entità ridotta e con caratteristiche di pervasività sul tessuto economico. Dagli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, dalle pompe di calore, dalla sostituzione dei motori elettrici tradizionali nell’industria, dall’utilizzo della domotica intelligente, dalla sostituzione delle lampade a bassa efficienza, è possibile ottenere significativi risultati, con periodi di ritorno degli investimenti brevi ed una significativa ricaduta sul nostro tessuto economico e produttivo, sia in termini di aumento di competitività conseguente ai minori costi, sia attraverso l’attivazione di un volano produttivo in settori nei quali l’Italia possiede le competenze tecnologiche per essere leader a livello mondiale. Indicazioni di dettaglio sull’argomento sono reperibili nei recenti studi promossi da Confindustria e Amici della terra. Quanto all’educazione al risparmio energetico, si tratta di un percorso più lungo, che richiede di intervenire sulle abitudini, i modelli di consumo, la mentalità dei cittadini, ma che risulta comunque essenziale al fine di affermare un nuovo modello di sviluppo, più in sintonia con l’ambiente. Un importante contributo al risparmio può altresì derivare dalla riqualificazione, recupero di efficienza e miglioramento tecnologico delle reti di trasporto e distribuzione. Anche in questo campo, le caratteristiche produttive del nostro Paese ben si attagliano a questa logica di sviluppo, basti pensare all’automotive e alla nostra leadership nelle auto di piccola cilindrata (che naturalmente meglio potrebbero essere ri-pensate in una prospettiva di mobilità sostenibile, con l’incremento della trazione elettrica in ambito urbano, peraltro perseguibile solo intervenendo sui processi di produzione del “carburante”, cioè l’elettricità, così da ottenere una produzione a costi compatibili e senza aumentare le emissioni). L’obiettivo da porsi in termini quantitativi è quello di riuscire, negli anni futuri, a fare in modo che efficienza e risparmio energetico consentano di limitare al massimo (possibilmente tenere piatta) la crescita della domanda di energia, pur in presenza di una crescita della domanda di servizi energetici;
- fonti rinnovabili: il nostro Paese in questo settore aveva accumulato un significativo ritardo nei confronti di altri paesi ugualmente sviluppati. In questo senso, è stato opportuno per alcuni versi “forzare” i processi di incentivazione al fine di recuperare il ritardo. Ora è importante procedere sulla linea di sviluppo delle fonti rinnovabili, “aggiustando il tiro” così da:
- ottenere una ricaduta significativa sul tessuto produttivo/industriale italiano. Ad oggi questo avviene in misura parziale ed insufficiente, vuoi perché nella filiera produttiva rilevano molto i differenziali di costo di produzione (fotovoltaico in Cina), vuoi perché il ritardo accumulato ha fatto sì che la leadership tecnologica venisse acquisita da altri Paesi (eolico in Germania). E’ quindi evidente come, pur nel doveroso tentativo di recupero di questi gap, probabilmente è illusorio pensare di poter raggiungere, in queste filiere oramai mature, risultati particolarmente significativi. Opportuno quindi concentrare gli sforzi sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico di tecnologie meno mature, rispetto alle quali tuttora conserviamo leadership e competenze di prima fila, quali ad esempio il solare a concentrazione e la produzione di biocarburanti di seconda generazione;
- costruire un “percorso di sviluppo” delle fonti rinnovabili che consenta di massimizzare l’utilità degli incentivi, cogliendo fino in fondo i benefici derivanti da curve di apprendimento estremamente significative; in altre parole, cercando di approfittare della diminuzione continua e veloce dei costi di produzione per unità di energia prodotta;
- consentire l’incentivazione di impianti che abbiano una sostenibilità economica intrinseca di medio lungo periodo. Impianti eolici che “girano” 1400 ore all’anno si sostengono solo grazie a incentivi molto (troppo) generosi ed a meccanismi di rendita finanziaria che spesso portano con sè speculazioni, uso distorto del territorio, possibili ruoli non chiari della criminalità organizzata, anche a causa degli onerosi procedimenti autorizzativi. Ragionamenti analoghi possono farsi su impianti a terra nelle pianure, che spesso sottraggono per motivi speculativi risorse preziose all’agricoltura con effetti potenzialmente perversi sui prezzi degli alimentari.
