Oggi e domani l’assemblea del PD affronterà tra l'altro il tema del lavoro nella speranza che possa scaturire una posizione unitaria su tale problematica che comprenda i lavoratori dipendenti tradizionalmente considerati ed i lavoratori precari che dipendono economicamente dalle aziende e che fino a questo momento non trovano adeguate tutele.
Il decalogo di Piero Fassina non tiene conto del dualismo tra protetti e precari e non considera i quattro progetti di legge presentati da Ichino, Nerozzi, Madia e Bobba che affrontano in maniera diversa tale problematica.
Ritengo che il lavoro non possa più essere definito in modo tradizionale perché molte figure si sono affermate nel tempo ed occorre adesso offrire loro una forma di tutela sociale diversa dal passato. I vecchi istituti non sono in grado di regolamentare la nuova situazione che si è creata e, quindi, occorre intervenire e ridefinire il lavoro dipendente al fine di superare il dualismo del lavoro ed offrire la possibilità ai "giovani di oggi" di costruire il loro futuro.
Si riporta l’articolo di Pietro Ichino pubblicato su Europa del 20 maggio 2010.
Il “decalogo” che Stefano Fassina proporrà domani all’Assemblea del Pd parla di un “diritto del lavoro unico”; ma quello che egli propone è un diritto del lavoro che per la sua parte più rilevante continua ad applicarsi soltanto al lavoro subordinato tradizionalmente inteso, lasciando fuori milioni di persone in prevalenza giovani in posizione di sostanziale “dipendenza economica” dall’impresa per cui lavorano.
Il “decalogo” che Stefano Fassina proporrà domani all’Assemblea del Pd parla di un “diritto del lavoro unico”; ma quello che egli propone è un diritto del lavoro che per la sua parte più rilevante continua ad applicarsi soltanto al lavoro subordinato tradizionalmente inteso, lasciando fuori milioni di persone in prevalenza giovani in posizione di sostanziale “dipendenza economica” dall’impresa per cui lavorano.
Il dibattito in seno ai gruppi Pd di Senato e Camera sul modo migliore per superare questo dualismo del nostro mercato del lavoro, nei primi due anni di quest’ultima legislatura, ha portato alla presentazione di quattro progetti di legge (Ichino e Nerozzi al Senato, Madia e Bobba alla Camera) centrati su di una scelta fondamentale che li accomuna: quella di delineare un nuovo diritto del lavoro destinato ad applicarsi, per i rapporti che si costituiranno d’ora in poi, non più soltanto nell’area del lavoro subordinato, ma in tutta l’area del lavoro “economicamente dipendente”. Una nozione, quest’ultima, assai più ampia rispetto a quella di lavoro subordinato, perché ricomprende anche (e in modo molto semplice e immediato) gran parte delle collaborazioni continuative, dei “lavori a progetto”, dei lavori “a partita Iva” in condizioni di monocommittenza, dei rapporti di “lavoro in partecipazione” e di altri tipi legali oggi largamente utilizzati per eludere il diritto del lavoro.
Ciascuno dei quattro progetti di legge, dunque, delinea davvero un “diritto del lavoro unico”, destinato a una applicazione universale. Questo è il rilevantissimo punto di arrivo del dibattito interno al Pd, rispetto al quale mi sembra che il “decalogo” di Stefano Fassina segni un passo indietro. Se ben capisco, secondo questo progetto le sole nuove norme che dovrebbero applicarsi nell’area più ampia del lavoro “economicamente dipendente” sono quelle entrambe importanti, certo relative al salario minimo e alla parificazione della contribuzione previdenziale; ma rimarrebbe non applicabile tutto il resto del diritto del lavoro (orari, malattia, permessi, ecc.) e in particolare la disciplina della continuità del rapporto e del licenziamento.
La spiegazione di questo passo indietro non è difficile. Individuare un campo di applicazione del diritto del lavoro molto più ampio di quello attuale, cioè quello che comprende tutto il lavoro “economicamente dipendente”, impone di chiedersi, per ciascuna parte del diritto del lavoro stesso, se essa sia realisticamente applicabile in tutta questa area. E se non la si ritiene applicabile a un co.co.co. o a un lavoratore a progetto, occorre spiegare perché la si ritiene invece applicabile a un lavoratore (riconosciuto come) subordinato. È un vaglio non facile; ma di qui si deve passare se si vuole davvero superare il regime attuale di apartheid.
Per superarlo, a differenza di quel che pensa Fassina, non mi sembra affatto sufficiente pareggiare i livelli retributivi e contributivi minimi: così facendo si lasciano sopravvivere enormi differenze di disciplina in materia di orari di lavoro, malattia del lavoratore, altre cause soggettive od oggettive di sospensione della prestazione, e soprattutto in materia di licenziamento. Finché queste enormi differenze rimarranno, rimarrà anche un rilevantissimo incentivo per le imprese a mantenere i nuovi assunti fuori dall’area di applicazione piena del diritto del lavoro: un incentivo assai più potente di quanto non sia la differenza dell’aliquota di contribuzione previdenziale (differenza che ormai si è ridotta al 5 per cento della retribuzione lorda).
Il Pd, se si propone davvero di superare l’apartheid, non può esimersi dall’affrontare le due questioni che la vecchia sinistra finora ha rifiutato di affrontare (e che anche il “decalogo” di Fassina elude): 1. quale possa essere il criterio universale di distinzione tra lavoro economicamente dipendente e lavoro libero-professionale e 2. quale possa essere davvero un “diritto del lavoro unico” realisticamente applicabile in ogni sua parte all’intera l’area del lavoro economicamente dipendente, sia esso qualificabile o no come “subordinato” secondo i criteri tradizionali.
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