Caro Direttore, la notizia del disegno di legge per la promozione dell’invecchiamento attivo a cui sto lavorando con alcuni altri senatori democratici, data sul Corriere da Enzo Marro sabato scorso, ha suscitato reazioni contrastanti. La materia del dissenso può apparire un po’ tecnica; vale però la pena di mettere a fuoco il problema, anche per chi non è un “addetto ai lavori”, perché quello che è in gioco qui, a ben vedere, non è soltanto una questione di politica del lavoro e previdenziale, ma un aspetto particolare della questione politica cruciale sulla quale gli italiani sono chiamati a decidere nelle ormai prossime elezioni politiche: proseguire sulla linea dell’“agenda Monti”, o cambiare strada? Sul terreno specifico del lavoro e del welfare, in un Paese come il nostro in cui ancora nel 2011 l’età media del pensionamento di anzianità, cioè di due terzi di coloro che andavano in pensione, è stata pari a 58 anni e tre mesi: siamo convinti o no che non si possa continuare così e che si debba operare urgentemente per aumentare il nostro tasso di occupazione nella fascia di età superiore ai 55 anni?
Oggi soltanto un terzo degli italiani è attivo nel mercato del lavoro nella fascia di età tra i 55 e i 70 anni, mentre nel nord-Europa il tasso di occupazione in questa fascia è intorno ai due terzi. Vogliamo puntare ad arrivare rapidamente almeno al 50 per cento, o tutto sommato consideriamo che non sia questo uno degli obiettivi prioritari della nostra politica del lavoro? Pensiamo che ogni cinquantenne o sessantenne in più al lavoro favorisca la creazione di occasioni di lavoro per i giovani, perché continua a creare ricchezza e non succhia risorse pubbliche, oppure
siamo convinti che il modo migliore per dar lavoro ai giovani sia mandare in pensione i cinquantenni e sessantenni il più presto possibile, per far posto nel tessuto produttivo alle nuove generazioni?
I più decisi nel sostenere la seconda alternativa, quella che il nostro Paese ha costantemente praticato nell’ultimo mezzo secolo, sono comprensibilmente i cinquantenni e sessantenni che nell’autunno scorso erano vicini all’età del pensionamento secondo le vecchie regole e per effetto del decreto “Salva-Italia” del dicembre scorso si sono visti bruscamente allontanare di qualche anno l’agognata “quiescenza”. Quelli più vicini sono stati “salvaguardati”. Gli altri hanno ragione a lamentare il difetto di gradualità di quel decreto; ma non devono prendersela con il
Governo, il quale – in una situazione di pericolo gravissimo – ha dovuto fare in due settimane quello che i Governi precedenti avrebbero dovuto fare nell’arco dei venti anni precedenti e non hanno fatto. Politici e sindacalisti, dal canto loro, non devono alimentare l’idea che chi perde il posto a cinquant’anni non possa ritrovarlo. La maggior parte dei “non salvaguardati” è convinta che intorno ai 55-58 anni di età, con 35 o 38 anni di contribuzione al 33 per cento, ci si sia guadagnato il “diritto” a una pensione pari a tre quarti della retribuzione dell’ultimo periodo (per lo più doppia rispetto a quella iniziale) per gli altri 25 anni di vita che un italiano può attendersi a 58 anni; ma basta un elementare calcolo aritmetico per constatare che i conti non tornano. E che quindi occorre un periodo di contribuzione più lungo. Ancor meno i conti tornano quando – come nella maggior parte dei casi dei lavoratori “esodati non salvaguardati” – il lavoratore poco dopo i 50 anni di età, con soli 25 o 30 anni di contribuzione alle spalle, ha aderito a un piano aziendale di “incentivazione all’esodo” che prevedeva altri cinque o sei anni di cassa integrazione e “mobilità” per arrivare alla pensione a un’età intorno ai 58: è evidente a chiunque che la vita adulta di una persona non può essere divisa a metà tra lavoro e pensione. Nessun sistema previdenziale può garantire questo, se non al costo di un pesante contributo statale; ma questo significa sottrarre
risorse all’assistenza per chi ne ha veramente bisogno, ai servizi pubblici e agli investimenti. È questo il motivo per cui dobbiamo urgentemente smettere di affrontare le crisi occupazionali aziendali in questo modo.
siamo convinti che il modo migliore per dar lavoro ai giovani sia mandare in pensione i cinquantenni e sessantenni il più presto possibile, per far posto nel tessuto produttivo alle nuove generazioni?