- favorire l’uso termico delle fonti rinnovabili, che può contribuire significativamente all’aumento dell’efficienza ed alla costruzione di una filiera energetica italiana;
- sviluppare l’uso diffuso delle biomasse. La disponibilità complessiva di biomasse in Italia potrebbe coprire fino al 14% della domanda energetica interna. L’attuale produzione di energia da biomasse in Italia è pari a quasi il 3% del consumo globale distribuito in energia elettrica, energia termica e in biocarburanti. Le stime del GSE prospettano la possibilità di raggiungere nel 2020 una produzione annua tre volte superiore.
- collegare la diffusione delle fonti rinnovabili con lo sviluppo delle reti, sia in senso quantitativo (oggi ci sono zone del Paese dove la rete di trasmissione non è in grado di ricevere e smistare l’energia prodotta dagli impianti rinnovabili, che peraltro viene pagata lo stesso..) che in senso qualitativo: l’energia da fonti rinnovabili, tendenzialmente discontinua, va gestita da reti “intelligenti” (le cd smart grid). Favorire la diffusione di impianti di produzione molto piccoli (spesso derivante solo da facilitazioni autorizzative), oltre a non consentire di beneficiare delle economie di scala, comporta l’incremento dei costi di connessione alla rete e di gestione della rete stessa: è quindi importante trovare un punto di equilibrio economico tra tutte queste esigenze.
- evitare ricadute troppo pesanti –conseguenti ai meccanismi di incentivazione- sulle bollette elettriche di famiglie e imprese. In questo senso non può non essere registrato il fatto che sempre più una delle variabili con cui ci si deve confrontare nel caso di crisi economiche e di processi di delocalizzazione è proprio quella del costo dell’energia. Le vicende Alcoa, distretto chimico di Terni, di Ferrara, di Brindisi e di Marghera, oltre ad una più generale pressione del tessuto produttivo, ci impongono di ragionare con attenzione su questo tema, pena il rischio di una progressiva de-industrializzazione del nostro Paese.
E quanto alle fonti “tradizionali”? Quanto sin qui visto consente di affermare come, dal punto di vista tecnologico ed economico, si debba ipotizzare, per un lungo periodo di tempo ancora, la necessità di utilizzare per una quota considerevole ed importante del nostro fabbisogno le medesime modalità di produzione dell’energia che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni e che quindi, con tutti i miglioramenti ed aggiornamenti del caso, sono destinate a farlo nel prosieguo degli anni: gas, carbone, nucleare. Ognuna di queste fonti porta con sé vantaggi e svantaggi, in termini di costi di generazione, facilità di approvvigionamento della materia prima, condizionamenti socio-politici e quindi dipendenza dall’estero, flessibilità di utilizzo, ricadute ambientali in termini di produzione di CO2, di produzione di scorie, di inquinamento legato al trasporto della materia prima, di sicurezza della tecnologia in termini di possibili ricadute sulle popolazioni che vivono nei pressi degli impianti di produzione. Ma comunque, in assenza di “salti tecnologici”, auspicabili (e per i quali si deve chiedere con forza che la ricerca e l’innovazione siano adeguatamente sostenute) ma sin qui non prevedibili, con queste alternative ci dobbiamo confrontare per un periodo di tempo non breve: è quindi indispensabile “lavorare nel merito”, per enucleare costi e benefici, vantaggi e svantaggi, delle opzioni realisticamente disponibili, così da offrire al Paese una proposta seria e credibile, che non si fondi su presupposti ideologici e aprioristici, su ricette velleitarie quanto generiche, ma che cerchi invece di fare chiarezza dello “stato dell’arte”, così da fornire agli stakeholders la griglia per le decisioni. Di seguito, per ciascuna delle “fonti tradizionali” alcune delle variabili in gioco:
- nucleare: la prospettiva del ritorno all’uso di questa tecnologia nel nostro Paese era già di per sé resa estremamente difficile –al di là delle questioni di merito- dall’approccio scelto dal Governo. La teorizzazione dell’imposizione della scelta da parte del Governo centrale, il mancato coinvolgimento delle amministrazioni locali (cfr il contenzioso con le Regioni) e delle popolazioni, i ritardi nell’emanazione dei provvedimenti, i distinguo e gli opportunismi dei Governatori di centro destra (favorevoli in teoria, ma tutti contrari alla localizzazioni di centrali nei loro territori, con le motivazioni più fantasiose e prive di fondamento logico) le beghe di potere sulle nomine all’Agenzia della Sicurezza, il suo mancato finanziamento dopo mesi (facciamo le riunioni al bar, confessa il presidente) sono la dimostrazione di un approccio più legato alla retorica del “governo del fare” che alle scelte operative concrete, ed hanno reso non credibile questa prospettiva prima che l’incidente di Fukushima costringesse nei fatti il mondo intero a riconsiderare fin dalle basi il tema della sicurezza legata all’uso della tecnologia nucleare.
