Articolo di Enrico Marro pubblicato sul Corriere della Sera il 28 giugno 2012
Elsa Fornero talvolta potrà apparire una maestrina, come ha detto il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, qualche volta ha pure commesso gaffe, come per esempio sugli esodati, definiti «un costo della riforma delle pensioni», ma ora darle addosso per l'intervista pubblicata ieri dal Wall Street Journal è pretestuoso.
A parte che basta andare sul sito dello stesso quotidiano per verificare, nella trascrizione della conversazione tra il ministro del Lavoro e i giornalisti, che Fornero parla di job e non di work come invece riportato nell'articolo sul giornale di carta. Il senso della frase incriminata cambia. Nella trascrizione Fornero spiega che i giovani «devono comprendere che un posto di lavoro (a job, appunto, ndr) non è qualcosa che si ottiene di diritto, ma qualcosa che si conquista». Nell'articolo si sintetizza: «L'atteggiamento della gente deve cambiare. Il lavoro (work) non è un diritto; deve essere guadagnato».
Parole che, messe così (work isn't a right), hanno scatenato la polemica sul ministro che avrebbe contraddetto l'articolo 1 della Costituzione, «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», e il 4 che afferma «il diritto al lavoro». Ma chiarire l'equivoco generato da work e job non è sufficiente. Vale la pena di cogliere l'occasione per entrare nel merito della discussione. Che così come non può essere strumentale non deve nemmeno essere ipocrita. Nessuno può pensare che il lavoro sia un diritto nel senso che lo Stato dà un posto a tutti. Anche la sinistra riformista, in tutto il mondo, da Blair fino a Obama, ha teorizzato da tempo che la priorità è assicurare a ciascuno stesse opportunità di partenza. Siamo lontanissimi, è vero.
E la stessa Fornero riconosce che la sua riforma «non è perfetta» aggiungendo però che servirà a «chi deve entrare nel mercato del lavoro».
Il diritto al lavoro si garantisce dando al cittadino gli strumenti per trovare un'occupazione corrispondente alle sue aspirazioni e alla sua preparazione, promuovendo «le condizioni che rendano effettivo questo diritto», come dice l'articolo 4. Se qualcuno ancora non ne è convinto, basta che si rilegga quanto scrisse Amintore Fanfani, artefice della formulazione finale dell'articolo 1, sul quotidiano Il Popolo all'indomani dell'approvazione dello stesso articolo nell'Assemblea costituente, il 23 marzo 1947: «L'espressione "fondata sul lavoro" esclude che la Repubblica si fondi sul privilegio, o sulla fatica altrui; affermando invece che essa si fonda sul dovere - che è a un tempo diritto - di ogni uomo di provare col suo sforzo libero la sua capacità "di essere", e di contribuire al bene della comunità nazionale». Insomma, concludeva Fanfani (come riporta Antonio Passaro nel suo libro «Il valore del lavoro»), l'articolo 1 vuole affermare il «dovere di ogni uomo di essere quello che egli può».
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