È da qualche settimana che si parla con insistenza di ripresa in Europa e,
finalmente, anche in Italia. I dati di tutti i settori e i sondaggi sulle
aspettative di imprese e consumatori segnalano che il tasso di crescita del
Prodotto interno lordo (Pil) del primo trimestre del 2015, che sarà pubblicato
a maggio, confermerà il dato positivo di fine anno. È molto probabile che la
ripresa sia cominciata nella seconda metà del 2014.
Meno certa è la traiettoria della ripresa nei prossimi anni, ma, stando alle previsioni di molti ed in particolare a quelle della Banca centrale europea (Bce) -
pubblicate una decina di giorni fa - l’economia dell’eurozona tornerà gradualmente al suo indice di crescita storico del 2% (il cosiddetto potenziale) nel 2017.
Ma se si guarda all’ultima riga della tabella pubblicata dalla Bce, c’è un numero
che getta un’ombra nera su questa ripresa. Nel 2017 il tasso di disoccupazione sarà del 9,9%, neanche due punti più basso di quello di oggi. Poiché questo corrisponde alla crescita potenziale, la previsione implica che, nell’eurozona, il cosiddetto tasso «naturale» di disoccupazione, cioè quello che si realizzerà quando tutti gli occupabili avranno trovato lavoro, è quasi del 10%. Questo 10% non scomparirà con la ripresa e per quanto definito naturale nel linguaggio tecnico, di naturale ha ben poco. Se a questo 10% si aggiungono le persone che non cercano un impiego attivamente in quanto scoraggiate, e si considera che questo numero è composto in gran parte di disoccupati da lungo tempo, stiamo quindi dicendo che la zona euro - una delle più ricche economie del pianeta - dovrà imparare a convivere con un esercito di esclusi dal mercato del lavoro. Questi sono i numeri di tutta l’eurozona: Nord e Sud. L’Italia è messa ben peggio. Nonostante oggi il nostro tasso di disoccupazione sia appena superiore a quello della zona euro, la sua composizione è terrificante: 40% di disoccupati tra i giovani, con una concentrazione molto alta nel Mezzogiorno e tra i senza lavoro di lunga durata. La crisi per noi è stata molto costosa: dal 2007 il numero dei disoccupati è praticamente raddoppiato, passando da 1,76 milioni a 3,4 milioni. Fa piacere registrare che i contratti a tempo indeterminato siano stati nei primi due mesi del 2015 il 35% in più rispetto allo stesso periodo del 2014. È una buona notizia ma sono solo 79 mila contratti.
Estrapolando dalla previsione aggregata della Bce non si può quindi non dedurre che, in Italia, per una larga parte di quegli oltre 3 milioni di disoccupati non ci sia speranza di trovare un impiego nei prossimi anni. Questi numeri non possono essere trattati da semplice corollario delle previsioni economiche. Al contrario, ci dicono che nei prossimi anni il problema principale per l’Europa dell’euro, e per l’Italia in particolare, sarà il lavoro.
È un problema che va messo al centro delle politiche europee, che va capito ed affrontato. Va capito, perché non è chiaro se una grossa fetta della forza lavoro non abbia un impiego per via di una perdita di competenze causata dalla crisi prolungata o da fattori preesistenti alla crisi, conseguenza di un cambiamento della struttura della domanda di lavoro in Europa, dei processi tecnologici e della competizione globale. Ma soprattutto il problema va affrontato perché non è possibile pensare che il successo del progetto europeo e la credibilità dei singoli governi dell’Unione non sia legata alla capacità di proporre politiche strutturali che prevedano il rilancio e la riqualificazione dell’occupazione.
È dalla ripresa del 2009 che gli Stati Uniti discutono, non solo nelle università ma anche nella politica, sul come affrontare la cosiddetta jobless recovery, cioè una ripresa non accompagnata da un aumento dell’occupazione. Nonostante la crescita degli ultimi anni negli Usa, nessuno ha potuto dichiarare la crisi finita fino a quando il mercato del lavoro non ha cominciato a rafforzarsi. Perché questa minore sensibilità al problema nel Vecchio Continente? Abbiamo speso gli ultimi sette anni a rispondere alla instabilità finanziaria, a cercare di governare le tensioni interne all’Unione, a costruire istituzioni per irrobustirla, ne abbiamo - almeno per ora - assicurato la sopravvivenza. Ma il progetto europeo, nonostante la ripresa e la maggiore stabilità raggiunta, non ha legittimità se non si affronta il problema del lavoro.
Estrapolando dalla previsione aggregata della Bce non si può quindi non dedurre che, in Italia, per una larga parte di quegli oltre 3 milioni di disoccupati non ci sia speranza di trovare un impiego nei prossimi anni. Questi numeri non possono essere trattati da semplice corollario delle previsioni economiche. Al contrario, ci dicono che nei prossimi anni il problema principale per l’Europa dell’euro, e per l’Italia in particolare, sarà il lavoro.
È un problema che va messo al centro delle politiche europee, che va capito ed affrontato. Va capito, perché non è chiaro se una grossa fetta della forza lavoro non abbia un impiego per via di una perdita di competenze causata dalla crisi prolungata o da fattori preesistenti alla crisi, conseguenza di un cambiamento della struttura della domanda di lavoro in Europa, dei processi tecnologici e della competizione globale. Ma soprattutto il problema va affrontato perché non è possibile pensare che il successo del progetto europeo e la credibilità dei singoli governi dell’Unione non sia legata alla capacità di proporre politiche strutturali che prevedano il rilancio e la riqualificazione dell’occupazione.
È dalla ripresa del 2009 che gli Stati Uniti discutono, non solo nelle università ma anche nella politica, sul come affrontare la cosiddetta jobless recovery, cioè una ripresa non accompagnata da un aumento dell’occupazione. Nonostante la crescita degli ultimi anni negli Usa, nessuno ha potuto dichiarare la crisi finita fino a quando il mercato del lavoro non ha cominciato a rafforzarsi. Perché questa minore sensibilità al problema nel Vecchio Continente? Abbiamo speso gli ultimi sette anni a rispondere alla instabilità finanziaria, a cercare di governare le tensioni interne all’Unione, a costruire istituzioni per irrobustirla, ne abbiamo - almeno per ora - assicurato la sopravvivenza. Ma il progetto europeo, nonostante la ripresa e la maggiore stabilità raggiunta, non ha legittimità se non si affronta il problema del lavoro.
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