I dati relativi alla crisi economica che ha investito da alcuni anni il mondo industriale occidentale si intrecciano in Italia con i dati relativi al declino che nel nostro Paese era iniziato già da molto tempo. E si tratta di un intreccio impressionante, come ben mostra, con ricchezza di documentazione, Alessandro Rosina (professore di demografia e statistica sociale all'Università cattolica di Milano), nel suo saggio L'Italia che non cresce. Gli alibi di un Paese immobile (Laterza). Vediamo alcuni di questi dati.
In Italia il Pil (Prodotto interno lordo) è passato da una crescita media del 3,6% negli anni Settanta, al 2,4% negli anni Ottanta, all'1,6% negli anni Novanta, fino al modestissimo 1,1% negli anni pre-crisi del primo decennio di questo secolo. Tutto ciò è avvenuto nel quadro di una forte crisi demografica, unica in Europa per la sua gravità: siamo stati i primi al mondo a vedere gli over-65 superare gli under-15; e di questo passo entro il 2050 gli anziani raggiungeranno il peso di una persona su tre. Naturalmente questa crisi demografica ha uno stretto rapporto con le bassissime risorse che l'Italia ha destinato alla famiglia, sicché molti servizi essenziali (a partire dagli asili-nido) sono stati drammaticamente insufficienti. Basti pensare che, per quanto riguarda la spesa sociale, alla voce Famiglia, l'Italia destina l'1,3% del Pil: è il valore più basso dell'Europa occidentale (la media europea è del 2,1%).
Un osservatore straniero, che venisse da noi da lontane contrade, potrebbe attendersi che in una situazione di questo genere i nostri giovani, le cui schiere si sono così assottigliate, abbiano molte strade aperte e buone prospettive. Ma le cose, purtroppo, non stanno affatto così: anzi il nostro Paese è quello, in Europa, che più emargina i giovani. Tra il 2001 e il 2010 l'Italia ha perso circa un milione e mezzo di occupati nella fascia d'età compresa fra i 15 e i 34 anni. È il peggior crollo di lavoro giovanile in Europa.
In realtà, la questione giovanile è la questione più drammatica della situazione italiana, ed è il concentrato di tutte le sue storture, il riassunto più eloquente di tutte le sue ingiustizie. Per intendere la gravità della condizione dei giovani bastano alcune cifre: tra il 2008 e il 2010 la crisi economica ha ridotto del 13% l'occupazione dei nostri giovani (mentre ha ridotto del 3% quella dei giovani tedeschi). L'Italia è anche uno dei Paesi con la percentuale più alta di under-30 che dipendono economicamente dai genitori. La cosa non può stupire se si tiene presente che su circa 7,8 milioni di giovani, quelli pienamente inseriti nel mercato del lavoro sono non più di 2,2 milioni (meno del 30%); se si tolgono gli studenti, si arriva a poco più del 40%. Ciò significa che la grande maggioranza dei giovani che hanno concluso gli studi è esclusa o mal inserita. Inoltre c'è non solo una forte instabilità nel lavoro dei giovani all'ingresso (la grande maggioranza dei contratti per i giovani è a breve scadenza: nel 2011 il numero dei cosiddetti precari si attestava intorno ai 3,3 milioni), ma c'è anche una riduzione delle possibilità successive di stabilizzazione. In questo quadro non può meravigliare il deterioramento delle condizioni retributive del nostro mondo giovanile: i salari dei giovani italiani risultano mediamente più bassi rispetto a quelli dei coetanei europei. All'origine di questa disastrata condizione giovanile italiana ci sono anzitutto due fattori: la mancata crescita economica o una crescita irrisoria (che dura ormai da più di un quindicennio), e il dualismo del mercato del lavoro. Il dualismo si basa sul fatto che gli anziani occupati godono di tutti i diritti e di tutte le protezioni, mentre i giovani non hanno nessuno di quei diritti e nessuna di quelle protezioni. I giovani sono così colpiti dalla brevità dei loro contratti, dalla inferiorità dei loro salari, dalla atroce instabilità del loro lavoro (è infinitamente più facile non rinnovare il contratto di un giovane che licenziare un lavoratore maturo, anche quando il primo è più produttivo del secondo); per non parlare poi delle misere prospettive delle pensioni future.