- gas: rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti (ulteriormente aumentato a seguito delle vicende del Nord Africa), alla scarsa diversificazione delle fonti, prezzi della materia prima legati a quelli del petrolio ed in tendenziale crescita (soprattutto se le scelte in tema di abbandono del nucleare finiranno per “assorbire” la crescita dell’offerta conseguente allo sviluppo dell’unconventional gas), necessità investimenti (nell’attuale situazione di mercato non sempre economicamente sostenibili) in infrastrutture di trasporto e trasformazione (così da poter sfruttare vantaggi del mercato spot), criticità dell'assetto di mercato interno (non pienamente concorrenziale, con il permanere di un ruolo preponderante dell’incumbent, anche in ragione del non risolto unbundling delle reti di trasporto, che si ripercuote necessariamente sulla produzione elettrica), elevata elasticità delle centrali a ciclo combinato, tecnologia matura rispetto alla quale esistono competenze nazionali, emissioni tra le più basse tra le fonti fossili, costo di produzione dell’energia nella fascia alta tra le fonti tradizionali;
- carbone: assenza di rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, prezzi della materia prima bassi e non legati al petrolio, limitata elasticità di utilizzo, relativa diffusione di tecnologie per l’abbattimento delle polveri in fase di escavazione, trasporto, utilizzo, emissioni di CO2 elevate in assenza di CCS (carbon capture and storage, per la quale –al di là dei costi attualmente non ipotizzabili- potrebbero sussistere anche problemi di creazione del consenso locale) e quindi in prospettiva elevata incidenza dei crediti di emissione, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (senza crediti di emissione)
Ma quindi cosa si può dire a proposito del costo di produzione? Da quanto sopra enunciato è evidente che si stanno confrontando metodologie/impianti di produzione tra loro estremamente diversi, per quanto riguarda la struttura degli investimenti e dei costi di esercizio, nonché la dipendenza/indipendenza da fattori esogeni al di fuori del controllo degli operatori. Di qui la difficoltà di formulare comparazioni di costo significative. Solo alcune brevi considerazioni:
- se il ruolo affidato allo Stato è solo quello di vigilare sul rispetto degli standard di sicurezza, qualità, rispetto dell’ambiente e sull’accantonamento di risorse idonee ai processi di gestione del fine vita degli impianti e delle scorie, in un regime di mercato concorrenziale ogni discussione sulla convenienza di una fonte rispetto all’altra è priva di fondamento economico. Saranno infatti gli operatori che, sulla base dei vincoli posti dallo Stato a tutela dell’interesse comune, e delle opportunità tecnologiche, sceglieranno la configurazione di produzione maggiormente efficiente;
- nel caso del nucleare, l’assoluta preponderanza degli aspetti finanziari fa sì che ogni incremento dei fattori di rischio (incertezza normativa, opportunismo dei decisori politici, difficoltà di creazione del consenso locale, prolungamento dei tempi di autorizzazione/costruzione, assenza di autorevolezza dell’Agenzia di Sicurezza) si tramuti immediatamente in aumento dei tassi di finanziamento, e quindi in maggior costo di produzione. In proposito, la scelta del Governo italiano di non puntare sulla costruzione di processi di coinvolgimento, quanto piuttosto su logiche autoritarie e centralistiche, già da prima della scelta di moratoria suscitava non pochi dubbi;
- nel caso del gas, in assenza di un disaccoppiamento reale e consolidato tra prezzi del gas e prezzi del petrolio, conseguente all’ulteriore sviluppo dell’estrazione di unconventional gas (che peraltro pare non essere del tutto esente da significative problematiche ambientali), il rischio che fattori non controllabili relativi sia alle dinamiche politiche di aree particolarmente esposte che all’incremento di domanda di Paesi emergenti, possano far ritornare il prezzo del petrolio e del gas su valori difficilmente compatibili con l’attuale modello di sviluppo economico, non è affatto trascurabile;
- non può infine essere dimenticata l’incidenza delle politiche a tutela dell’ambiente sulle scelte di produzione e sui relativi costi. Il carbone certamente non comporta rischi geopolitici, è disponibile in grandi quantità, costa poco, ma….. come si è visto presenta altri problemi (che si possono affrontare, ma che a loro volta comportano costi ulteriori e forse qualche possibile difficoltà di costruzione del consenso). In ogni caso se, come è auspicabile, proseguiranno gli sforzi comuni per diminuire le conseguenze ambientali della produzione di energia, quanto più elevato sarà il costo attribuito alle emissioni di CO2, tanto più si verrà di conseguenza a modificare la “griglia delle convenienze” degli operatori. E questo è un ulteriore elemento di incertezza.
