Articolo di Irene Tinagli pubblicato su la Stampa del 27 maggio 2010
La macelleria sociale è già in atto, a prescindere dalla manovra. E riguarda una fascia di popolazione a cui questo Paese si ostina a non guardare: i giovani.
I dati appena resi noti dall’ISTAT lasciano poco spazio all’ottimismo. Il tasso di occupazione complessivo è calato dell’1,2% nell’ultimo anno, mentre quello dei giovani tra i 15 e i 29 anni dell’8,2%, scendendo al 44%. Ma il dato più preoccupante va oltre la mera disoccupazione e riguarda i cosiddetti neet, ovvero i giovani che non sono né occupati in un lavoro né inseriti in percorsi di studio o formazione (neither in employment, nor in education or training). In Italia sono il 21,2% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, in larga parte diplomati e laureati: proprio quelli sui quali dovrebbe poter contare un Paese per rilanciare la propria economia. Si tratta in totale di oltre due milioni di giovani che, semplicemente, non fanno niente. Aspettano. Aspettano forse tempi migliori, mentre intanto le cose che hanno imparato a scuola vengono dimenticate o diventano obsolete, e assieme ai saperi svaniscono fiducia, entusiasmo, voglia di guardare avanti. Questo è un dato drammatico, che avrà conseguenze pesantissime sul futuro di questi giovani e del nostro Paese. Stare lontani sia dal lavoro che dalla formazione aumenta le probabilità di essere disoccupati in futuro o di avere lavori stabili che consentono di crescere professionalmente. Diminuiscono le competenze e il bagaglio di esperienze, in altre parole: diminuisce il livello di capitale umano sia dell’individuo che del sistema socio-economico in cui questa persona vive e lavora. E’ anche alla luce di questi dati che una recente pubblicazione dell’OCSE ha previsto che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia non diminuirà con il rallentare della crisi, ma continuerà piano piano a crescere.
Questo fenomeno non può essere imputato solo al crollo della produzione industriale. La crescita della disoccupazione complessiva in Italia è stata più bassa che in tutti gli altri Paesi, quindi il fatto che invece proprio in Italia i giovani siano così emarginati dal mondo del lavoro non può essere legato solo alla crisi. Un altro indicatore che ci mostra che il nostro problema va oltre la crisi economica emerge dal confronto con la Spagna. Infatti, persino in quel Paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile è quasi il doppio del nostro, la percentuale di giovani neet che proprio non fanno niente è minore che da noi, segno che i giovani senza lavoro sono comunque inseriti in programmi di formazione, studio o apprendistato, un elemento che contribuisce a tenerli attivi e competitivi per il futuro.
Queste considerazioni ci fanno capire che il vero buco nero del nostro Paese non è solo e tanto la struttura economico-produttiva, ma il sistema della formazione e la transizione dal mondo dello studio a quello del lavoro. E’ questo il principale meccanismo di lotta all’inattività giovanile, come ci dicono ormai tutti i principali studi in materia. Basta guardare ai Paesi che fino ad oggi sono riusciti ad ottenere i migliori risultati su questo fronte: Olanda, Danimarca, e Germania per esempio, hanno tutti dei sistemi molto strutturati di formazione professionale, alternanza scuola-lavoro, e ammortizzatori sociali legati allo sviluppo di competenze e permanenza nel circuito della formazione.
Invece nel nostro Paese è proprio sul fronte della formazione e della transizione scuola-lavoro che manca un’offerta vera e di qualità. Abbiamo milioni di giovani abbandonati a loro stessi, che in molti casi non finiscono neppure gli studi superiori (non a caso abbiamo uno dei più bassi tassi di diplomati d’Europa), in altri restano emarginati dal mercato del lavoro o da una formazione che potrebbe aiutarli a restare comunque competitivi nel lungo periodo.
Una lacuna che non è stata colmata da nessun intervento o politica del governo. Di fronte ad una carenza di formazione e al dramma dei ragazzi che non finiscono le scuole, tutto quello che si è stati capaci di fare è stato abbassare l’obbligo scolastico, e schiacciare le ambizioni dei ragazzi incitandoli ad «accettare qualsiasi tipo di lavoro», rivalutando i lavori umili e manuali. Mentre la grande riforma del mercato del lavoro che il ministro annunciava già un anno fa si è limitata alla fine alla lotta sull’arbitrato. Un po’ pochino per risolvere un problema di questa portata.
