Articolo di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa del 6 marzo 2011
Per quest’anno si prevede un 8 Marzo meno stucchevole e più pragmatico del solito. Un otto marzo che vede rianimato un dibattito sul ruolo della donna nella società che si era un po’ affievolito negli anni scorsi, e che comincia a ragionare in termini di azioni concrete, in Italia e altrove. Per una serie di coincidenze, infatti, nelle ultime settimane il dibattito sull’emancipazione femminile si è riacceso non solo a casa nostra (a seguito della manifestazione del 13 Febbraio e delle legge sulle quote rosa nei consigli di amministrazione che sta per essere approvata in Parlamento), ma anche in molti Paesi esteri.
Negli Stati Uniti, grazie anche ad un rapporto commissionato dall’amministrazione Obama da cui emerge un consistente divario salariale tra donne e uomini, si è riaperto il dibattito sul Paycheck Fairness Act, una legge che potenzierebbe gli strumenti per combattere il gap salariale e che, approvata da tempo dalla House of Representatives, attende ora l’approvazione al Senato.
In Inghilterra Lord Davies, ex banchiere ed ex ministro per il Commercio e gli Investimenti, ha recentemente riaperto la questione femminile dichiarando che le società quotate a Londra dovrebbero raddoppiare entro il 2015 la presenza femminile nei loro consigli di amministrazione, passando dall’attuale 12.5% ad almeno il 25%. E in Germania la Merkel, di fronte al continuo ritardo del mondo finanziario ed imprenditoriale tedesco (solo il 2.2% dei consigli di amministrazione delle prime 30 aziende quotate in borsa è rappresentato da donne), ha minacciato di introdurre quote rosa del 40% per tutte le aziende più grandi, scatenando un putiferio.
Una presa di posizione che ricalca quella della Commissaria Europea Viviane Reding che poche settimane fa a Davos ha lanciato la proposta di applicare quote rosa ai consigli di amministrazione delle maggiori 500 imprese europee. D’altronde sono già numerosi i Paesi Europei che hanno adottato misure simili (Norvegia, Spagna, Islanda, e, da poco, Francia). E, nonostante le perplessità e le polemiche iniziali, la loro introduzione si è rivelata molto efficace. In Norvegia la quota di donne nei consigli di amministrazione è passata dal 25% del 2004 al 42% del 2009, e in Spagna dal 4% del 2006 al 10% del 2010. E non sembra aver danneggiato in alcun modo le imprese (d’altronde creare delle soglie minime di presenza non impedisce di sollevare da un incarico e sostituire una donna che non si dimostri all’altezza).
Anche numerosi esperti ed economisti, che in passato avevano sollevato riserve verso qualsiasi tipo di restrizione alle scelte «libere» del mercato, si stanno ricredendo dopo aver osservato che l’esclusione delle donne da posizioni di responsabilità non è legata a differenze nella distribuzione del «talento» nella popolazione femminile, ma ad aspettative pregiudiziali del datore di lavoro sulla loro futura disponibilità di tempo e dedizione.
Questi «pregiudizi» non solo precludono opportunità di crescita alle donne, ma ne demotivano l’impegno e le spingono indirettamente a lavorare di meno, alimentando quindi un circolo vizioso di inefficienze individuali e collettive. E’ noto infatti che un più elevato tasso di attività femminile si traduce in maggior stabilità economica delle famiglie e maggior crescita economica per il Paese. Non solo, ma come dimostra uno studio della società di consulenza McKinsey, le aziende con più donne nei consigli di amministrazione hanno una migliore gestione del rischio, più efficaci attività di controllo e, in media, un reddito operativo che supera del 56% quello delle aziende con consigli di amministrazione solo maschili.
Ecco, questo è il contesto in cui si celebra questo 8 marzo 2011. Un dibattito i cui contorni ideologici si sono forse un po’ indeboliti, ma in cui si sono inseriti elementi molto concreti, con contributi di esperti, economisti, ragionando su azioni politiche e disegni di legge. Un approccio che certo non può sostituirsi al lavoro profondo e culturale che ogni individuo, famiglia e associazione civile dovrà condurre in seno alla società per combattere quotidianamente stereotipi e ingiustizie, ma che rappresenta comunque un passo avanti per le donne e per la crescita del Paese.