Che ruolo giocano le reti di trasporto? se l’energia fosse prodotta lì dove viene utilizzata, non ci sarebbe evidentemente bisogno di reti di trasporto. Ma questo non avviene, per molte ragioni (tecniche, geografiche, storiche, legate ai processi economici e sociali di ciascun territorio). Allora lo sviluppo della rete può contribuire ad eliminare alla base eventuali rendite di posizione, mettendo in concorrenza tra loro impianti di territori diversi, mandando fuori mercato gli impianti più costosi ed obsoleti e consentendo così un costante miglioramento dell’efficienza del parco di generazione. Non diversamente nel caso del gas, là dove per esempio potrebbe essere inefficiente localizzare i rigassificatori al sud a fronte di consumi concentrati al nord (i produttori risparmiano un giorno di nave gasiera ma poi si dovrebbero raddoppiare la rete di trasporto e relativi contro flussi sud-nord). Poiché i costi relativi alla gestione di tutto questo, in ogni caso, li pagano due volte i consumatori, vuoi con le tariffe finalizzate allo sviluppo delle reti, vuoi con le bollette in ragione delle congestioni che si vengono a creare nelle divisioni/separazioni del mercato, è evidente l’interesse collettivo alla individuazione di un “punto di equilibrio” che minimizzi i costi sociali. Emerge quindi chiaramente che qualsiasi strategia di produzione energetica non può prescindere dall’affrontare contestualmente il nodo reti, in modo da far procedere in parallelo le due cose.
Ma è un sogno una politica energetica europea? E’ davvero impossibile pensare di costruire una politica energetica che superi il livello nazionale, per integrare i sistemi energetici continentali e per realizzare l’interconnessione dell’intero spazio mediterraneo (anche Nord Africa per intercettare gli impianti del progetto Desertec, se verrà effettivamente realizzato a costi competitivi)? Questo permetterebbe di effettuare una “divisione del lavoro” tra i vari Paesi, che valorizzi specificità, competenze, storie industriali, ad esempio concentrando l’eolico nel nord Europa, dove i venti sono forti e costanti, ed i fondali bassi per l’off-shore, utilizzando il carbone ed il nucleare tedesco, così come il nucleare francese, per fare la produzione di base (base load) per tutta l’Europa, ed i cicli combinati italiani per la modulazione dell’offerta. Quest’ipotesi, affascinante, ha però bisogno della costruzione di un sistema europeo che superi gli egoismi nazionali e la logica per cui ogni paese deve avere un suo campione nazionale, e di investimenti importantissimi nelle reti di trasmissione, nazionali e transnazionali, che superino i colli di bottiglia esistenti, che nascono dalla storia e dalle logiche nazionali, ma sono anche funzionali –dobbiamo saperlo- ad arbitraggi e rendite di posizione dei vari produttori (spesso proprio i “campioni nazionali”)
Per finire, quale deve essere l’assetto di mercato futuro? il rilancio delle politiche di liberalizzazione può offrire più di una leva per ridurre gli oneri sui prezzi dell'energia, direttamente riconducibili alla bassa concorrenzialità del mercato. Il peso che questi oneri determinano, in misura diretta e indiretta, è equiparabile al peso degli incentivi sulle rinnovabili (oneri di dispacciamento al Sud, transito gas, ecc). La soluzione dei sussidi agli energivori è sicuramente un modo per mettere a tacere il problema, mantenendo però tutte le inefficienze e le rendite di posizione e caricando ulteriormente gli oneri impropri per le famiglie e le piccole imprese. Le soluzioni tampone (tipo inteconnector e stoccaggi virtuali o tariffe speciali) sono talmente comode per tutti coloro che “hanno voce” (grandi produttori e grandi consumatori) che si finisce per dimenticare la strada maestra, che è quella di aprire davvero il mercato, rendendolo pienamente concorrenziale, ad iniziare dalla reale terzietà delle infrastrutture di trasporto. Questi sono, in maniera schematica ma con buona approssimazione, gli elementi di valutazione di base per la costruzione di un’organica strategia energetica per l’Italia: con questi ci si deve oggi confrontare nel concreto, senza vagheggiare soluzioni futuribili o salti tecnologici al momento non ipotizzabili, senza confondere legittime aspirazioni e realtà, “sporcandosi le mani” con la miglior “quadratura” possibile tra esigenze ambientali, ricerca della competitività del sistema-paese, rischio di deindustrializzazione, individuazione del corretto modello di sviluppo. E tutto ciò richiede capacità di decisione, assunzione di responsabilità, trasparenza dei processi, costruzione della condivisione, rigore nelle scelte e nei comportamenti.
