Il «jobs act», che Matteo Renzi sta sviluppando e del quale ha pubblicato le prime idee, è una piattaforma di discussione che lo stesso leader del Pd auspica possa molto evolvere nei prossimi mesi. I commenti di questi giorni ne hanno sottovalutato sia due importanti contributi sia alcune significative carenze.
Il primo importante contributo è il coraggio con cui per la prima volta un segretario del Pd ha imbracciato senza se e senza ma un’idea radicale, la protezione del lavoratore e non del posto di lavoro. Quelli che criticano la proposta di Renzi sottolineando che non c’è nulla di nuovo in questa idea sottovalutano l’importanza che essa diventi la base del programma di lavoro del maggior partito della sinistra. È sicuramente vero che il cosiddetto «modello danese» esiste da decenni e che esperti come Pietro Ichino hanno già fatto proposte simili, ma la sinistra italiana le ha sempre rifiutate, come si è visto nel caso dello stesso Ichino che fu «scomunicato» dal Partito democratico. Invece in questi giorni personaggi come Landini e la Camusso hanno applaudito il «jobs act».
È anche vero che il percorso per realizzare questa idea è tutto da studiare: come finanziare il sussidio universale di qualcuno che perde il posto di lavoro con un ridisegno degli ammortizzatori sociali (inclusa la ormai obsoleta cassa integrazione) e con i risparmi graduali della spesa pubblica? Ed è anche vero che la attuazione sarà immensamente difficile perché la macchina pubblica italiana non è quella danese: lì le agenzie del lavoro funzionano e la seconda offerta «che non si può rifiutare» di solito arriva presto; da noi le agenzie del lavoro, pur avendo un numero di dipendenti come quelle tedesche, creano meno di un quinto delle opportunità che in Germania.
Il secondo valido contributo è la scelta di alcuni settori, soprattutto nei servizi, come aree dove focalizzare gli sforzi per fare crescere l’economia e creare lavoro. Nel turismo per esempio, dove si spera che il «jobs act» possa portare al centro del dibattito proposte come quella contenuta nel mio saggio Regole per una nuova regolazione sulle concessioni, orientata non più al turismo da «secchiello e paletta» delle piccole pensioni familiari ma a fare emergere qualche grande investitore italiano e straniero. Un altro esempio viene dall’Ict (Information and telecommunication technology), dove il «jobs act» delinea un ruolo dello Stato come regolatore intelligente capace di imporre alle aziende di fatturare elettronicamente per combattere la evasione fiscale e stimolare nel contempo la nascita di nuove
imprese innovative. Nel «jobs act» esistono però anche alcune ombre.
Ridurre del 10 per cento l’Irap è sicuramente un’idea che va nella giusta direzione, ma farlo con la tassazione delle rendite finanziarie è tutt’altro che facile. La tassazione sulla casa esiste quasi ovunque perché la casa si vede e non si muove, cosa che non è per le ricchezze finanziarie che sono difficili da tracciare e la cui tassazione rischia di produrre gettiti ridotti ed elevata evasione.
Si rivelerà probabilmente una pia illusione anche l’idea di aumentare la competitività delle piccole e medie imprese riducendone del 10 per cento il costo per l’energia. Intanto perché un quarto di questa riduzione si vorrebbe ottenerla eliminando quei contratti di favore per l’energia detti «interrompibili» perché le aziende possono interrompere la fornitura ottenendo uno sconto. È giusto eliminare questi sussidi utilizzati soprattutto da aziende in settori del passato e poco verdi come l’alluminio, l’acciao e la carta. Ma non sarà facile perché a breve alcuni impianti chiuderanno e la disoccupazione aumenterà. E poi non è chiaro dove il «jobs act» intenda reperire il resto dei tagli, dato che si limita ad indicare genericamente «ulteriori misure da parte della Autorità per l’energia».
Anche nella «green economy» (uno degli otto settori del «jobs act») lo Stato potrebbe giocare un ruolo di regolatore innovativo: il problema è che il Pd ha sempre sostenuto delle politiche di regolazione poco efficaci (per esempio gli incentivi delle rinnovabili). E ha appoggiato amministrazioni locali, soprattutto nel Centro Sud, responsabili di cattiva gestione dei rifiuti. È quindi un errore citare questo settore tra quelli da sviluppare senza accennare all’esigenza di una revisione profonda delle logiche seguite sinora, per esempio con una radicale nazionalizzazione delle politiche di regolazione che deve essere sottratta alle Regioni e ai Comuni.