Di fronte a un’emergenza del genere i ministri del Lavoro e dell’Istruzione e dello Sviluppo Economico dovrebbero lavorare insieme a ritmi serratissimi per pensare a misure strutturali che consentano al Paese di non perdere per strada queste nuove generazioni. Invece il ministero dell’Istruzione pare più in sintonia con quello del Turismo, il ministero dello Sviluppo Economico, dopo aver distribuito un po’ d’incentivi per l’acquisto di cucine e lavatrici, è adesso in cerca di identità dopo le dimissioni di Scajola, mentre quello del Lavoro pare ancora troppo impegnato nell’abolizione o riscrizione dell’articolo 18.
I milioni di giovani senza lavoro e senza formazione adeguata sono il vero dramma di questo Paese. Cercare di mortificare le loro ambizioni non è la soluzione. Ma d’altronde è difficile parlare di futuro e ambizioni in un Paese la cui unica ambizione, oggi, è «non fare come la Grecia».
Questo fenomeno non può essere imputato solo al crollo della produzione industriale. La crescita della disoccupazione complessiva in Italia è stata più bassa che in tutti gli altri Paesi, quindi il fatto che invece proprio in Italia i giovani siano così emarginati dal mondo del lavoro non può essere legato solo alla crisi. Un altro indicatore che ci mostra che il nostro problema va oltre la crisi economica emerge dal confronto con la Spagna. Infatti, persino in quel Paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile è quasi il doppio del nostro, la percentuale di giovani neet che proprio non fanno niente è minore che da noi, segno che i giovani senza lavoro sono comunque inseriti in programmi di formazione, studio o apprendistato, un elemento che contribuisce a tenerli attivi e competitivi per il futuro.
Queste considerazioni ci fanno capire che il vero buco nero del nostro Paese non è solo e tanto la struttura economico-produttiva, ma il sistema della formazione e la transizione dal mondo dello studio a quello del lavoro. E’ questo il principale meccanismo di lotta all’inattività giovanile, come ci dicono ormai tutti i principali studi in materia. Basta guardare ai Paesi che fino ad oggi sono riusciti ad ottenere i migliori risultati su questo fronte: Olanda, Danimarca, e Germania per esempio, hanno tutti dei sistemi molto strutturati di formazione professionale, alternanza scuola-lavoro, e ammortizzatori sociali legati allo sviluppo di competenze e permanenza nel circuito della formazione.
Invece nel nostro Paese è proprio sul fronte della formazione e della transizione scuola-lavoro che manca un’offerta vera e di qualità. Abbiamo milioni di giovani abbandonati a loro stessi, che in molti casi non finiscono neppure gli studi superiori (non a caso abbiamo uno dei più bassi tassi di diplomati d’Europa), in altri restano emarginati dal mercato del lavoro o da una formazione che potrebbe aiutarli a restare comunque competitivi nel lungo periodo.
Una lacuna che non è stata colmata da nessun intervento o politica del governo. Di fronte ad una carenza di formazione e al dramma dei ragazzi che non finiscono le scuole, tutto quello che si è stati capaci di fare è stato abbassare l’obbligo scolastico, e schiacciare le ambizioni dei ragazzi incitandoli ad «accettare qualsiasi tipo di lavoro», rivalutando i lavori umili e manuali. Mentre la grande riforma del mercato del lavoro che il ministro annunciava già un anno fa si è limitata alla fine alla lotta sull’arbitrato. Un po’ pochino per risolvere un problema di questa portata.
Di fronte a un’emergenza del genere i ministri del Lavoro e dell’Istruzione e dello Sviluppo Economico dovrebbero lavorare insieme a ritmi serratissimi per pensare a misure strutturali che consentano al Paese di non perdere per strada queste nuove generazioni. Invece il ministero dell’Istruzione pare più in sintonia con quello del Turismo, il ministero dello Sviluppo Economico, dopo aver distribuito un po’ d’incentivi per l’acquisto di cucine e lavatrici, è adesso in cerca di identità dopo le dimissioni di Scajola, mentre quello del Lavoro pare ancora troppo impegnato nell’abolizione o riscrizione dell’articolo 18.
I milioni di giovani senza lavoro e senza formazione adeguata sono il vero dramma di questo Paese. Cercare di mortificare le loro ambizioni non è la soluzione. Ma d’altronde è difficile parlare di futuro e ambizioni in un Paese la cui unica ambizione, oggi, è «non fare come la Grecia».
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