* Federico Testa è docente di Economia e gestione dell’impresa presso l’Università di Verona, parlamentare del Partito Democratico e membro della commissione attività produttive.
- fonti rinnovabili: il nostro Paese in questo settore aveva accumulato un significativo ritardo nei confronti di altri paesi ugualmente sviluppati. In questo senso, è stato opportuno per alcuni versi “forzare” i processi di incentivazione al fine di recuperare il ritardo. Ora è importante procedere sulla linea di sviluppo delle fonti rinnovabili, “aggiustando il tiro” così da:
- ottenere una ricaduta significativa sul tessuto produttivo/industriale italiano. Ad oggi questo avviene in misura parziale ed insufficiente, vuoi perché nella filiera produttiva rilevano molto i differenziali di costo di produzione (fotovoltaico in Cina), vuoi perché il ritardo accumulato ha fatto sì che la leadership tecnologica venisse acquisita da altri Paesi (eolico in Germania). E’ quindi evidente come, pur nel doveroso tentativo di recupero di questi gap, probabilmente è illusorio pensare di poter raggiungere, in queste filiere oramai mature, risultati particolarmente significativi. Opportuno quindi concentrare gli sforzi sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico di tecnologie meno mature, rispetto alle quali tuttora conserviamo leadership e competenze di prima fila, quali ad esempio il solare a concentrazione e la produzione di biocarburanti di seconda generazione;
- costruire un “percorso di sviluppo” delle fonti rinnovabili che consenta di massimizzare l’utilità degli incentivi, cogliendo fino in fondo i benefici derivanti da curve di apprendimento estremamente significative; in altre parole, cercando di approfittare della diminuzione continua e veloce dei costi di produzione per unità di energia prodotta;
- consentire l’incentivazione di impianti che abbiano una sostenibilità economica intrinseca di medio lungo periodo. Impianti eolici che “girano” 1400 ore all’anno si sostengono solo grazie a incentivi molto (troppo) generosi ed a meccanismi di rendita finanziaria che spesso portano con sè speculazioni, uso distorto del territorio, possibili ruoli non chiari della criminalità organizzata, anche a causa degli onerosi procedimenti autorizzativi. Ragionamenti analoghi possono farsi su impianti a terra nelle pianure, che spesso sottraggono per motivi speculativi risorse preziose all’agricoltura con effetti potenzialmente perversi sui prezzi degli alimentari.
- favorire l’uso termico delle fonti rinnovabili, che può contribuire significativamente all’aumento dell’efficienza ed alla costruzione di una filiera energetica italiana;
- sviluppare l’uso diffuso delle biomasse. La disponibilità complessiva di biomasse in Italia potrebbe coprire fino al 14% della domanda energetica interna. L’attuale produzione di energia da biomasse in Italia è pari a quasi il 3% del consumo globale distribuito in energia elettrica, energia termica e in biocarburanti. Le stime del GSE prospettano la possibilità di raggiungere nel 2020 una produzione annua tre volte superiore.
- collegare la diffusione delle fonti rinnovabili con lo sviluppo delle reti, sia in senso quantitativo (oggi ci sono zone del Paese dove la rete di trasmissione non è in grado di ricevere e smistare l’energia prodotta dagli impianti rinnovabili, che peraltro viene pagata lo stesso..) che in senso qualitativo: l’energia da fonti rinnovabili, tendenzialmente discontinua, va gestita da reti “intelligenti” (le cd smart grid). Favorire la diffusione di impianti di produzione molto piccoli (spesso derivante solo da facilitazioni autorizzative), oltre a non consentire di beneficiare delle economie di scala, comporta l’incremento dei costi di connessione alla rete e di gestione della rete stessa: è quindi importante trovare un punto di equilibrio economico tra tutte queste esigenze.
