Articolo di Lucrezia Reichlin pubblicato sul Corriere della Sera il 24 luglio 2012
In questi giorni di manifestazioni di piazza, impennate dei tassi di interesse e dichiarazioni discordanti dei politici europei ci si chiede se si sia ormai arrivati ad un punto di non ritorno per la moneta unica. È ancora possibile percorrere una strada che concili le legittime preoccupazioni del Nord ad imboccare la via di trasferimenti al Sud a fondo perduto e quelle, altrettanto legittime del Sud, a chiedere di non morire di eccessiva austerità?
La crisi è in gran parte il risultato di un fallimento collettivo, cioè il frutto di un disegno imperfetto la cui concezione è responsabilità sia del Nord sia del Sud. La sua natura sistemica non assolve nessuno dalle sue responsabilità individuali, ma indica la necessità di un piano di azione comune che risponda alle preoccupazioni diverse degli Stati membri.
Paesi come Spagna e Italia, pur colpevoli per avere reso possibile l’accumulazione del debito privato la prima e di quello pubblico la seconda, sono ora puniti in misura eccessiva rispetto alle loro responsabilità nazionali. Il costo che questo comporta per i nostri cittadini, come quello prima di noi di Grecia, Irlanda e Portogallo, è ormai insopportabile e inconciliabile con il sistema di valori delle democrazie europee. Il funzionamento della moneta unica si è inceppato e ci sta travolgendo in una spirale negativa da cui non si vede uscita.
Si è arrivati a una paralisi politica in cui gli interessi e quindi gli incentivi dei diversi Paesi divergono e rendono la possibilità di una soluzione molto difficile. Non solo i governi, ma anche le élite europee, come osservato nelle colonne di questo giornale, sono divise tra chi accentua la necessità del rigore e chi invoca una socializzazione al livello europeo dei costi della crisi. Né l’una né l’altra soluzione sono ormai realistiche. La prima perché l’eccessiva austerità ci porta verso il baratro, la seconda perché non solo non è politicamente accettabile per i Paesi del Nord ma è anche incompatibile con il mantenimento degli incentivi all’adozione di politiche riformatrici nei Paesi a rischio. In un documento firmato da economisti europei di convinzioni e provenienza geografica diverse, che è stato reso pubblico ieri (consultabile su www.INETeconomics.org), abbiamo definito una piattaforma che va in questa direzione. L’idea centrale della nostra proposta sta nel riconoscere che ci sono due problemi distinti: trovare una soluzione al lascito del passato, cioè alla crisi a nostro avviso in buona parte dovuta ai difetti della architettura originaria della moneta unica, e definire una nuova architettura che contenga i requisiti minimi necessari per la sopravvivenza dell’euro nel lungo periodo. Nonostante molti di noi pensino che una maggiore integrazione fiscale e politica sia auspicabile nel futuro e che si debba lavorare a costruirla, una nuova architettura dell’euro non necessita né di eurobond, né di una piena unione fiscale. In particolare non crediamo sia necessario costruire la cosiddetta transfer union così temuta dai tedeschi, cioè un meccanismo permanente di condivisione del debito. La nuova architettura, tuttavia, dovrebbe avere tre caratteristiche. Primo, prevedere quel grado minimo di condivisione del rischio necessario al funzionamento di una unione bancaria, complemento indispensabile alla unione monetaria, pilastro mancante del disegno originario. Secondo, concepire un meccanismo per far fronte a crisi di liquidità dando più poteri di intervento alla Bce o direttamente o attraverso il fondo salva Stati. Terzo, concepire un regime per la ristrutturazione del debito quando un Paese non sia eligibile al finanziamento di quel fondo. Questo regime è necessario ad evitare caotici fallimenti di Stati sovrani o quei trasferimenti che hanno reso ostile all’euro l’opinione pubblica del Nord.
Ma anche se ci fosse la volontà politica necessaria questa proposta non è percorribile se non si fanno i conti con il lascito del passato, cioè con la urgenza della crisi attuale. Per questo abbiamo bisogno di innescare un processo di aggiustamento che permetta di abbattere lo stock del debito nei Paesi a rischio e ristabilire la loro competitività erosa negli anni precedenti alla crisi. Ma affinché questo avvenga, l’Europa deve sostenere con più forza i Paesi che stanno perseguendo l’aggiustamento fiscale sia con una forma temporanea e limitata di mutualizzazione del debito sia dando poteri straordinari alla Bce per limitare il contagio. Le proposte tecniche, anche di origine tedesca, non mancano. Ma tralasciando i dettagli, bisogna mettere al centro del negoziato politico l’idea che fare i conti con l’emergenza richiede soluzioni diverse da quelle necessarie a riformare il sistema dell’euro nel lungo periodo. Il nostro documento ricorda che anche il gold standard prevedeva clausole di emergenza, cioè la sospensione temporanea delle regole normali per poter fare fronte alle crisi. E non c’è dubbio che in questi mesi, in questi giorni, stiamo vivendo una crisi profonda che oltre a portarci verso un impoverimento economico erode le nostre democrazie. Data la dimensione dell’aggiustamento necessario non è pensabile che le economie del Sud possano compierlo solo attraverso la compressione dei salari reali; questo ci porterebbe verso una prolungata deflazione e stagnazione che minerebbe le nostre economie negli anni a venire. Costruiamo quindi un piano di emergenza per l’Europa e allo stesso tempo definiamo la nuova architettura di lungo periodo e le tappe da percorrere nei prossimi anni. Riaggreghiamo il consenso ripartendo dalla motivazione fondamentale del progetto dell’euro che deve essere lo strumento per un maggiore benessere per tutti i cittadini e non quello per arricchire pochi creando una instabilità finanziaria che danneggia tutti.
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