Articolo di Gian Antonio Stella pubblicato su Il Corriere della Sera del 6 luglio 2010
Reperti preistorici coperti di muffa. I rischi del federalismo demaniale
Risolto il caso delle mozzarelle blu, un altro giallo dilania gli studiosi: quello delle selci blu. Gli antichissimi reperti preistorici veronesi che, ammassati in un ex deposito militare, hanno misteriosamente cambiato colore. Come mai? Le opinioni sono diverse. Dietro lo scontro, tuttavia, emerge un problema se possibile più grave: la vendita (svendita?) di palazzi storici che erano stati donati alla città per ospitare musei.
Un tradimento dei benefattori deciso per costruire nuove rotatorie. Sarebbe questa la famosa «valorizzazione » del patrimonio pubblico? Il Museo civico di storia naturale di Verona, aperto nel 1861 nella scia di collezioni ancora più antiche, come il museo Calzolari del 1550 o il Moscardo del 1611, è organizzato sul modello viennese in quattro sezioni: Geologia e Paleontologia, Zoologia, Botanica e Preistoria. Sezione che, grazie ai ricchissimi ritrovamenti sui monti Lessini e negli insediamenti di palafitte sul lago di Garda e nella Bassa veronese, è una delle più celebri del pianeta.
Meglio: sarebbe. Se le quattro stanze un tempo dedicate alla preistoria non fossero state ridotte (con l’aggiunta di una aula per la didattica) a una sola di una cinquantina di metri quadrati. Se il sito Internet del museo non fosse stato sostituito da un link nel portale del Comune dove accanto a due fotine non solo non si fa cenno ai tesori esposti (l’incisione del leone e dello stambecco trovati al Riparo Tagliente, le ceramiche e i bronzi delle palafitte del Garda o della necropoli di Franzine Nuove) ma neppure all’esistenza stessa della sezione nella sede centrale di palazzo Pompei ma solo alla direzione e al magazzino ( non aperti al pubblico) all’Arsenale.
Se infine lo spazio ridicolo rispetto all’importanza della raccolta (un esempio: gli studi sul Dna di un neandertaliano trovato a Riparo Mezzena e la scoperta che aveva la pelle chiara, gli occhi azzurri e i capelli rossi sono finiti in copertina su «Science ») non costringesse a tenere nei depositi migliaia di oggetti tra cui tutti quelli trovati negli ultimi 20 anni. Compresi pezzi straordinari quali quelli recuperati dallo scavo subacqueo di Lazise. Come un panino bruciacchiato conservatosi miracolosamente intatto o uno spillone da cerimonia di 50 centimetri.
Un panorama indecoroso. Che insulta la ricchezza del nostro patrimonio e ci espone al sarcasmo di tutti quei musei del mondo che farebbero pazzie per avere una fetta di questa nostra torta lasciata andare a male. Basti ricordare, come fa Laura Longo, conservatore di Preistoria, «che l’anno scorso una collezione raccogliticcia di 6231 pezzi è stata battuta all’asta a Monaco a 107 milioni di euro ». Un panorama che spingerebbe un direttore alle dimissioni se, sottolineano a Verona, il direttore titolare del museo (non un funzionario nominato dal Comunemagari bravissimo ma non specializzato: un vincitore di concorso, come dicono la legge e il buon senso) non mancasse dal 1997. Un dettaglio che la dice lunga.
Il «giallo delle selci blu» si inserisce in questo contesto. E ha il punto di partenza nella decisione presa anni fa dal Comune di indire un concorso internazionale per sistemare il grande e bello ma ammaccato Arsenale militare, così da trasferire il Museo di storia naturale lì. Ma, ahinoi, il progetto messo a punto dal vincitore, l’architetto inglese David Chipperfield, prevedeva una spesa enorme. E si sa quanto le casse comunali si sian fatte di anno in anno sempre più povere.