- evitare ricadute troppo pesanti –conseguenti ai meccanismi di incentivazione- sulle bollette elettriche di famiglie e imprese. In questo senso non può non essere registrato il fatto che sempre più una delle variabili con cui ci si deve confrontare nel caso di crisi economiche e di processi di delocalizzazione è proprio quella del costo dell’energia. Le vicende Alcoa, distretto chimico di Terni, di Ferrara, di Brindisi e di Marghera, oltre ad una più generale pressione del tessuto produttivo, ci impongono di ragionare con attenzione su questo tema, pena il rischio di una progressiva de-industrializzazione del nostro Paese.
E quanto alle fonti “tradizionali”? Quanto sin qui visto consente di affermare come, dal punto di vista tecnologico ed economico, si debba ipotizzare, per un lungo periodo di tempo ancora, la necessità di utilizzare per una quota considerevole ed importante del nostro fabbisogno le medesime modalità di produzione dell’energia che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni e che quindi, con tutti i miglioramenti ed aggiornamenti del caso, sono destinate a farlo nel prosieguo degli anni: gas, carbone, nucleare. Ognuna di queste fonti porta con sé vantaggi e svantaggi, in termini di costi di generazione, facilità di approvvigionamento della materia prima, condizionamenti socio-politici e quindi dipendenza dall’estero, flessibilità di utilizzo, ricadute ambientali in termini di produzione di CO2, di produzione di scorie, di inquinamento legato al trasporto della materia prima, di sicurezza della tecnologia in termini di possibili ricadute sulle popolazioni che vivono nei pressi degli impianti di produzione. Ma comunque, in assenza di “salti tecnologici”, auspicabili (e per i quali si deve chiedere con forza che la ricerca e l’innovazione siano adeguatamente sostenute) ma sin qui non prevedibili, con queste alternative ci dobbiamo confrontare per un periodo di tempo non breve: è quindi indispensabile “lavorare nel merito”, per enucleare costi e benefici, vantaggi e svantaggi, delle opzioni realisticamente disponibili, così da offrire al Paese una proposta seria e credibile, che non si fondi su presupposti ideologici e aprioristici, su ricette velleitarie quanto generiche, ma che cerchi invece di fare chiarezza dello “stato dell’arte”, così da fornire agli stakeholders la griglia per le decisioni. Di seguito, per ciascuna delle “fonti tradizionali” alcune delle variabili in gioco:
- nucleare: la prospettiva del ritorno all’uso di questa tecnologia nel nostro Paese era già di per sé resa estremamente difficile –al di là delle questioni di merito- dall’approccio scelto dal Governo. La teorizzazione dell’imposizione della scelta da parte del Governo centrale, il mancato coinvolgimento delle amministrazioni locali (cfr il contenzioso con le Regioni) e delle popolazioni, i ritardi nell’emanazione dei provvedimenti, i distinguo e gli opportunismi dei Governatori di centro destra (favorevoli in teoria, ma tutti contrari alla localizzazioni di centrali nei loro territori, con le motivazioni più fantasiose e prive di fondamento logico) le beghe di potere sulle nomine all’Agenzia della Sicurezza, il suo mancato finanziamento dopo mesi (facciamo le riunioni al bar, confessa il presidente) sono la dimostrazione di un approccio più legato alla retorica del “governo del fare” che alle scelte operative concrete, ed hanno reso non credibile questa prospettiva prima che l’incidente di Fukushima costringesse nei fatti il mondo intero a riconsiderare fin dalle basi il tema della sicurezza legata all’uso della tecnologia nucleare.