Per porre rimedio alla estrema gravità della situazione giovanile italiana occorre certamente aumentare (come dice Rosina) la spesa sociale a favore delle nuove generazioni, che da noi è la più bassa in Europa; occorre investire in formazione; occorre istituire un raccordo efficace fra scuola e mondo del lavoro (oggi molte imprese non riescono a soddisfare le loro necessità di manodopera tecnica), ecc. ecc. Ma occorre superare, prima di tutto, il dualismo del mercato del lavoro, che punisce così gravemente i nostri giovani. Così come occorre, naturalmente, riavviare la crescita, promuovendo quelle liberalizzazioni, quella rimozione di privilegi corporativi, quelle riduzioni della spesa pubblica in settori parassitari per abbassare le tasse e finanziare investimenti produttivi, che fino ad oggi ci sono state promesse, ma che non sono mai state realizzate.
In realtà, la questione giovanile è la questione più drammatica della situazione italiana, ed è il concentrato di tutte le sue storture, il riassunto più eloquente di tutte le sue ingiustizie. Per intendere la gravità della condizione dei giovani bastano alcune cifre: tra il 2008 e il 2010 la crisi economica ha ridotto del 13% l'occupazione dei nostri giovani (mentre ha ridotto del 3% quella dei giovani tedeschi). L'Italia è anche uno dei Paesi con la percentuale più alta di under-30 che dipendono economicamente dai genitori. La cosa non può stupire se si tiene presente che su circa 7,8 milioni di giovani, quelli pienamente inseriti nel mercato del lavoro sono non più di 2,2 milioni (meno del 30%); se si tolgono gli studenti, si arriva a poco più del 40%. Ciò significa che la grande maggioranza dei giovani che hanno concluso gli studi è esclusa o mal inserita. Inoltre c'è non solo una forte instabilità nel lavoro dei giovani all'ingresso (la grande maggioranza dei contratti per i giovani è a breve scadenza: nel 2011 il numero dei cosiddetti precari si attestava intorno ai 3,3 milioni), ma c'è anche una riduzione delle possibilità successive di stabilizzazione. In questo quadro non può meravigliare il deterioramento delle condizioni retributive del nostro mondo giovanile: i salari dei giovani italiani risultano mediamente più bassi rispetto a quelli dei coetanei europei. All'origine di questa disastrata condizione giovanile italiana ci sono anzitutto due fattori: la mancata crescita economica o una crescita irrisoria (che dura ormai da più di un quindicennio), e il dualismo del mercato del lavoro. Il dualismo si basa sul fatto che gli anziani occupati godono di tutti i diritti e di tutte le protezioni, mentre i giovani non hanno nessuno di quei diritti e nessuna di quelle protezioni. I giovani sono così colpiti dalla brevità dei loro contratti, dalla inferiorità dei loro salari, dalla atroce instabilità del loro lavoro (è infinitamente più facile non rinnovare il contratto di un giovane che licenziare un lavoratore maturo, anche quando il primo è più produttivo del secondo); per non parlare poi delle misere prospettive delle pensioni future.
Per porre rimedio alla estrema gravità della situazione giovanile italiana occorre certamente aumentare (come dice Rosina) la spesa sociale a favore delle nuove generazioni, che da noi è la più bassa in Europa; occorre investire in formazione; occorre istituire un raccordo efficace fra scuola e mondo del lavoro (oggi molte imprese non riescono a soddisfare le loro necessità di manodopera tecnica), ecc. ecc. Ma occorre superare, prima di tutto, il dualismo del mercato del lavoro, che punisce così gravemente i nostri giovani. Così come occorre, naturalmente, riavviare la crescita, promuovendo quelle liberalizzazioni, quella rimozione di privilegi corporativi, quelle riduzioni della spesa pubblica in settori parassitari per abbassare le tasse e finanziare investimenti produttivi, che fino ad oggi ci sono state promesse, ma che non sono mai state realizzate.
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