Come tirar su i soldi per pagare questo e altri progetti? Idea: mettendo in vendita un po’ di palazzi donati nei secoli al municipio. Prima il Castel San Pietro, comprato dalla fondazione Cariverona, poi via via il Palazzo Forti, il palazzo Gobetti, il palazzo Pompei, l’ex convento francescano di San Domenico. Tutta roba di grandissimo valore. Lo dice il sito Internet municipale. Il convento? «Rappresenta una preziosa testimonianza artistica dell’architettura del XVI—XVII secolo». Palazzo Gobetti? «È uno dei palazzi più caratteristici della rinascenza veronese, con armoniosa facciata quattrocentesca, balconi traforati e portale dagli stipiti finemente scolpiti». Insomma, non vecchie caserme o capannoni: gioielli. Tanto che Palazzo Pompei e Palazzo Gobetti sono (erano) sedi del Museo di storia naturale. E Palazzo Forti, dono «all’amata Verona » d’un ricco ebreo morto un anno prima delle leggi razziali, ospita la Galleria d’arte moderna. A proposito: cosa avrebbe detto, sapendo che quella sua donazione «per farci un museo» sarebbe stata stravolta anni dopo da sindaco e assessori? Amen, ha risposto il Comune. Dichiarando di voler ricavare dalla vendita di questi ultimi edifici la bellezza di 115 milioni per ripianare i debiti, avviare il recupero dell’Arsenale, finanziare il Polo finanziario e altre nuove opere.
«Non sarà che poi, dato il valore dei palazzi, non ci si potrà manco piantare un chiodo?» s’interrogavano i possibili compratori. Tranquilli, ha risposto ufficialmente il Comune on line: «Per detti immobili è stato adottato un apposito provvedimento urbanistico che ha assegnato le diverse destinazioni urbanistiche (residenziale, direzionale e commerciale) consentendo la più ampia possibilità di utilizzo». Rileggiamo: «la più ampia ». Più chiaro di così! Al massimo, com’è accaduto per il «Forti» inutilmente difeso da migliaia e migliaia di cittadini, la Cariverona ha dovuto impegnarsi a lasciarci il museo per venti anni. Un periodo che per i tempi lunghi di una grande banca è un battere di ciglia. In compenso, invece di pagare i 65 milioni pretesi dal Comune ne ha pagati 33.
Chi si contenta gode? Sarà... Certo è che anche Palazzo Gobetti, messo in vendita per 10 milioni è stato venduto a 6 e mezzo scarsi. Per non dire del centralissimo palazzetto del Bar Borsa: in vendita per 6 milioni e mezzo, era stato ceduto per 4,8 alla «Valpadana Costruzioni » ma due settimane fa è saltato fuori che di quei soldi, al Comune, non è arrivato un centesimo: nessun versamento, nessun rogito, nessun contatto ulteriore.
Nel frattempo, tutto il materiale preistorico che non potendo essere esposto per mancanza di spazio era in deposito parte a Castel San Pietro e parte da palazzo Gobetti, è stato sgomberato dagli edifici venduti e accatastato in due stanzoni al piano terra e al primo piano dell’Arsenale che magari domani, ristrutturati, saranno stupendi. Ma oggi sono né più né meno che due magazzini semi-diroccati. Cosa sia successo non si sa. C’è chi ipotizza, come Gilberto Artioli del dipartimento di Geoscienze di Padova, che il magazzino al piano terra fosse impregnato di qualche sostanza non ancora ben definita. Chi ritiene occorrono nuove analisi per capirci qualcosa. Chi ancora si avventura nell’immaginare un sabotaggio. Vero? Falso? Si vedrà.
Fatto è che mentre i pezzi al piano superiore, per quanto messi a rischio da umidità e sbalzi di temperatura, si sono conservati decentemente, quelli al piano inferiore hanno subito una sorprendente metamorfosi. Molti sono diventati, come dicevamo, blu. Subendo un danno così grave che per il conservatore Laura Longo, impegnata in una battaglia che le ha tirato addosso le ire del Comune, «in tanti casi non valgono più nulla: massicciata per le strade». Troppo pessimista? C’è da sperarlo. Un punto, tuttavia, pare chiaro: la storia esemplare dei palazzi di Verona, dei clamorosi ribassi d’asta rispetto alle illusioni finanziarie, dello sfasamento tra la vendita (subito) dei musei di oggi in attesa (chissà...) dei nuovi musei domani, è la prova che il federalismo demaniale è come il tritolo: può essere utilissimo, ma va maneggiato con cura. O sarà accompagnato da regole rigidissime (non complicatissime, ma rigidissime sì) o rischiamo che i Comuni, con l’acqua alla gola, ne facciano di tutti i colori.