Un passo avanti perché chiama in causa non solo la buona volontà dei singoli, ma l’impegno delle politiche pubbliche, il cui compito è quello di generare opportunità di crescita per i propri cittadini e rimuovere ogni ostacolo basato su pregiudizi e discriminazioni. In fondo, pensare a delle politiche che diano alle donne opportunità di realizzazione che non passino necessariamente ed esclusivamente attraverso il matrimonio o la maternità, ma anche attraverso la propria ambizione personale ed il proprio lavoro è una questione che va oltre il concetto di femminismo e o di efficienza economica, è questione di civiltà.
Una presa di posizione che ricalca quella della Commissaria Europea Viviane Reding che poche settimane fa a Davos ha lanciato la proposta di applicare quote rosa ai consigli di amministrazione delle maggiori 500 imprese europee. D’altronde sono già numerosi i Paesi Europei che hanno adottato misure simili (Norvegia, Spagna, Islanda, e, da poco, Francia). E, nonostante le perplessità e le polemiche iniziali, la loro introduzione si è rivelata molto efficace. In Norvegia la quota di donne nei consigli di amministrazione è passata dal 25% del 2004 al 42% del 2009, e in Spagna dal 4% del 2006 al 10% del 2010. E non sembra aver danneggiato in alcun modo le imprese (d’altronde creare delle soglie minime di presenza non impedisce di sollevare da un incarico e sostituire una donna che non si dimostri all’altezza).
Anche numerosi esperti ed economisti, che in passato avevano sollevato riserve verso qualsiasi tipo di restrizione alle scelte «libere» del mercato, si stanno ricredendo dopo aver osservato che l’esclusione delle donne da posizioni di responsabilità non è legata a differenze nella distribuzione del «talento» nella popolazione femminile, ma ad aspettative pregiudiziali del datore di lavoro sulla loro futura disponibilità di tempo e dedizione.
Questi «pregiudizi» non solo precludono opportunità di crescita alle donne, ma ne demotivano l’impegno e le spingono indirettamente a lavorare di meno, alimentando quindi un circolo vizioso di inefficienze individuali e collettive. E’ noto infatti che un più elevato tasso di attività femminile si traduce in maggior stabilità economica delle famiglie e maggior crescita economica per il Paese. Non solo, ma come dimostra uno studio della società di consulenza McKinsey, le aziende con più donne nei consigli di amministrazione hanno una migliore gestione del rischio, più efficaci attività di controllo e, in media, un reddito operativo che supera del 56% quello delle aziende con consigli di amministrazione solo maschili.
Ecco, questo è il contesto in cui si celebra questo 8 marzo 2011. Un dibattito i cui contorni ideologici si sono forse un po’ indeboliti, ma in cui si sono inseriti elementi molto concreti, con contributi di esperti, economisti, ragionando su azioni politiche e disegni di legge. Un approccio che certo non può sostituirsi al lavoro profondo e culturale che ogni individuo, famiglia e associazione civile dovrà condurre in seno alla società per combattere quotidianamente stereotipi e ingiustizie, ma che rappresenta comunque un passo avanti per le donne e per la crescita del Paese.
Un passo avanti perché chiama in causa non solo la buona volontà dei singoli, ma l’impegno delle politiche pubbliche, il cui compito è quello di generare opportunità di crescita per i propri cittadini e rimuovere ogni ostacolo basato su pregiudizi e discriminazioni. In fondo, pensare a delle politiche che diano alle donne opportunità di realizzazione che non passino necessariamente ed esclusivamente attraverso il matrimonio o la maternità, ma anche attraverso la propria ambizione personale ed il proprio lavoro è una questione che va oltre il concetto di femminismo e o di efficienza economica, è questione di civiltà.
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