Intervista al senatore Pietro Ichino a cura di Gaia Fiertler in corso di pubblicazione su Il Mondo, maggio 2011
Che previsioni ha fatto di maggiore occupazione stabile (non soggetta al precariato selvaggio) se passasse la sua proposta?
Se si riferisce al d.d.l. n. 1873, cioè alla riforma generale a regime, tutte le nuove assunzioni in posizione di dipendenza, da quel momento in poi, dovrebbero necessariamente avvenire in forma di lavoro dipendente regolare: i requisiti del lavoro dipendente, infatti, sarebbero immediatamente rilevabili dai tabulati dell’Inps e da quelli dell’Erario. Non occorrerebbe, dunque, inviare gli ispettori, oppure aspettare che il lavoratore faccia causa all’azienda, per stanare l’elusione o l’evasione.
Quali sono questi requisiti del lavoro dipendente, secondo la sua riforma?
La definizione che propongo è questa: è lavoratore dipendente chi lavora continuativamente per un’azienda, traendo dal rapporto più di due terzi del proprio reddito di lavoro complessivo, quando la retribuzione non superi l’equivalente di 40.000 euro annui. La stessa definizione è stata adottata nel disegno di legge Nerozzi, che recepisce il progetto Boeri-Garibaldi, e in quello presentato da Benedetto Della Vedova ed Enzo Raisi alla Camera il 7 aprile scorso, che è esplicitamente ispirato al mio.
Quali forme di flessibilità eliminerebbe e quali lascerebbe e a che condizioni?
Resterebbero i contratti a termine e il lavoro temporaneo tramite agenzia, nei casi classici nei quali essi sono da sempre consentiti, il contratto di apprendistato, il part-time, il job sharing, e anche le stesse collaborazioni autonome coordinate e continuative. La novità sarebbe che, se il rapporto di collaborazione ha i requisiti della continuità e della monocommittenza di cui abbiamo parlato prima, si applica in tutti i casi la nuova disciplina della stabilità.
Quale sarebbe questa nuova disciplina? Che cosa resterebbe dell’art. 18?
L’articolo 18 continuerebbe ad applicarsi nei casi in cui il giudice accerta la discriminazione. Si applicherebbe anche nel caso del licenziamento disciplinare, tranne che qui sarebbe data al giudice la facoltà discrezionale di condannare l’impresa al solo risarcimento e non alla reintegrazione. Cambierebbe invece radicalmente la disciplina del licenziamento per motivi economici od organizzativi.
Come renderebbe più sicura la risoluzione del rapporto nei casi economici e organizzativi, senza il rischio di reintegra da parte del giudice?
In questo caso l’impresa è esentata dal controllo giudiziale sul licenziamento, ma è automaticamente tenuta a corrispondere al lavoratore un’indennità di licenziamento pari a un mese per ogni anno di anzianità di servizio, che il lavoratore può parzialmente convertire in preavviso lungo. Il lavoratore che abbia maturato due anni di anzianità ha inoltre diritto a un “contratto di ricollocazione”, che gli dà diritto, a carico dell’impresa, a un trattamento complementare di disoccupazione pari per il primo anno al 90 per cento dell’ultima retribuzione, entro il limite di 36.000 euro annui. Nei due anni successivi l’entità si riduce rispettivamente del 10 e del 20 per cento. Questo trattamento costerà all’azienda pochissimo il primo anno, molto di più nei due successivi. Ma già oggi l’80 per cento dei lavoratori che perdono il posto lo ritrovano entro il primo anno. L’alto costo nel secondo e nel terzo anno serve a incentivare l’impresa ad attivare i migliori servizi di outplacement e di riqualificazione professionale mirata, in modo da ridurre al minimo i casi di non rioccupazione entro il primo anno.
E’ comunque tutto un caso aggiuntivo per l’impresa rispetto alla situazione attuale.
Ma è largamente compensato dalla soppressione del controllo giudiziale sul giustificato motivo oggettivo. L’aggiustamento industriale, che oggi è sempre fortemente ritardato, potrà essere immediato e comporterà costi predeterminabili in un minimo e un massimo.
Un dubbio è che resti ancora molta discrezionalità nei giudici del lavoro che tendono a reintegrare.
Nel 95 per cento dei casi di licenziamento per motivi oggettivi dei quali i giudici del lavoro oggi si occupano, la discriminazione non viene neppure ipotizzata dal lavoratore ricorrente, perché effettivamente non è ragionevolmente prospettabile. In tutti questi casi, il giudice non avrebbe alcuna discrezionalità. D’altra parte, la discriminazione è una cosa molto concreta: non la si può inventare.