Per carità, forse non vale la pena di calcare troppo sulla battuta con cui Flavio Tosi, il sindaco leghista, ha sbuffato contro il blocco dei lavori per un parcheggio sotterraneo dovuta alla scoperta di resti archeologici: «Meglio il parcheggio che la conservazione di quattro sassi». Testuale. Fa però effetto leggere un titolo dell’Arena dedicato al tema: «Palazzo Gobetti regala rotatorie a San Michele». Vi si legge che grazie alla vendita del palazzo che ospitava parte del museo di storia naturale, il Comune «ha stanziato 900mila euro per la costruzione di due rotatorie a San Michele » e «un milione e 100mila per il campo sportivo Audace». Opere indispensabili, forse. Però...
Se infine lo spazio ridicolo rispetto all’importanza della raccolta (un esempio: gli studi sul Dna di un neandertaliano trovato a Riparo Mezzena e la scoperta che aveva la pelle chiara, gli occhi azzurri e i capelli rossi sono finiti in copertina su «Science ») non costringesse a tenere nei depositi migliaia di oggetti tra cui tutti quelli trovati negli ultimi 20 anni. Compresi pezzi straordinari quali quelli recuperati dallo scavo subacqueo di Lazise. Come un panino bruciacchiato conservatosi miracolosamente intatto o uno spillone da cerimonia di 50 centimetri.
Un panorama indecoroso. Che insulta la ricchezza del nostro patrimonio e ci espone al sarcasmo di tutti quei musei del mondo che farebbero pazzie per avere una fetta di questa nostra torta lasciata andare a male. Basti ricordare, come fa Laura Longo, conservatore di Preistoria, «che l’anno scorso una collezione raccogliticcia di 6231 pezzi è stata battuta all’asta a Monaco a 107 milioni di euro ». Un panorama che spingerebbe un direttore alle dimissioni se, sottolineano a Verona, il direttore titolare del museo (non un funzionario nominato dal Comunemagari bravissimo ma non specializzato: un vincitore di concorso, come dicono la legge e il buon senso) non mancasse dal 1997. Un dettaglio che la dice lunga.
Il «giallo delle selci blu» si inserisce in questo contesto. E ha il punto di partenza nella decisione presa anni fa dal Comune di indire un concorso internazionale per sistemare il grande e bello ma ammaccato Arsenale militare, così da trasferire il Museo di storia naturale lì. Ma, ahinoi, il progetto messo a punto dal vincitore, l’architetto inglese David Chipperfield, prevedeva una spesa enorme. E si sa quanto le casse comunali si sian fatte di anno in anno sempre più povere.
Come tirar su i soldi per pagare questo e altri progetti? Idea: mettendo in vendita un po’ di palazzi donati nei secoli al municipio. Prima il Castel San Pietro, comprato dalla fondazione Cariverona, poi via via il Palazzo Forti, il palazzo Gobetti, il palazzo Pompei, l’ex convento francescano di San Domenico. Tutta roba di grandissimo valore. Lo dice il sito Internet municipale. Il convento? «Rappresenta una preziosa testimonianza artistica dell’architettura del XVI—XVII secolo». Palazzo Gobetti? «È uno dei palazzi più caratteristici della rinascenza veronese, con armoniosa facciata quattrocentesca, balconi traforati e portale dagli stipiti finemente scolpiti». Insomma, non vecchie caserme o capannoni: gioielli. Tanto che Palazzo Pompei e Palazzo Gobetti sono (erano) sedi del Museo di storia naturale. E Palazzo Forti, dono «all’amata Verona » d’un ricco ebreo morto un anno prima delle leggi razziali, ospita la Galleria d’arte moderna. A proposito: cosa avrebbe detto, sapendo che quella sua donazione «per farci un museo» sarebbe stata stravolta anni dopo da sindaco e assessori? Amen, ha risposto il Comune. Dichiarando di voler ricavare dalla vendita di questi ultimi edifici la bellezza di 115 milioni per ripianare i debiti, avviare il recupero dell’Arsenale, finanziare il Polo finanziario e altre nuove opere.
