Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera il 21 agosto 2012
Mario Monti ha fatto bene a ricordarlo l'altro ieri a Rimini: ma quante volte è già stata usata questa espressione? Quanti lamenti, quante promesse abbiamo sentito? Tornare sul dibattito ha un sapore quasi imbarazzante. Tanto più che, come ha messo bene in luce il servizio di Federico Fubini apparso ieri su questo giornale, invece di migliorare la situazione peggiora, al netto della crisi. Moltissimi Paesi fanno meglio di noi, hanno tassi di occupazione giovanile (e totale) ben più alti dell'Italia. Sin dal suo insediamento, questo governo ha mostrato una nuova sensibilità per la condizione giovanile. Ma la politica concretamente adottata è stata quella dei piccoli passi. La riforma Fornero ha introdotto un pacchetto di misure promettenti: apprendistato, agevolazioni per l'assunzione di giovani e donne, limitazione dei contratti «usa e getta», accesso più ampio alle indennità di occupazione. Qualche effetto positivo arriverà senz'altro, ma non aspettiamoci scosse. Dal «Cresci Italia», dal «Semplifica Italia» e dal decreto sviluppo (finalmente convertito in legge) il governo si aspetta consistenti ricadute occupazionali: tuttavia, come lo stesso Monti ha ribadito a Rimini, ci vorrà tempo prima che le riforme producano risultati. E intanto? Il conto che facciamo pagare ai nostri giovani diventa ogni giorno più salato. La politica dei piccoli passi non è più sufficiente, soprattutto per un governo che ha scelto l'equità intergenerazionale come uno dei suoi più qualificanti obiettivi. Per accelerare il passo (anche sul piano politico) si deve prendere spunto dai Paesi virtuosi e applicare con maggior serietà le raccomandazioni europee. La strategia «Europa 2020» ci chiede ad esempio di accrescere il tasso di occupazione dall'attuale 61% al 70% nei prossimi otto anni e sollecita a quantificare obiettivi di medio termine, diciamo di qui a due o tre anni. Altri Paesi Ue l'hanno fatto nel loro ultimo Programma Nazionale di Riforma, l'Italia no. Perché? Proporsi traguardi precisi nel medio periodo servirebbe a creare un senso di maggiore urgenza. Sappiamo bene che da noi alzare il tasso di occupazione significa soprattutto dare lavoro a giovani e donne. La semplice indicazione di obiettivi non dà ovviamente garanzie che questi vengano raggiunti. Perciò il passo più importante da fare è quello delle garanzie: occorre immaginare qualche «penalità» in modo che, se si manca l'obiettivo, il conto non venga pagato dai giovani. L'esempio da imitare potrebbe essere quello dell'Olanda negli anni Novanta. Qui un governo di grande coalizione introdusse questa regola: se in un dato anno il tasso di occupazione non sale secondo il ritmo programmato (al netto del ciclo), nell'anno successivo viene sospesa l'indicizzazione delle prestazioni sociali. La sospensione avvenne effettivamente per tre anni consecutivi, fra il 1993 e il 1995, con l'appoggio dei sindacati e del partito socialdemocratico al governo. Parte dei fondi così risparmiati andò a finanziare le politiche attive del lavoro e quelle di formazione. Tra il 1991 e il 2001 il tasso di occupazione dei giovani olandesi crebbe di quasi 15 punti percentuali, portandosi al di sopra del 65% (oggi, nonostante la crisi, è al 68%, più del doppio di quello italiano). A voler essere davvero ambiziosi si potrebbe poi giocare d'anticipo rispetto alla stessa Unione europea. A Bruxelles si sta riflettendo su una misura che dovrebbe diventare presto oggetto di una Comunicazione ufficiale: la cosiddetta Youth Guarantee (garanzia per i giovani). Si tratta di un vero e proprio diritto di ogni studente che termina la scuola secondaria a ricevere un'offerta di lavoro, di tirocinio/apprendistato o di ulteriore programma formativo. Per un Paese come l'Italia sarebbe una vera e propria rivoluzione ed è chiaro che avrebbe alti costi finanziari ed organizzativi. Ma, lo ripeto, senza passi ambiziosi, che smettano di «far pagare il conto» ai giovani e rimodulino l'intensità e la gamma delle tutele lungo il ciclo di vita, l'Italia continuerà a mantenere i propri figli nel recinto dell'inattività, della precarietà, della dipendenza, con considerevoli danni sociali ed economici. Secondo gli esperti, in Europa ci sono oggi quasi sei milioni di giovani inattivi, il che comporta circa 100 miliardi di euro di «perdita» in mancato sviluppo. A Bruxelles si sta pensando di mobilitare il bilancio Ue per co-finanziare la Youth Guarantee: una prospettiva che tornerebbe a grande vantaggio dell'Italia. È un vero peccato che tale progetto non figuri fra i temi che occupano l'agenda europea sulla crisi e le discussioni sul cosiddetto Growth Compact. Ma, si sa, l'Europa sembra aver smarrito di questi tempi la capacità e il desiderio di presentarsi alle opinioni pubbliche (e ai suoi giovani) come soluzione, invece che come problema.
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