Articolo di Roger Abravanel pubblicato sul Corriere della Sera il 10 novembre 2012
Nel mondo inizia il sesto anno di crisi economica e si accende il dibattito sulla disuguaglianza. In realtà è da 20 anni che la disuguaglianza cresce, ma la crisi ha innescato la protesta sociale: un conto è arricchirsi meno degli altri quando l'economia va bene, un altro è diventare più poveri mentre i ricchi accrescono il loro benessere. Oggi il grande dilemma della maggioranza dei leader politici nel mondo è come ridurre la disuguaglianza senza penalizzare la crescita.
In Italia, invece, quasi nessuno si lamenta ancora del nostro elevatissimo livello di disuguaglianza, anch'esso di lunga data. Da sempre l'indice Gini in Italia (misura il divario tra i più ricchi e i più poveri) è tra i maggiori d'Europa: è al livello della iperliberista Inghilterra e vicino a quello degli Usa, molto più alto di quello di altri Paesi europei, come la Germania o i Paesi scandinavi.
Anche la mobilità sociale, ovvero la possibilità per i figli di genitori poveri di raggiungere un reddito alto, in Italia è bassa. Siamo a livello degli Usa, ma con caratteristiche diverse: in America il gruppo dei super-ricchi (il top 1% dei redditi) è sempre più costituito da manager e professionisti, e sempre meno da imprenditori. Il reddito in queste carriere dipende dalle scuole che si frequentano, i professionisti più ricchi spesso si sposano tra di loro e possono mandare a loro volta i figli nelle scuole più care. Questa è la causa principale della riduzione della mobilità sociale in Usa negli ultimi vent'anni.
La mobilità sociale italiana è bassa da sempre, ma per un'altra ragione: perché i figli dei ricchi ereditano l'azienda e le proprietà del padre. Nel nostro Paese non solo i poveri sono sempre stati molto più poveri, ma non hanno mai avuto molte possibilità di diventare ricchi, come invece avviene negli Usa grazie alle borse di studio per le migliori Università.
Peraltro il nostro welfare non è certo costato poco: oggi, in rapporto al Pil, è a livelli scandinavi, ovvero delle società che hanno la più bassa disuguaglianza e la maggiore mobilità sociale. Questi Paesi hanno trasformato negli anni il loro stato assistenziale in un welfare in grado di creare opportunità per ogni cittadino senza falsare le regole di mercato per sostenere la crescita dell'economia. Per esempio il sussidio di disoccupazione termina se il lavoratore non si attiva seriamente per rioccuparsi, mentre lo Stato lo aiuta a imparare un altro mestiere e a trovare un lavoro diverso. La disuguaglianza sociale in Italia è quindi un problema enorme. Tuttavia se ne parla poco: sorprende soprattutto il disinteresse delle sinistre. Prendiamo uno degli slogan lanciati proprio dalla sinistra in questi mesi di crisi: «tassare i ricchi». Aumentare le tasse per pagare il welfare dei poveri? No, farle salire per far «pagare il costo della crisi ai ricchi». Di dare soldi ai poveri, se ne parla poco. Del resto il nostro welfare non protegge i più poveri, i giovani e le donne: difende piuttosto i capofamiglia maschi, ai quali garantisce il posto di lavoro e una pensione prima di tutti gli altri Paesi.
Quando la sinistra parla di «politiche per la crisi», parla sempre e solo di «difesa»: difesa del posto di lavoro, difesa delle pensioni, difesa dei diritti. Non di creazione di opportunità, se non in termini generici e vaghi. Questo linguaggio è figlio di un'impostazione conservatrice e anti-capitalista, che pone la sinistra italiana (e buona parte del Paese) su un pianeta ideologico arretrato rispetto alle altre nazioni occidentali. Nel «pianeta Italia» la disuguaglianza viene oggi affrontata basandosi su principi quasi feudali. Non è l'impresa che crea benessere, ma il lavoro (art. 1 della Costituzione). Il lavoro esiste indipendentemente dal capitale, dall'impresa, dal consumo. Interessa poco il fatto che senza imprese e consumatori che comprano i loro prodotti non ci sono lavoratori. Il lavoro, inteso come posto di lavoro, è un diritto inalienabile dell'uomo, come la vita. Corollario: tutti i posti di lavoro vanno difesi. Dunque se sei fortunato e vai in pensione quando sei ancora molto giovane, è un tuo diritto. Lavori in miniera nel Sulcis? Un altro diritto che va difeso, anche se difenderlo costa dieci volte il tuo stipendio. Inoltre, come la vita, il lavoro di chi oggi ha un impiego è un bene molto più importante dell'occupazione potenziale di chi un lavoro non ce l'ha. In un ospedale, i vivi hanno la precedenza sui morti. È lo stesso atteggiamento del sindacato, di fronte a occupati e disoccupati. È così che si crea l'«apartheid» di cui parla Pietro Ichino tra i dodici milioni di intoccabili (assunti a tempo indeterminato) e i nove milioni di «precari» e dipendenti delle piccole imprese.
