Nella celebre battuta di Winston Churchill ? «La democrazia è il peggior sistema di governo... tranne tutti gli altri» ? l'attenzione è attratta dalla seconda parte della frase, dove risiede l'effetto spiazzante della battuta. Ma anche la prima parte merita attenzione: la democrazia rappresentativa, la scelta dei rappresentanti ? e del governo,direttamente o indirettamente ? mediante suffragio universale può rivelarsi in
molti casi un cattivo sistema, anche in Paesi avanzati, anche dove sono presenti le istituzioni di uno Stato di diritto, figuriamoci in quelli in cui tali istituzioni non esistono. La battuta di Churchill non dev'essere dunque letta in modo consolatorio, come se raccomandasse: teniamoci in ogni caso la democrazia come effettivamente funziona, anche se funziona male, visto che gli altri sistemi sono comunque peggio. Al contrario, essa va letta soprattutto come un invito a migliorare la qualità della democrazia e a renderla compatibile con un buon governo. Un governo che sappia identificare in modo lungimirante gli ostacoli reali che si frappongono al benessere dei cittadini (e dei loro figli e nipoti) e sappia muoversi con determinazione e continuità per superarli. La scelta non è dunque tra democrazia e non-democrazia, ma tra democrazie di diversa qualità.
La nostra democrazia, bene o male impiantata in uno Stato di diritto, appartiene al novero delle buone democrazie. Non delle migliori, però. «Quanto sono buone, le buone democrazie?», si chiede Stein Ringen in What democracy is for (Princeton, 2007). E risponde che la nostra è la peggiore tra quelle prese in considerazione. Dei criteri e degli indicatori adottati da Ringen si può
discutere. Ma non del fatto che essi rimandino anche a tratti profondi e antichi del nostro «State and Nation building», alla profonda spaccatura territoriale del nostro Paese, al disegno inadeguato delle sue istituzioni, alla cattiva qualità delle sue amministrazioni pubbliche e di molte private, all'illegalità, alla criminalità, allo scarso civismo, alla corruzione, tutti fenomeni sociali più diffusi in Italia che in altre «buone democrazie». E tutti tratti istituzionali che ostacolano le politiche pubbliche rivolte a migliorare la cattiva situazione in cui versiamo, a contrastare il declino cui sembriamo condannati, e che inducono per ragioni di urgenza a insistere più sul rigore che a promuovere crescita in condizioni di equità.Mario Monti ha raccolto in eredità un Paese logorato, nel quale, dopo la prima grande ondata di crescita economica, a partire dalla seconda fase della Prima Repubblica e per gran parte della Seconda, si era fatto assai poco per estirpare quei fenomeni sociali e
quei tratti istituzionali che presto o tardi avrebbero soffocato il nostro sviluppo: con l'inflazione, i disavanzi e il debito degli anni 70 e 80 avevamo solo dilazionato il redde rationem. Si è allora reso conto di quanto necessaria, ma anche lunga e difficile sia la cura, se deve aggredire fenomeni sociali e tratti istituzionali così profondamente radicati. Si è reso conto inoltre che una lotta politica centrata su una opposizione violenta e rissosa tra destra e sinistra, come quella che abbiamo vissuto e tuttora stiamo vivendo nella Seconda Repubblica, sia più un ostacolo che un aiuto ad affrontare obiettivi di riforma nei confronti dei quali destre e sinistre civili non
dovrebbero opporsi, ma unirsi in una lotta comune. Quest'ultima convinzione, a
volte espressa con ingenua brevità, ha suscitato sia scetticismo che scandalo.
Lo scetticismo è quello espresso dalla famosa battuta, attribuita a Mussolini, secondo cui tentare di cambiare la testa agli italiani non è difficile, è inutile. Ma combattere la corruzione, l'illegalità e la criminalità, migliorare la pubblica amministrazione, non equivale a «cambiare la testa» a nessuno. Non si ambisce a costruire l'«Uomo nuovo» cui volevano arrivare i regimi totalitari di un infausto passato, tant'è vero che quell'obiettivo è stato raggiunto in molti Paesi impeccabilmente liberali e democratici. E altrettanto fuori luogo è lo scandalo. Come ho cercato di argomentare in un mio recente articolo su La Lettura, non credo proprio che Monti giudichi irrilevanti le sacre categorie di destra e sinistra. Al contrario, l'obiettivo è quello di migliorare la qualità della nostra democrazia, far svolgere l'eterno confronto tra destra e sinistra in un contesto civile, nel quale i caratteri demagogici e populistici che lo inquinano oggi nel nostro Paese siano stati attenuati, se non sradicati.
Lo scetticismo è quello espresso dalla famosa battuta, attribuita a Mussolini, secondo cui tentare di cambiare la testa agli italiani non è difficile, è inutile. Ma combattere la corruzione, l'illegalità e la criminalità, migliorare la pubblica amministrazione, non equivale a «cambiare la testa» a nessuno. Non si ambisce a costruire l'«Uomo nuovo» cui volevano arrivare i regimi totalitari di un infausto passato, tant'è vero che quell'obiettivo è stato raggiunto in molti Paesi impeccabilmente liberali e democratici. E altrettanto fuori luogo è lo scandalo. Come ho cercato di argomentare in un mio recente articolo su La Lettura, non credo proprio che Monti giudichi irrilevanti le sacre categorie di destra e sinistra. Al contrario, l'obiettivo è quello di migliorare la qualità della nostra democrazia, far svolgere l'eterno confronto tra destra e sinistra in un contesto civile, nel quale i caratteri demagogici e populistici che lo inquinano oggi nel nostro Paese siano stati attenuati, se non sradicati.
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