- gas: rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti (ulteriormente aumentato a seguito delle vicende del Nord Africa), alla scarsa diversificazione delle fonti, prezzi della materia prima legati a quelli del petrolio ed in tendenziale crescita (soprattutto se le scelte in tema di abbandono del nucleare finiranno per “assorbire” la crescita dell’offerta conseguente allo sviluppo dell’unconventional gas), necessità investimenti (nell’attuale situazione di mercato non sempre economicamente sostenibili) in infrastrutture di trasporto e trasformazione (così da poter sfruttare vantaggi del mercato spot), criticità dell'assetto di mercato interno (non pienamente concorrenziale, con il permanere di un ruolo preponderante dell’incumbent, anche in ragione del non risolto unbundling delle reti di trasporto, che si ripercuote necessariamente sulla produzione elettrica), elevata elasticità delle centrali a ciclo combinato, tecnologia matura rispetto alla quale esistono competenze nazionali, emissioni tra le più basse tra le fonti fossili, costo di produzione dell’energia nella fascia alta tra le fonti tradizionali;
- carbone: assenza di rischio geopolitico relativo agli approvvigionamenti, prezzi della materia prima bassi e non legati al petrolio, limitata elasticità di utilizzo, relativa diffusione di tecnologie per l’abbattimento delle polveri in fase di escavazione, trasporto, utilizzo, emissioni di CO2 elevate in assenza di CCS (carbon capture and storage, per la quale –al di là dei costi attualmente non ipotizzabili- potrebbero sussistere anche problemi di creazione del consenso locale) e quindi in prospettiva elevata incidenza dei crediti di emissione, costo di produzione dell’energia nella fascia bassa tra le fonti tradizionali (senza crediti di emissione)
Ma quindi cosa si può dire a proposito del costo di produzione? Da quanto sopra enunciato è evidente che si stanno confrontando metodologie/impianti di produzione tra loro estremamente diversi, per quanto riguarda la struttura degli investimenti e dei costi di esercizio, nonché la dipendenza/indipendenza da fattori esogeni al di fuori del controllo degli operatori. Di qui la difficoltà di formulare comparazioni di costo significative. Solo alcune brevi considerazioni:
- se il ruolo affidato allo Stato è solo quello di vigilare sul rispetto degli standard di sicurezza, qualità, rispetto dell’ambiente e sull’accantonamento di risorse idonee ai processi di gestione del fine vita degli impianti e delle scorie, in un regime di mercato concorrenziale ogni discussione sulla convenienza di una fonte rispetto all’altra è priva di fondamento economico. Saranno infatti gli operatori che, sulla base dei vincoli posti dallo Stato a tutela dell’interesse comune, e delle opportunità tecnologiche, sceglieranno la configurazione di produzione maggiormente efficiente;
- nel caso del nucleare, l’assoluta preponderanza degli aspetti finanziari fa sì che ogni incremento dei fattori di rischio (incertezza normativa, opportunismo dei decisori politici, difficoltà di creazione del consenso locale, prolungamento dei tempi di autorizzazione/costruzione, assenza di autorevolezza dell’Agenzia di Sicurezza) si tramuti immediatamente in aumento dei tassi di finanziamento, e quindi in maggior costo di produzione. In proposito, la scelta del Governo italiano di non puntare sulla costruzione di processi di coinvolgimento, quanto piuttosto su logiche autoritarie e centralistiche, già da prima della scelta di moratoria suscitava non pochi dubbi;
- nel caso del gas, in assenza di un disaccoppiamento reale e consolidato tra prezzi del gas e prezzi del petrolio, conseguente all’ulteriore sviluppo dell’estrazione di unconventional gas (che peraltro pare non essere del tutto esente da significative problematiche ambientali), il rischio che fattori non controllabili relativi sia alle dinamiche politiche di aree particolarmente esposte che all’incremento di domanda di Paesi emergenti, possano far ritornare il prezzo del petrolio e del gas su valori difficilmente compatibili con l’attuale modello di sviluppo economico, non è affatto trascurabile;
- non può infine essere dimenticata l’incidenza delle politiche a tutela dell’ambiente sulle scelte di produzione e sui relativi costi. Il carbone certamente non comporta rischi geopolitici, è disponibile in grandi quantità, costa poco, ma….. come si è visto presenta altri problemi (che si possono affrontare, ma che a loro volta comportano costi ulteriori e forse qualche possibile difficoltà di costruzione del consenso). In ogni caso se, come è auspicabile, proseguiranno gli sforzi comuni per diminuire le conseguenze ambientali della produzione di energia, quanto più elevato sarà il costo attribuito alle emissioni di CO2, tanto più si verrà di conseguenza a modificare la “griglia delle convenienze” degli operatori. E questo è un ulteriore elemento di incertezza.
