Intervento del senatore Pietro Ichino al Senato durante la sessione antimeridiana del 20 aprile 2011, nel corso dell’esame dell’articolo 7 del decreto-legge 31 marzo 2011 n. 34 (c.d. “decreto Omnibus”) – In argomento v. anche la relazione introduttiva svolta a Ferrara il 5 novembre 2010 e il saggio del 2007 Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore - Inoltre l’intervento del Presidente di Assonime Stefano Micossi del 13 e 14 aprile 2011, prossimamente on line su questo sito.
Signor Presidente, l’articolo 7 di questo decreto-legge è, in ordine di tempo, l’ultimo capitolo di una storia troppo lunga, che deve finire: quella di un’Italia che, quando le imprese straniere si propongono di investire i loro capitali in aziende italiane, alza le barricate per impedirlo.
Abbiamo visto questa storia – e mi limito all’ultimo decennio – quando le barricate venivano alzate contro la olandese Abn Amro che intendeva investire sulla Banca Antonveneta: e allora abbiamo visto mobilitarsi per disporre i cavalli di Frisia addirittura la Banca d’Italia del Governatore Fazio, con le sue truppe guidate da Giampiero Fiorani. Qui il resto del postMa era ancora la stessa storia quando la statunitense AT&T osò attentare all’italianità di Telecom Italia; o quando la spagnola Abertis osò fare altrettanto con Autostrade. Lo stesso è accaduto, anche se in modo meno aperto, in difesa della pochissimo prestigiosa italianità delle nostre Ferrovie e delle nostre Poste. E ultimamente la stessa storia si è ripetuta quando si è trattato di respingere Air France-KLM che intendeva rilevare Alitalia e si presentava con un assegno da un miliardo, più la disponibilità ad accollarsi i debiti della nostra Compagnia di bandiera per un altro miliardo e mezzo: abbiamo preferito rinunciare a quei due miliardi e mezzo e metterci di tasca nostra un altro miliardo o giù di lì, fra prestiti senza ritorno per tenere in vita l’azienda con la respirazione bocca a bocca e Cassa integrazione settennale per i dipendenti non assorbiti nella nuova impresa. Oltre a mettere in campo la clausola di esenzione per la nuova impresa dalle regole antitrust, in modo che il suo mantenimento in vita potesse essere garantito giorno per giorno dai viaggiatori ai quali l’italianissima Alitalia può far pagare, sulle rotte Milano-Roma e Torino-Roma, 300 euro per un biglietto che sulla rotta Londra-Glasgow ne costa soltanto 80.
Ora aggiungiamo il capitolo delle barricate contro Lactalis che intende investire su Parmalat. Non se ne sentiva davvero il bisogno.
Questo discorso critico, beninteso, non riguarda soltanto una politica del centrodestra: esso è rivolto semmai contro un’intesa protezionistica implicita, mai verbalizzata, cui nell’ultimo mezzo secolo hanno contribuito in qualche misura tutte le parti politiche, nessuna esclusa (se eccettuiamo alcune piccole formazioni interne ai grandi schieramenti contrapposti). Un’intesa protezionistica tacita nella quale alla parte più vecchia e conservatrice dell’establishment industriale ha fatto da sponda la parte più vecchia e conservatrice del nostro movimento sindacale. Il risultato di questa intesa sta nel dato che – come è stato sottolineato in quest’aula l’altro ieri da Enrico Morando e ieri da Maria Leddi, vede l’Italia penultima in Europa per capacità di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali: dietro a noi c’è soltanto la Grecia.
Per avere un’idea di quanto questa chiusura costi al nostro sistema economico, basti pensare che se l’Italia avesse la stessa capacità di aprirsi agli investimenti stranieri di un Paese europeo che in quella classifica occupa una posizione mediana, come l’Olanda (che riceve mediamente ogni anno un flusso di investimenti stranieri pari al 5 per cento del suo Pil), questo significherebbe per il nostro Paese ricevere un maggior flusso rispetto a quello attuale pari a circa il 3,6 per cento del Pil italiano, cioè un maggior flusso pari a poco meno di 60 miliardi di euro ogni anno. In altre parole, questo significherebbe per noi ricevere ogni anno maggiori investimenti pari a circa 29 volte quello che la Fiat di Sergio Marchionne ci ha prospettato con il progetto “Fabbrica Italia”.
