Articolo di Giuseppe Bedeschi pubblicato sul Corriere della Sera il 25 giugno 2012 LEZIONE DELLA CRISI
Intanto io non sarei così graniticamente sicuro come l'intellettuale francese che al centro del patrimonio ideale della sinistra ci sia un concetto rigoroso, aritmetico, di eguaglianza. Basti pensare a Marx (e non credo che Morelle voglia espellere Marx dal patrimonio culturale della sinistra). Orbene, l'autore del «Capitale» pensava che una società fondata sulla emancipazione del lavoro non potesse basarsi sul «diritto eguale», in quanto quest'ultimo è, piuttosto, un diritto... disuguale. Nel quadro del diritto uguale, infatti, tutti devono avere la stessa quantità di beni e di servizi; ma questa eguaglianza puramente aritmetica non tiene conto del fatto che - diceva Marx - «l'uno è fisicamente o moralmente superiore all'altro», cioè non tiene conto del fatto che gli uomini sono tutti disuguali non solo per capacità fisiche, ma anche per capacità intellettuali e morali. La concezione della nuova società propugnata da Marx non era dunque basata sul diritto eguale, ed era assolutamente antilivellatrice.
Se poi veniamo a tempi a noi più vicini, dobbiamo constatare che il pensiero democratico, maturato nel fuoco delle battaglie socialiste, ha perseguito non tanto l'eguaglianza economica, quanto la sicurezza sociale per tutti. Scriveva per esempio Gaetano Salvemini nel 1937: «La maggior parte degli uomini e delle donne desiderano un minimo di benessere, di tempo libero e di sicurezza. Non si preoccupano neppure dell'eguaglianza economica, se per eguaglianza economica si intende eguaglianza assoluta delle condizioni economiche col termine sicurezza intendiamo un livello di vita minimo, decoroso e con le sue modeste attrattive». (Ricavo questa citazione dal bel libro di Gaetano Pecora, Socialismo come libertà. La storia lunga di Gaetano Salvemini , appena pubblicato da Donzelli). Anche per un autore democratico come Salvemini, dunque, il problema della società moderna non era quello di una «eguaglianza economica assoluta», bensì quello di assicurare a tutti un minimo di sicurezza.
Ma Morelle è davvero sicuro che questa preoccupazione sia assente nei pensatori liberali? È sufficiente che egli legga Raymond Aron (per citare un autore appartenente al suo universo culturale) per vedere che le cose non sono così semplici come lui crede. Morelle dovrebbe soffermarsi a questo proposito sulla critica che Aron rivolse all'idea di libertà teorizzata da Friedrich von Hayek. L'idea hayekiana, diceva Aron, non basta a precisare i criteri che contraddistinguono una società libera. Infatti, oltre alla libertà come non-costrizione, ci sono anche altre libertà, senza le quali quella libertà rischia di rimanere vuota. «Affinché il cittadino sia veramente libero di fare qualcosa, non basta che la legge impedisca agli altri di vietargli la suddetta cosa minacciandoli di incorrere in una sanzione, bisogna anche che egli ne possegga i mezzi materiali». Ovvero, perché io sia libero, devo certo godere, in primo luogo, delle libertà civili e politiche (senza le quali c'è solo il regno dell'ingiustizia e delle tenebre), ma la società deve inoltre assicurarmi alcune libertà fondamentali (di avere i beni essenziali, di istruirmi, eccetera), senza le quali la tanto celebrata «libertà» come non-costrizione diventa una parola vana. Questo diceva il liberale Aron. Alla luce di queste parole, Morelle pensa davvero che il liberalismo sia una merce così poco raccomandabile?
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