Editoriale di Irene Tinagli pubblicato sulla Stampa il 24 maggio 2011
“Tutti a casa”. Un tempo era un grido di protesta rivolto ai politici, oggi sembra piuttosto una realtà di rassegnazione per milioni di Italiani. Tra i molti dati e analisi presenti nell’ultimo rapporto dell’Istat colpisce in modo particolare la persistenza in Italia di un bacino di inattività altissimo, soprattutto tra i giovani e le donne. Non persone disoccupate in cerca di lavoro, semplicemente ferme. Secondo i calcoli dell’Istat sono circa 3 milioni. Una cifra enorme. E la cosa più preoccupante è che per ben due milioni di queste persone il motivo di questa inattività è la convinzione che, tanto, sia inutile anche cercare lavoro. L’Istat li definisce gli inattivi scoraggiati. La loro percentuale sulla forza lavoro in Italia è più che doppia rispetto alla media degli altri Paesi europei, e sei volte superiore a quella della Francia.
Siamo così di fronte ad una sorta di paradosso. Da un lato un tasso di disoccupazione ufficiale che è migliore di quello di molti altri Paesi europei (8,4% contro una media europea del 9,6%), dall’altro però un tasso di inattività che non ha eguali, arrivato al 37,8% contro una media europea del 29%. Da un lato un’economia mondiale che ricomincia a girare, con una crescita media del Pil globale che nel 2010 è stata del +5%, dall’altro una totale sfiducia degli Italiani nella capacità dell’Italia di agganciare questa ripresa e, soprattutto, di tradurla in nuova occupazione e crescita diffusa.
Come mai? Qualcuno potrà pensare che gli italiani sono male informati, o incapaci di vedere quando le cose vanno bene perché di natura scettica, oppure semplicemente che sono pigri. Ma non è così. Gli italiani, come tutti gli altri, sanno leggere certi segnali e adeguare le proprie scelte di conseguenza. I segnali che influenzano i comportamenti dei cittadini in questi casi sono essenzialmente due: quelli provenienti dal mercato del lavoro più vicino a loro e quelli provenienti dalla politica. I primi hanno mostrato chiaramente un peggioramento non tanto e non solo della quantità del lavoro (nel biennio 2009-2010 si sono persi mezzo milione di posti), ma anche e soprattutto la sua qualità. I secondi hanno visto una politica economica, sociale e fiscale che in questi anni ha fatto pochissimo non solo per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche per rendere il lavoro e la sua ricerca una scelta conveniente. Come ci insegnano i premi Nobel Pissarides e Mortensen (anche se non è necessario un premio Nobel per capirlo) cercare lavoro ha dei costi, fisici e psicologici. E’ normale che una persona deciderà di sostenere questi costi e questa fatica se pensa che ne valga la pena. Se invece i segnali indicano che questa convenienza è scarsa, smettere di cercare può diventare, per alcune persone, una scelta plausibile.
Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto.
Anche se il dato sulla disoccupazione totale in Italia non è peggiorato, altri indicatori non sono altrettanto incoraggianti. Nel 2010, come ci dice il rapporto Istat, il calo più grosso dei posti di lavoro si è avuto tra le occupazioni cosiddette «standard», ovvero a tempo pieno e indeterminato. Quasi trecentomila posti di lavoro «buono» andati in fumo. Circa due terzi di questi posti riguardavano giovani. Al contrario, l’occupazione che si è creata nel 2010 è per lo più part-time, con contratti a tempo determinato e in fasce occupazionali scarsamente qualificate, soprattutto per le donne. Perché dunque dovrebbe stupire se così tante persone, e, guardacaso, soprattutto i giovani e le donne decidono di stare a casa e smettere di cercare? Giovani e donne sono proprio le fasce di lavoratori che in Italia hanno i lavori «peggiori», con i salari più bassi e con nessuna assistenza in termini di servizi di supporto o ammortizzatori sociali che rendano la ricerca del lavoro più semplice, meno onerosa e più conveniente. Per non parlare del fisco. Oggi centinaia di migliaia di persone sono costrette ad aprire partite Iva per lavorare con enti e aziende che non sono più disponibili ad assumerli come dipendenti, sopportando oneri e tassazioni che, persino nei cosiddetti «regimi agevolati», hanno ormai livelli molto elevati. Anche lavorare costa. E nessuna politica degli ultimi anni ha contribuito a renderlo più conveniente. Le uniche attività che fiscalmente sono state rese più convenienti sono l’acquisto e la locazione di immobili, con l’abolizione dell’Ici e l’introduzione dell’aliquota fissa al 20% per i redditi da affitti. Misure di per sé non sbagliate, ma che in mancanza di una riforma della fiscalità sul lavoro, e in un Paese in cui il la propensione al possesso di case è tra le più alte del mondo, creano non poche distorsioni nell’allocazione delle risorse e negli incentivi a lavorare. E quindi, al grido d’allarme dell’Istat che denuncia come milioni di italiani non cerchino più lavoro, molti potrebbero rispondere: e perché dovremmo? Rassegnati sì, fessi no. La vera sfida del nostro Paese oggi è quindi duplice: far recuperare dinamismo al mercato del lavoro in modo da generare più opportunità e iniettare un po’ di fiducia, ma anche rendere il lavoro una scelta più conveniente e stimolante per milioni di persone che sono stanche di girare a vuoto.
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