Caro direttore, voglio manifestare al Corriere una preoccupazione da cittadino, a pochi giorni da elezioni regionali della cui importanza nessuno può dubitare, ma che vedono in gioco, tra i possibili candidati, anche un rappresentante della Lega Nord.
La mia esperienza di convinto autonomista e regionalista, nonché di primo presidente della Regione Lombardia, mi portano infatti a ritenere che la proposta fatta ai lombardi per la costruzione nell'Italia del Nord, in alleanza con Piemonte e Veneto, di una grande regione padana intrinsecamente secessionista perché intenzionata a
trattenere per sé gran parte delle risorse fiscali che lo Stato italiano
riscuote, possa apparire suggestiva. Tanto più perché affidata alla proposta di
votare una persona come Roberto Maroni, ex ministro e incontestabile
rinnegatore delle peggiori rozzezze del leghismo prima maniera. Proprio per
questo sono profondamente preoccupato: perché se gli elettori lombardi
cadessero nella trappola leghista, non solo farebbero un madornale errore
storico ma potrebbero segnare una svolta gravemente pericolosa per l'intero
nostro Paese. Un Paese nel quale è innegabile l'esistenza di una grave
«questione settentrionale», per risolvere la quale è assolutamente necessario
cominciare a pensare a come intendiamo gestire la fine dello Stato nazionale
accentrato la cui inaccettabile inefficienza - e ormai anche insussistenza - è
sotto gli occhi di tutti, compresi quelli del nostro capo dello Stato quando
viene a Milano a visitare le «sue» carceri. Ma un conto è proporsi di superare
l'attuale Stato centralista, retaggio degli errori risorgimentali del 1862, per
prepararsi all'Europa in modo da valorizzare le diversità regionali che da
sempre caratterizzano la storia della nostra Penisola, un conto è proporre a
Piemonte, Lombardia, Veneto di chiudersi su se stesse, isolandosi in una nuova
versione di localismo a scala aggiornata. E questo in una grande regione che
giustamente si vanta di essere tra le più ricche d'Europa, ma che sa anche di
esserlo perché da sempre aperta non solo al resto d'Italia ma soprattutto
all'Europa e al mondo.
I lombardi sanno infatti benissimo che l'incivilimento, il capitale sociale, la ricchezza non si costruiscono isolandosi e mettendo i soldi sotto il proprio materasso, bensì investendoli, facendone affluire il più possibile da fuori, coltivando la nostra atavica capacità di aprirci, di essere realmente «terra di mezzo» e di esserlo non soltanto tra Nord e Sud della Penisola ma soprattutto tra Nord e Sud dell'Europa, tra Nord e Sud del mondo. Così come sanno che in una regione
di più di 9 milioni di persone, nella quale Milano ne conta solo un po' più di
un milione e nella quale più della metà degli abitanti sta su territori ormai
urbanizzati, il rapporto con l'Europa e col mondo riguarda quasi tutti noi e
non è più mediato solo dal capoluogo o da Roma - la questione delle quote latte
dovrebbe pure averlo insegnato ai leghisti! - ma semmai da potenti interessi
funzionali spesso multinazionali. Quello che forse sanno meno è che, proprio in
considerazione di tutto ciò, l'Europa ha già scelto di impostare il suo futuro
sviluppo sulla rete delle grandi aree urbane che da sempre la innervano, e che
proprio alla glocal city a sud delle Alpi sta affidando il compito di fare da
cerniera tra Europa del Nord e Mediterraneo.
Ma è qui che una classe dirigente che voglia essere tale è chiamata a inserirsi. Per spiegare quanto grave sarebbe che dalle urne uscisse un verdetto fatalmente destinato a mettere l'ente Regione in conflitto con la rete dei Comuni chiamati a gestire il loro sviluppo urbano, fatalmente smart oltre che «glocale».
Perché se veramente vogliamo riordinare la statualità dell'Italia cominciando dalla nostra Regione, tutto dobbiamo volere tranne che un bagno di neolocalismo, per cogliere invece - con la grande novità di rapporto tra forze politiche tradizionali e forze nuove di diretta emanazione civica - la proposta di nuovo sviluppo che il patto civico di Umberto Ambrosoli contiene. La vera sfida per la Lombardia di oggi non è certo quella di separarci dal resto dell'Italia e del mondo, ma semmai quella di porre le basi per un nuovo Risorgimento: un risorgimento all'Europa. Un Risorgimento non solo scevro dagli errori di centralismo che furono del primo, ma nel quale la Lombardia e Milano sappiano ritrovare il ruolo allora mancato. Qualcosa del genere si è già intravisto a Milano nel 2011: il 51% per una linea di progresso fu allora raggiunto. L'augurio è che qualcosa di simile possa ripetersi per evitare alla Lombardia i rischi di soluzioni localistiche o condominiali.
Ma è qui che una classe dirigente che voglia essere tale è chiamata a inserirsi. Per spiegare quanto grave sarebbe che dalle urne uscisse un verdetto fatalmente destinato a mettere l'ente Regione in conflitto con la rete dei Comuni chiamati a gestire il loro sviluppo urbano, fatalmente smart oltre che «glocale».
Perché se veramente vogliamo riordinare la statualità dell'Italia cominciando dalla nostra Regione, tutto dobbiamo volere tranne che un bagno di neolocalismo, per cogliere invece - con la grande novità di rapporto tra forze politiche tradizionali e forze nuove di diretta emanazione civica - la proposta di nuovo sviluppo che il patto civico di Umberto Ambrosoli contiene. La vera sfida per la Lombardia di oggi non è certo quella di separarci dal resto dell'Italia e del mondo, ma semmai quella di porre le basi per un nuovo Risorgimento: un risorgimento all'Europa. Un Risorgimento non solo scevro dagli errori di centralismo che furono del primo, ma nel quale la Lombardia e Milano sappiano ritrovare il ruolo allora mancato. Qualcosa del genere si è già intravisto a Milano nel 2011: il 51% per una linea di progresso fu allora raggiunto. L'augurio è che qualcosa di simile possa ripetersi per evitare alla Lombardia i rischi di soluzioni localistiche o condominiali.
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