Ha calcolato i costi dell’indennizzo di licenziamento e del trattamento complementare di disoccupazione?
Sì. Secondo le simulazioni che abbiamo fatto, con un turnover molto alto, pari al 5 per cento annuo, che sia per metà imputabile a licenziamenti, e con un tempo medio di ricollocazione dei licenziati di 6 mesi, il costo per le aziende sarebbe mediamente pari allo 0,5 per cento del monte salari. Si tratterebbe soltanto di utilizzare una frazione di quello che oggi le aziende spendono per tenere a libro paga i lavoratori che non servono più, destinandola ad accompagnarli in modo civile a una nuova occupazione.
Questo costo aggiuntivo non scoraggerebbe gli imprenditori dall’assumere?
Le ripeto: il maggior costo del licenziamento sarebbe largamente compensato dalla cessazione del regime di sostanziale job property fondato sull’articolo 18.
Viene obiettato che non abbiamo un sistema efficiente di formazione, riqualificazione e sostegno al reddito che accompagni le persone durante la ricerca di un nuovo lavoro. In pratica quel modello di flexicurity che ha funzionato in un paese piccolo e molto diverso dal nostro, come la Danimarca, da noi non funzionerebbe (e tra l’altro con la crisi è saltato anche lì).
In Danimarca non è saltato affatto questo modello: ha solo incontrato recentemente qualche difficoltà, che sta essendo superata. Quanto a noi, la riforma avrebbe l’effetto di stimolare fortemente l’impresa interessata ad attivare i migliori servizi di outplacement e di riqualificazione mirata disponibili nel mercato. E’ vero che costano; ma le Regioni potrebbero – anzi, dovrebbero – intervenire con i contributi del Fondo Sociale Europeo a sollevare le imprese di gran parte se non la totalità del costo di questi servizi. Sarebbe, oltretutto, un buon modo per spendere finalmente questi fondi, che oggi per lo più sperperiamo, o non riusciamo neppure a spendere. E poi, la Danimarca è grande esattamente come il Piemonte; la Svezia esattamente come la Lombardia; e ha esattamente lo stesso reddito pro capite. Perché mai queste Regioni non potrebbero fare quello che si fa normalmente da decenni in quei Paesi?
Non si rischia paradossalmente di precarizzare ancora di più? Perché in fondo le sue assunzioni a tempo indeterminato non sarebbero più tali.
Mi scusi, ma questa è proprio una sciocchezza. Se fosse così, questo significherebbe che, tolta l’Italia, in nessun altro Paese d’Europa oggi ci sarebbero rapporti a tempo indeterminato, perché in nessun altro Paese è applicabile una norma simile all’articolo 18. Questo equivarrebbe a dire che al di fuori dell’articolo 18 non ci sarebbe altro che precarietà e bad jobs. Ovviamente non è così. Il problema è che in Italia siamo ormai assuefatti a confondere la sicurezza del lavoratore con il regime di inamovibilità, di job property. In realtà, la sicurezza che viene offerta al lavoratore da un regime di flexsecurity è molto maggiore e migliore rispetto a quella offerta da un regime di ingessatura del rapporto di lavoro: perché quando viene l’acquazzone anche il gesso si scioglie, e il lavoratore si trova con un pugno di mosche in mano.
Quali altre proposte ci sono reali, alternative alla sua?
Sono quelle che ho menzionato prima: il disegno di legge Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, e quello di Benedetto Della Vedova, ispirato al mio. Al di fuori di questi, a sinistra come a destra, regna la conservazione dell’esistente.
Il primo maggio il segretario cgil Camusso ha detto: «Abbiamo ascoltato il presidente della Repubblica, credo abbia assolutamente ragione: i sindacati divisi sono sindacati più deboli». Giusto? Sbagliato?
In un regime di pluralismo sindacale i dissensi tra le confederazioni maggiori dovrebbero considerarsi fisiologici. Occorrerebbe però una cornice essenziale di regole condivise, che consentisse di evitare che il dissenso produca paralisi, come accade oggi. Occorrerebbe che tutte le confederazioni maggiori fossero almeno accomunate da una cultura di democrazia sindacale: quella per cui in ogni luogo di lavoro la maggioranza rispetta i diritti della minoranza e la minoranza rispetta quelli della maggioranza.
Sempre la Camusso ha definito il precariato «il male insopportabile del nostro secolo». D’accordo?