La sinistra italiana non ha capito che è il mercato a creare il lavoro e che il compito dello Stato non è dichiarare che lo status quo è un diritto e congelarlo, ma diminuire la disuguaglianza di opportunità favorendo meritocrazia, concorrenza, scuola di qualità. Se il centrodestra è sempre stato il protettore dei grandi privilegi, la sinistra si è trasformata in protettrice di quelli piccoli. La soluzione per ridurre la disuguaglianza da noi è quella che serve anche a fare ripartire la crescita: rule of law (ovvero quel rispetto delle regole senza il quale non nascono regole giuste necessarie al libero mercato); e una «vera» meritocrazia, intesa come ricerca della competizione, non come semplice riduzione delle raccomandazioni.
La sinistra si pone come alternativa a una destra incapace di fare nascere questi valori negli ultimi 25-30 anni. Ma riuscirà a superare quei tabù che l'hanno resa un alleato della destra per creare il Paese più disuguale del mondo occidentale?
Peraltro il nostro welfare non è certo costato poco: oggi, in rapporto al Pil, è a livelli scandinavi, ovvero delle società che hanno la più bassa disuguaglianza e la maggiore mobilità sociale. Questi Paesi hanno trasformato negli anni il loro stato assistenziale in un welfare in grado di creare opportunità per ogni cittadino senza falsare le regole di mercato per sostenere la crescita dell'economia. Per esempio il sussidio di disoccupazione termina se il lavoratore non si attiva seriamente per rioccuparsi, mentre lo Stato lo aiuta a imparare un altro mestiere e a trovare un lavoro diverso. La disuguaglianza sociale in Italia è quindi un problema enorme. Tuttavia se ne parla poco: sorprende soprattutto il disinteresse delle sinistre. Prendiamo uno degli slogan lanciati proprio dalla sinistra in questi mesi di crisi: «tassare i ricchi». Aumentare le tasse per pagare il welfare dei poveri? No, farle salire per far «pagare il costo della crisi ai ricchi». Di dare soldi ai poveri, se ne parla poco. Del resto il nostro welfare non protegge i più poveri, i giovani e le donne: difende piuttosto i capofamiglia maschi, ai quali garantisce il posto di lavoro e una pensione prima di tutti gli altri Paesi.
Quando la sinistra parla di «politiche per la crisi», parla sempre e solo di «difesa»: difesa del posto di lavoro, difesa delle pensioni, difesa dei diritti. Non di creazione di opportunità, se non in termini generici e vaghi. Questo linguaggio è figlio di un'impostazione conservatrice e anti-capitalista, che pone la sinistra italiana (e buona parte del Paese) su un pianeta ideologico arretrato rispetto alle altre nazioni occidentali. Nel «pianeta Italia» la disuguaglianza viene oggi affrontata basandosi su principi quasi feudali. Non è l'impresa che crea benessere, ma il lavoro (art. 1 della Costituzione). Il lavoro esiste indipendentemente dal capitale, dall'impresa, dal consumo. Interessa poco il fatto che senza imprese e consumatori che comprano i loro prodotti non ci sono lavoratori. Il lavoro, inteso come posto di lavoro, è un diritto inalienabile dell'uomo, come la vita. Corollario: tutti i posti di lavoro vanno difesi. Dunque se sei fortunato e vai in pensione quando sei ancora molto giovane, è un tuo diritto. Lavori in miniera nel Sulcis? Un altro diritto che va difeso, anche se difenderlo costa dieci volte il tuo stipendio. Inoltre, come la vita, il lavoro di chi oggi ha un impiego è un bene molto più importante dell'occupazione potenziale di chi un lavoro non ce l'ha. In un ospedale, i vivi hanno la precedenza sui morti. È lo stesso atteggiamento del sindacato, di fronte a occupati e disoccupati. È così che si crea l'«apartheid» di cui parla Pietro Ichino tra i dodici milioni di intoccabili (assunti a tempo indeterminato) e i nove milioni di «precari» e dipendenti delle piccole imprese.
La sinistra italiana non ha capito che è il mercato a creare il lavoro e che il compito dello Stato non è dichiarare che lo status quo è un diritto e congelarlo, ma diminuire la disuguaglianza di opportunità favorendo meritocrazia, concorrenza, scuola di qualità. Se il centrodestra è sempre stato il protettore dei grandi privilegi, la sinistra si è trasformata in protettrice di quelli piccoli. La soluzione per ridurre la disuguaglianza da noi è quella che serve anche a fare ripartire la crescita: rule of law (ovvero quel rispetto delle regole senza il quale non nascono regole giuste necessarie al libero mercato); e una «vera» meritocrazia, intesa come ricerca della competizione, non come semplice riduzione delle raccomandazioni.
La sinistra si pone come alternativa a una destra incapace di fare nascere questi valori negli ultimi 25-30 anni. Ma riuscirà a superare quei tabù che l'hanno resa un alleato della destra per creare il Paese più disuguale del mondo occidentale?
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