I più decisi nel sostenere la seconda alternativa, quella che il nostro Paese ha costantemente praticato nell’ultimo mezzo secolo, sono comprensibilmente i cinquantenni e sessantenni che nell’autunno scorso erano vicini all’età del pensionamento secondo le vecchie regole e per effetto del decreto “Salva-Italia” del dicembre scorso si sono visti bruscamente allontanare di qualche anno l’agognata “quiescenza”. Quelli più vicini sono stati “salvaguardati”. Gli altri hanno ragione a lamentare il difetto di gradualità di quel decreto; ma non devono prendersela con il
Governo, il quale – in una situazione di pericolo gravissimo – ha dovuto fare in due settimane quello che i Governi precedenti avrebbero dovuto fare nell’arco dei venti anni precedenti e non hanno fatto. Politici e sindacalisti, dal canto loro, non devono alimentare l’idea che chi perde il posto a cinquant’anni non possa ritrovarlo. La maggior parte dei “non salvaguardati” è convinta che intorno ai 55-58 anni di età, con 35 o 38 anni di contribuzione al 33 per cento, ci si sia guadagnato il “diritto” a una pensione pari a tre quarti della retribuzione dell’ultimo periodo (per lo più doppia rispetto a quella iniziale) per gli altri 25 anni di vita che un italiano può attendersi a 58 anni; ma basta un elementare calcolo aritmetico per constatare che i conti non tornano. E che quindi occorre un periodo di contribuzione più lungo. Ancor meno i conti tornano quando – come nella maggior parte dei casi dei lavoratori “esodati non salvaguardati” – il lavoratore poco dopo i 50 anni di età, con soli 25 o 30 anni di contribuzione alle spalle, ha aderito a un piano aziendale di “incentivazione all’esodo” che prevedeva altri cinque o sei anni di cassa integrazione e “mobilità” per arrivare alla pensione a un’età intorno ai 58: è evidente a chiunque che la vita adulta di una persona non può essere divisa a metà tra lavoro e pensione. Nessun sistema previdenziale può garantire questo, se non al costo di un pesante contributo statale; ma questo significa sottrarre
risorse all’assistenza per chi ne ha veramente bisogno, ai servizi pubblici e agli investimenti. È questo il motivo per cui dobbiamo urgentemente smettere di affrontare le crisi occupazionali aziendali in questo modo.
Per chi è stato coinvolto negli anni passati in accordi di questo genere è giusto che lo Stato stanzi le risorse indispensabili perché nessuno resti privo del necessario sostegno del reddito. Ma questo va fatto non tornando indietro, ripristinando le vecchie regole. La compensazione deve consistere in un sistema di incentivi economici e normativi che rafforzi incisivamente la possibilità per queste persone di trovare una nuova occupazione appropriata, e in un trattamento di disoccupazione di entità congrua, per chi nonostante quegli incentivi non riesca a reinserirsi nel
tessuto produttivo. Per favorire l’invecchiamento attivo, poi, occorre facilitare per il sessantenne al lavoro il passaggio al tempo parziale, la possibilità negli ultimi anni di lavoro di combinare il part-time in azienda con un anticipo parziale della pensione senza aggravi per l’Erario,
la possibilità di concordare con il datore di lavoro periodi sabbatici senza perdita di contribuzione e senza aggravi per l’impresa.
Tutto questo è quanto si propone il disegno di legge a cui sto lavorando con altri senatori democratici, per completare rafforzandola, e non per smontare, la riforma avviata nel dicembre scorso dal Governo.
Disegno di legge
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