Sì. Ma la Cgil dovrebbe fare molto di più per superarlo. Cioè indicare il modo in cui si può superare il dualismo del mercato del lavoro. Oggi i casi di false collaborazioni autonome che vengono contestati dagli ispettori o che vengono denunciati dai lavoratori interessati sono solo tre o quattro ogni diecimila. Il mio progetto consente di stanarli tutti immediatamente, sulla base dei soli tabulati dell’Inps o dell’Erario; ma al tempo stesso ridisegna il diritto del lavoro in modo da renderlo davvero applicabile a tutti. Ma per la Cgil ridisegnare il diritto del lavoro è tabù; così ci teniamo anche l’apartheid fra protetti e non protetti.
Quali sono questi requisiti del lavoro dipendente, secondo la sua riforma?
La definizione che propongo è questa: è lavoratore dipendente chi lavora continuativamente per un’azienda, traendo dal rapporto più di due terzi del proprio reddito di lavoro complessivo, quando la retribuzione non superi l’equivalente di 40.000 euro annui. La stessa definizione è stata adottata nel disegno di legge Nerozzi, che recepisce il progetto Boeri-Garibaldi, e in quello presentato da Benedetto Della Vedova ed Enzo Raisi alla Camera il 7 aprile scorso, che è esplicitamente ispirato al mio.
Quali forme di flessibilità eliminerebbe e quali lascerebbe e a che condizioni?
Resterebbero i contratti a termine e il lavoro temporaneo tramite agenzia, nei casi classici nei quali essi sono da sempre consentiti, il contratto di apprendistato, il part-time, il job sharing, e anche le stesse collaborazioni autonome coordinate e continuative. La novità sarebbe che, se il rapporto di collaborazione ha i requisiti della continuità e della monocommittenza di cui abbiamo parlato prima, si applica in tutti i casi la nuova disciplina della stabilità.
Quale sarebbe questa nuova disciplina? Che cosa resterebbe dell’art. 18?
L’articolo 18 continuerebbe ad applicarsi nei casi in cui il giudice accerta la discriminazione. Si applicherebbe anche nel caso del licenziamento disciplinare, tranne che qui sarebbe data al giudice la facoltà discrezionale di condannare l’impresa al solo risarcimento e non alla reintegrazione. Cambierebbe invece radicalmente la disciplina del licenziamento per motivi economici od organizzativi.
Come renderebbe più sicura la risoluzione del rapporto nei casi economici e organizzativi, senza il rischio di reintegra da parte del giudice?
In questo caso l’impresa è esentata dal controllo giudiziale sul licenziamento, ma è automaticamente tenuta a corrispondere al lavoratore un’indennità di licenziamento pari a un mese per ogni anno di anzianità di servizio, che il lavoratore può parzialmente convertire in preavviso lungo. Il lavoratore che abbia maturato due anni di anzianità ha inoltre diritto a un “contratto di ricollocazione”, che gli dà diritto, a carico dell’impresa, a un trattamento complementare di disoccupazione pari per il primo anno al 90 per cento dell’ultima retribuzione, entro il limite di 36.000 euro annui. Nei due anni successivi l’entità si riduce rispettivamente del 10 e del 20 per cento. Questo trattamento costerà all’azienda pochissimo il primo anno, molto di più nei due successivi. Ma già oggi l’80 per cento dei lavoratori che perdono il posto lo ritrovano entro il primo anno. L’alto costo nel secondo e nel terzo anno serve a incentivare l’impresa ad attivare i migliori servizi di outplacement e di riqualificazione professionale mirata, in modo da ridurre al minimo i casi di non rioccupazione entro il primo anno.
E’ comunque tutto un caso aggiuntivo per l’impresa rispetto alla situazione attuale.
Ma è largamente compensato dalla soppressione del controllo giudiziale sul giustificato motivo oggettivo. L’aggiustamento industriale, che oggi è sempre fortemente ritardato, potrà essere immediato e comporterà costi predeterminabili in un minimo e un massimo.
Un dubbio è che resti ancora molta discrezionalità nei giudici del lavoro che tendono a reintegrare.
Nel 95 per cento dei casi di licenziamento per motivi oggettivi dei quali i giudici del lavoro oggi si occupano, la discriminazione non viene neppure ipotizzata dal lavoratore ricorrente, perché effettivamente non è ragionevolmente prospettabile. In tutti questi casi, il giudice non avrebbe alcuna discrezionalità. D’altra parte, la discriminazione è una cosa molto concreta: non la si può inventare.
Ha calcolato i costi dell’indennizzo di licenziamento e del trattamento complementare di disoccupazione?
Sì. Secondo le simulazioni che abbiamo fatto, con un turnover molto alto, pari al 5 per cento annuo, che sia per metà imputabile a licenziamenti, e con un tempo medio di ricollocazione dei licenziati di 6 mesi, il costo per le aziende sarebbe mediamente pari allo 0,5 per cento del monte salari. Si tratterebbe soltanto di utilizzare una frazione di quello che oggi le aziende spendono per tenere a libro paga i lavoratori che non servono più, destinandola ad accompagnarli in modo civile a una nuova occupazione.