Non possiamo, dunque, esimerci dal chiederci che cosa chiuda così rovinosamente il nostro Paese agli investimenti stranieri. Ed è la stessa domanda che si è posta Confindustria con la recente costituzione del Comitato Investitori Esteri presieduto da Giuseppe Recchi. Le risposte a questa domanda sono, certo, molte. Tra le cause principali di questa chiusura va innanzitutto annoverato il difetto di efficienza delle nostre amministrazioni pubbliche, con il conseguente eccesso di burocrazia che pesa su tutte le attività produttive.
Contribuiscono a questa chiusura, poi, i costi dell’energia e dei servizi alle imprese, nettamente più alti in Italia rispetto al resto d’Europa, anche per difetto di concorrenza nei rispettivi mercati.
Vi contribuisce, certo, anche un sistema delle relazioni industriali che gli osservatori stranieri qualificano come “vischioso e inconcludente”, a causa della perdurante grave lacuna di norme chiare in materia di rappresentanza e democrazia sindacale.
Vi è infine – non ultimo per importanza – il capitolo delle regole: regole con basso tasso di effettività, per difetto di senso civico diffuso e di cultura della legalità (e qui va detto che gli operatori stranieri sono riluttanti a impegnarsi in un Paese nel quale occorre anche “sapersi arrangiare” nella zona grigia della semi-legalità, quando non addirittura nell’illegalità piena: zone, queste, nelle quali occorre possedere un know-how molto particolare, di cui tipicamente gli indigeni dispongono in maggiore misura). Per applicare le regole occorre innanzitutto poterle conoscere facilmente; le nostre, invece, sono inconoscibili, perché caotiche (come questo decreto “Omnibus” che stiamo discutendo), sono disorganiche, scarsamente suscettibili di traduzione in inglese; ma anche perché cambiano in continuazione; e talvolta – come nel caso della norma di cui stiamo discutendo – perché vengono cambiate deliberatamente “in corso di partita” al fine di ostacolare l’investimento straniero. Magari per garantire a qualche produttore di latte padano la conservazione di una piccola rendita di posizione che potrebbe essere altrimenti insidiata dai concorrenti. Con buona pace della “frustata liberalizzatrice” annunciata dal Presidente del Consiglio meno di due mesi fa.
Non venga, signor ministro, a dirci che questo è necessario per ritorsione nei confronti di analoghe norme protezionistiche che in Francia assistono alcune produzioni considerate “strategiche”: perché se questo dovesse davvero portarci a considerare come “strategici” anche lo yogurt e lo stracchino, allora non si comprenderebbe più perché mezzo secolo fa abbiamo dato vita al mercato comune europeo. E comunque la storia insegna che gli investimenti stranieri, in linea generale, fanno bene a chi li riceve, portando con sé energie manageriali preziose, domanda di lavoro aggiuntiva, piani industriali innovativi che consentono di aumentare la produttività delle aziende e del lavoro che in esse si svolge, allargando così i margini per il miglioramento del trattamento dei lavoratori.
Signor ministro, diciamo le cose come stanno: la norma che stiamo discutendo è l’ultimo capitolo di una pluridecennale storia infelice, che ha contribuito a ritardare gravemente la crescita del nostro Paese; una storia della quale tutti in qualche misura portiamo una parte di colpa. Ma l’Italia ha un bisogno vitale di recuperare la capacità di attrarre quelle decine di miliardi che ogni anno restano fuori dai suoi confini: questa è l’unica leva di cui disponiamo per tornare a crescere in modo vigoroso, pur nella lunga e severa stagione di finanza pubblica all’osso che ci attende.
Oggi più che mai dobbiamo avere il coraggio di riconoscere gli errori del passato e di rompere una volta per tutte quella tacita intesa protezionistica che tanto male ha fatto al nostro Paese.
Ora aggiungiamo il capitolo delle barricate contro Lactalis che intende investire su Parmalat. Non se ne sentiva davvero il bisogno.
Questo discorso critico, beninteso, non riguarda soltanto una politica del centrodestra: esso è rivolto semmai contro un’intesa protezionistica implicita, mai verbalizzata, cui nell’ultimo mezzo secolo hanno contribuito in qualche misura tutte le parti politiche, nessuna esclusa (se eccettuiamo alcune piccole formazioni interne ai grandi schieramenti contrapposti). Un’intesa protezionistica tacita nella quale alla parte più vecchia e conservatrice dell’establishment industriale ha fatto da sponda la parte più vecchia e conservatrice del nostro movimento sindacale. Il risultato di questa intesa sta nel dato che – come è stato sottolineato in quest’aula l’altro ieri da Enrico Morando e ieri da Maria Leddi, vede l’Italia penultima in Europa per capacità di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali: dietro a noi c’è soltanto la Grecia.