Infine stona la presenza del «made in Italy» tra gli otto settori da sviluppare: qui lo Stato può fare ben poco come regolatore e committente perché questo settore è ormai esposto alla concorrenza globale. Le sfide del «made in Italy» hanno a che fare con l’incapacità del capitalismo familiare di valorizzare il capitale umano e la meritocrazia e su questo lo Stato e il «jobs act» possono fare ben poco. Avendo riconosciuto al «jobs act» il pregio di affrontare il problema della disoccupazione giovanile in un’ottica di crescita dell’economia, ci auguriamo che facciano seguito al più presto un «justice act» e un «education act». Con una giustizia civile con i tempi del Gabon, le imprese italiane non cresceranno e non creeranno posti di lavoro. E, senza una scuola italiana che si adeguerà al lavoro che cambia, le imprese continueranno a non trovare nei giovani le competenze per il 21° secolo, che non sono le professionalità tecniche, ma le capacità cognitive, l’etica del lavoro, la capacità di lavorare con gli altri e comunicare. Cose che oggi la scuola italiana insegna poco e male.
Ridurre del 10 per cento l’Irap è sicuramente un’idea che va nella giusta direzione, ma farlo con la tassazione delle rendite finanziarie è tutt’altro che facile. La tassazione sulla casa esiste quasi ovunque perché la casa si vede e non si muove, cosa che non è per le ricchezze finanziarie che sono difficili da tracciare e la cui tassazione rischia di produrre gettiti ridotti ed elevata evasione.
Si rivelerà probabilmente una pia illusione anche l’idea di aumentare la competitività delle piccole e medie imprese riducendone del 10 per cento il costo per l’energia. Intanto perché un quarto di questa riduzione si vorrebbe ottenerla eliminando quei contratti di favore per l’energia detti «interrompibili» perché le aziende possono interrompere la fornitura ottenendo uno sconto. È giusto eliminare questi sussidi utilizzati soprattutto da aziende in settori del passato e poco verdi come l’alluminio, l’acciao e la carta. Ma non sarà facile perché a breve alcuni impianti chiuderanno e la disoccupazione aumenterà. E poi non è chiaro dove il «jobs act» intenda reperire il resto dei tagli, dato che si limita ad indicare genericamente «ulteriori misure da parte della Autorità per l’energia».
Anche nella «green economy» (uno degli otto settori del «jobs act») lo Stato potrebbe giocare un ruolo di regolatore innovativo: il problema è che il Pd ha sempre sostenuto delle politiche di regolazione poco efficaci (per esempio gli incentivi delle rinnovabili). E ha appoggiato amministrazioni locali, soprattutto nel Centro Sud, responsabili di cattiva gestione dei rifiuti. È quindi un errore citare questo settore tra quelli da sviluppare senza accennare all’esigenza di una revisione profonda delle logiche seguite sinora, per esempio con una radicale nazionalizzazione delle politiche di regolazione che deve essere sottratta alle Regioni e ai Comuni.
Infine stona la presenza del «made in Italy» tra gli otto settori da sviluppare: qui lo Stato può fare ben poco come regolatore e committente perché questo settore è ormai esposto alla concorrenza globale. Le sfide del «made in Italy» hanno a che fare con l’incapacità del capitalismo familiare di valorizzare il capitale umano e la meritocrazia e su questo lo Stato e il «jobs act» possono fare ben poco. Avendo riconosciuto al «jobs act» il pregio di affrontare il problema della disoccupazione giovanile in un’ottica di crescita dell’economia, ci auguriamo che facciano seguito al più presto un «justice act» e un «education act». Con una giustizia civile con i tempi del Gabon, le imprese italiane non cresceranno e non creeranno posti di lavoro. E, senza una scuola italiana che si adeguerà al lavoro che cambia, le imprese continueranno a non trovare nei giovani le competenze per il 21° secolo, che non sono le professionalità tecniche, ma le capacità cognitive, l’etica del lavoro, la capacità di lavorare con gli altri e comunicare. Cose che oggi la scuola italiana insegna poco e male.
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