Che ruolo giocano le reti di trasporto? se l’energia fosse prodotta lì dove viene utilizzata, non ci sarebbe evidentemente bisogno di reti di trasporto. Ma questo non avviene, per molte ragioni (tecniche, geografiche, storiche, legate ai processi economici e sociali di ciascun territorio). Allora lo sviluppo della rete può contribuire ad eliminare alla base eventuali rendite di posizione, mettendo in concorrenza tra loro impianti di territori diversi, mandando fuori mercato gli impianti più costosi ed obsoleti e consentendo così un costante miglioramento dell’efficienza del parco di generazione. Non diversamente nel caso del gas, là dove per esempio potrebbe essere inefficiente localizzare i rigassificatori al sud a fronte di consumi concentrati al nord (i produttori risparmiano un giorno di nave gasiera ma poi si dovrebbero raddoppiare la rete di trasporto e relativi contro flussi sud-nord). Poiché i costi relativi alla gestione di tutto questo, in ogni caso, li pagano due volte i consumatori, vuoi con le tariffe finalizzate allo sviluppo delle reti, vuoi con le bollette in ragione delle congestioni che si vengono a creare nelle divisioni/separazioni del mercato, è evidente l’interesse collettivo alla individuazione di un “punto di equilibrio” che minimizzi i costi sociali. Emerge quindi chiaramente che qualsiasi strategia di produzione energetica non può prescindere dall’affrontare contestualmente il nodo reti, in modo da far procedere in parallelo le due cose.
Ma è un sogno una politica energetica europea? E’ davvero impossibile pensare di costruire una politica energetica che superi il livello nazionale, per integrare i sistemi energetici continentali e per realizzare l’interconnessione dell’intero spazio mediterraneo (anche Nord Africa per intercettare gli impianti del progetto Desertec, se verrà effettivamente realizzato a costi competitivi)? Questo permetterebbe di effettuare una “divisione del lavoro” tra i vari Paesi, che valorizzi specificità, competenze, storie industriali, ad esempio concentrando l’eolico nel nord Europa, dove i venti sono forti e costanti, ed i fondali bassi per l’off-shore, utilizzando il carbone ed il nucleare tedesco, così come il nucleare francese, per fare la produzione di base (base load) per tutta l’Europa, ed i cicli combinati italiani per la modulazione dell’offerta. Quest’ipotesi, affascinante, ha però bisogno della costruzione di un sistema europeo che superi gli egoismi nazionali e la logica per cui ogni paese deve avere un suo campione nazionale, e di investimenti importantissimi nelle reti di trasmissione, nazionali e transnazionali, che superino i colli di bottiglia esistenti, che nascono dalla storia e dalle logiche nazionali, ma sono anche funzionali –dobbiamo saperlo- ad arbitraggi e rendite di posizione dei vari produttori (spesso proprio i “campioni nazionali”)
Per finire, quale deve essere l’assetto di mercato futuro? il rilancio delle politiche di liberalizzazione può offrire più di una leva per ridurre gli oneri sui prezzi dell'energia, direttamente riconducibili alla bassa concorrenzialità del mercato. Il peso che questi oneri determinano, in misura diretta e indiretta, è equiparabile al peso degli incentivi sulle rinnovabili (oneri di dispacciamento al Sud, transito gas, ecc). La soluzione dei sussidi agli energivori è sicuramente un modo per mettere a tacere il problema, mantenendo però tutte le inefficienze e le rendite di posizione e caricando ulteriormente gli oneri impropri per le famiglie e le piccole imprese. Le soluzioni tampone (tipo inteconnector e stoccaggi virtuali o tariffe speciali) sono talmente comode per tutti coloro che “hanno voce” (grandi produttori e grandi consumatori) che si finisce per dimenticare la strada maestra, che è quella di aprire davvero il mercato, rendendolo pienamente concorrenziale, ad iniziare dalla reale terzietà delle infrastrutture di trasporto. Questi sono, in maniera schematica ma con buona approssimazione, gli elementi di valutazione di base per la costruzione di un’organica strategia energetica per l’Italia: con questi ci si deve oggi confrontare nel concreto, senza vagheggiare soluzioni futuribili o salti tecnologici al momento non ipotizzabili, senza confondere legittime aspirazioni e realtà, “sporcandosi le mani” con la miglior “quadratura” possibile tra esigenze ambientali, ricerca della competitività del sistema-paese, rischio di deindustrializzazione, individuazione del corretto modello di sviluppo. E tutto ciò richiede capacità di decisione, assunzione di responsabilità, trasparenza dei processi, costruzione della condivisione, rigore nelle scelte e nei comportamenti.
* Federico Testa è docente di Economia e gestione dell’impresa presso l’Università di Verona, parlamentare del Partito Democratico e membro della commissione attività produttive.
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