Questo costo aggiuntivo non scoraggerebbe gli imprenditori dall’assumere?
Le ripeto: il maggior costo del licenziamento sarebbe largamente compensato dalla cessazione del regime di sostanziale job property fondato sull’articolo 18.
Viene obiettato che non abbiamo un sistema efficiente di formazione, riqualificazione e sostegno al reddito che accompagni le persone durante la ricerca di un nuovo lavoro. In pratica quel modello di flexicurity che ha funzionato in un paese piccolo e molto diverso dal nostro, come la Danimarca, da noi non funzionerebbe (e tra l’altro con la crisi è saltato anche lì).
In Danimarca non è saltato affatto questo modello: ha solo incontrato recentemente qualche difficoltà, che sta essendo superata. Quanto a noi, la riforma avrebbe l’effetto di stimolare fortemente l’impresa interessata ad attivare i migliori servizi di outplacement e di riqualificazione mirata disponibili nel mercato. E’ vero che costano; ma le Regioni potrebbero – anzi, dovrebbero – intervenire con i contributi del Fondo Sociale Europeo a sollevare le imprese di gran parte se non la totalità del costo di questi servizi. Sarebbe, oltretutto, un buon modo per spendere finalmente questi fondi, che oggi per lo più sperperiamo, o non riusciamo neppure a spendere. E poi, la Danimarca è grande esattamente come il Piemonte; la Svezia esattamente come la Lombardia; e ha esattamente lo stesso reddito pro capite. Perché mai queste Regioni non potrebbero fare quello che si fa normalmente da decenni in quei Paesi?
Non si rischia paradossalmente di precarizzare ancora di più? Perché in fondo le sue assunzioni a tempo indeterminato non sarebbero più tali.
Mi scusi, ma questa è proprio una sciocchezza. Se fosse così, questo significherebbe che, tolta l’Italia, in nessun altro Paese d’Europa oggi ci sarebbero rapporti a tempo indeterminato, perché in nessun altro Paese è applicabile una norma simile all’articolo 18. Questo equivarrebbe a dire che al di fuori dell’articolo 18 non ci sarebbe altro che precarietà e bad jobs. Ovviamente non è così. Il problema è che in Italia siamo ormai assuefatti a confondere la sicurezza del lavoratore con il regime di inamovibilità, di job property. In realtà, la sicurezza che viene offerta al lavoratore da un regime di flexsecurity è molto maggiore e migliore rispetto a quella offerta da un regime di ingessatura del rapporto di lavoro: perché quando viene l’acquazzone anche il gesso si scioglie, e il lavoratore si trova con un pugno di mosche in mano.
Quali altre proposte ci sono reali, alternative alla sua?
Sono quelle che ho menzionato prima: il disegno di legge Nerozzi, ispirato al progetto Boeri-Garibaldi, e quello di Benedetto Della Vedova, ispirato al mio. Al di fuori di questi, a sinistra come a destra, regna la conservazione dell’esistente.
Il primo maggio il segretario cgil Camusso ha detto: «Abbiamo ascoltato il presidente della Repubblica, credo abbia assolutamente ragione: i sindacati divisi sono sindacati più deboli». Giusto? Sbagliato?
In un regime di pluralismo sindacale i dissensi tra le confederazioni maggiori dovrebbero considerarsi fisiologici. Occorrerebbe però una cornice essenziale di regole condivise, che consentisse di evitare che il dissenso produca paralisi, come accade oggi. Occorrerebbe che tutte le confederazioni maggiori fossero almeno accomunate da una cultura di democrazia sindacale: quella per cui in ogni luogo di lavoro la maggioranza rispetta i diritti della minoranza e la minoranza rispetta quelli della maggioranza.
Sempre la Camusso ha definito il precariato «il male insopportabile del nostro secolo». D’accordo?
Sì. Ma la Cgil dovrebbe fare molto di più per superarlo. Cioè indicare il modo in cui si può superare il dualismo del mercato del lavoro. Oggi i casi di false collaborazioni autonome che vengono contestati dagli ispettori o che vengono denunciati dai lavoratori interessati sono solo tre o quattro ogni diecimila. Il mio progetto consente di stanarli tutti immediatamente, sulla base dei soli tabulati dell’Inps o dell’Erario; ma al tempo stesso ridisegna il diritto del lavoro in modo da renderlo davvero applicabile a tutti. Ma per la Cgil ridisegnare il diritto del lavoro è tabù; così ci teniamo anche l’apartheid fra protetti e non protetti.
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