Per avere un’idea di quanto questa chiusura costi al nostro sistema economico, basti pensare che se l’Italia avesse la stessa capacità di aprirsi agli investimenti stranieri di un Paese europeo che in quella classifica occupa una posizione mediana, come l’Olanda (che riceve mediamente ogni anno un flusso di investimenti stranieri pari al 5 per cento del suo Pil), questo significherebbe per il nostro Paese ricevere un maggior flusso rispetto a quello attuale pari a circa il 3,6 per cento del Pil italiano, cioè un maggior flusso pari a poco meno di 60 miliardi di euro ogni anno. In altre parole, questo significherebbe per noi ricevere ogni anno maggiori investimenti pari a circa 29 volte quello che la Fiat di Sergio Marchionne ci ha prospettato con il progetto “Fabbrica Italia”.
Non possiamo, dunque, esimerci dal chiederci che cosa chiuda così rovinosamente il nostro Paese agli investimenti stranieri. Ed è la stessa domanda che si è posta Confindustria con la recente costituzione del Comitato Investitori Esteri presieduto da Giuseppe Recchi. Le risposte a questa domanda sono, certo, molte. Tra le cause principali di questa chiusura va innanzitutto annoverato il difetto di efficienza delle nostre amministrazioni pubbliche, con il conseguente eccesso di burocrazia che pesa su tutte le attività produttive.
Contribuiscono a questa chiusura, poi, i costi dell’energia e dei servizi alle imprese, nettamente più alti in Italia rispetto al resto d’Europa, anche per difetto di concorrenza nei rispettivi mercati.
Vi contribuisce, certo, anche un sistema delle relazioni industriali che gli osservatori stranieri qualificano come “vischioso e inconcludente”, a causa della perdurante grave lacuna di norme chiare in materia di rappresentanza e democrazia sindacale.
Vi è infine – non ultimo per importanza – il capitolo delle regole: regole con basso tasso di effettività, per difetto di senso civico diffuso e di cultura della legalità (e qui va detto che gli operatori stranieri sono riluttanti a impegnarsi in un Paese nel quale occorre anche “sapersi arrangiare” nella zona grigia della semi-legalità, quando non addirittura nell’illegalità piena: zone, queste, nelle quali occorre possedere un know-how molto particolare, di cui tipicamente gli indigeni dispongono in maggiore misura). Per applicare le regole occorre innanzitutto poterle conoscere facilmente; le nostre, invece, sono inconoscibili, perché caotiche (come questo decreto “Omnibus” che stiamo discutendo), sono disorganiche, scarsamente suscettibili di traduzione in inglese; ma anche perché cambiano in continuazione; e talvolta – come nel caso della norma di cui stiamo discutendo – perché vengono cambiate deliberatamente “in corso di partita” al fine di ostacolare l’investimento straniero. Magari per garantire a qualche produttore di latte padano la conservazione di una piccola rendita di posizione che potrebbe essere altrimenti insidiata dai concorrenti. Con buona pace della “frustata liberalizzatrice” annunciata dal Presidente del Consiglio meno di due mesi fa.
Non venga, signor ministro, a dirci che questo è necessario per ritorsione nei confronti di analoghe norme protezionistiche che in Francia assistono alcune produzioni considerate “strategiche”: perché se questo dovesse davvero portarci a considerare come “strategici” anche lo yogurt e lo stracchino, allora non si comprenderebbe più perché mezzo secolo fa abbiamo dato vita al mercato comune europeo. E comunque la storia insegna che gli investimenti stranieri, in linea generale, fanno bene a chi li riceve, portando con sé energie manageriali preziose, domanda di lavoro aggiuntiva, piani industriali innovativi che consentono di aumentare la produttività delle aziende e del lavoro che in esse si svolge, allargando così i margini per il miglioramento del trattamento dei lavoratori.
Signor ministro, diciamo le cose come stanno: la norma che stiamo discutendo è l’ultimo capitolo di una pluridecennale storia infelice, che ha contribuito a ritardare gravemente la crescita del nostro Paese; una storia della quale tutti in qualche misura portiamo una parte di colpa. Ma l’Italia ha un bisogno vitale di recuperare la capacità di attrarre quelle decine di miliardi che ogni anno restano fuori dai suoi confini: questa è l’unica leva di cui disponiamo per tornare a crescere in modo vigoroso, pur nella lunga e severa stagione di finanza pubblica all’osso che ci attende.
Oggi più che mai dobbiamo avere il coraggio di riconoscere gli errori del passato e di rompere una volta per tutte quella tacita intesa protezionistica che tanto male ha fatto al nostro Paese.
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