«Non sarà che poi, dato il valore dei palazzi, non ci si potrà manco piantare un chiodo?» s’interrogavano i possibili compratori. Tranquilli, ha risposto ufficialmente il Comune on line: «Per detti immobili è stato adottato un apposito provvedimento urbanistico che ha assegnato le diverse destinazioni urbanistiche (residenziale, direzionale e commerciale) consentendo la più ampia possibilità di utilizzo». Rileggiamo: «la più ampia ». Più chiaro di così! Al massimo, com’è accaduto per il «Forti» inutilmente difeso da migliaia e migliaia di cittadini, la Cariverona ha dovuto impegnarsi a lasciarci il museo per venti anni. Un periodo che per i tempi lunghi di una grande banca è un battere di ciglia. In compenso, invece di pagare i 65 milioni pretesi dal Comune ne ha pagati 33.
Chi si contenta gode? Sarà... Certo è che anche Palazzo Gobetti, messo in vendita per 10 milioni è stato venduto a 6 e mezzo scarsi. Per non dire del centralissimo palazzetto del Bar Borsa: in vendita per 6 milioni e mezzo, era stato ceduto per 4,8 alla «Valpadana Costruzioni » ma due settimane fa è saltato fuori che di quei soldi, al Comune, non è arrivato un centesimo: nessun versamento, nessun rogito, nessun contatto ulteriore.
Nel frattempo, tutto il materiale preistorico che non potendo essere esposto per mancanza di spazio era in deposito parte a Castel San Pietro e parte da palazzo Gobetti, è stato sgomberato dagli edifici venduti e accatastato in due stanzoni al piano terra e al primo piano dell’Arsenale che magari domani, ristrutturati, saranno stupendi. Ma oggi sono né più né meno che due magazzini semi-diroccati. Cosa sia successo non si sa. C’è chi ipotizza, come Gilberto Artioli del dipartimento di Geoscienze di Padova, che il magazzino al piano terra fosse impregnato di qualche sostanza non ancora ben definita. Chi ritiene occorrono nuove analisi per capirci qualcosa. Chi ancora si avventura nell’immaginare un sabotaggio. Vero? Falso? Si vedrà.
Fatto è che mentre i pezzi al piano superiore, per quanto messi a rischio da umidità e sbalzi di temperatura, si sono conservati decentemente, quelli al piano inferiore hanno subito una sorprendente metamorfosi. Molti sono diventati, come dicevamo, blu. Subendo un danno così grave che per il conservatore Laura Longo, impegnata in una battaglia che le ha tirato addosso le ire del Comune, «in tanti casi non valgono più nulla: massicciata per le strade». Troppo pessimista? C’è da sperarlo. Un punto, tuttavia, pare chiaro: la storia esemplare dei palazzi di Verona, dei clamorosi ribassi d’asta rispetto alle illusioni finanziarie, dello sfasamento tra la vendita (subito) dei musei di oggi in attesa (chissà...) dei nuovi musei domani, è la prova che il federalismo demaniale è come il tritolo: può essere utilissimo, ma va maneggiato con cura. O sarà accompagnato da regole rigidissime (non complicatissime, ma rigidissime sì) o rischiamo che i Comuni, con l’acqua alla gola, ne facciano di tutti i colori.
Per carità, forse non vale la pena di calcare troppo sulla battuta con cui Flavio Tosi, il sindaco leghista, ha sbuffato contro il blocco dei lavori per un parcheggio sotterraneo dovuta alla scoperta di resti archeologici: «Meglio il parcheggio che la conservazione di quattro sassi». Testuale. Fa però effetto leggere un titolo dell’Arena dedicato al tema: «Palazzo Gobetti regala rotatorie a San Michele». Vi si legge che grazie alla vendita del palazzo che ospitava parte del museo di storia naturale, il Comune «ha stanziato 900mila euro per la costruzione di due rotatorie a San Michele » e «un milione e 100mila per il campo sportivo Audace». Opere indispensabili, forse. Però...
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