Il governo Renzi non ama i rimproveri dell’Europa e delle istituzioni internazionali. Ieri però ne è arrivato uno che non si può ignorare. In una intervista al Corriere, Christine Lagarde, presidente del Fondo Monetario Internazionale, ha ricordato che l’Italia è fra i Paesi che «incoraggiano meno» (un cortese eufemismo) l’occupazione femminile: un cambiamento di rotta darebbe un contributo di primo piano alla ripresa economica. Proprio come nel caso di deficit e debito pubblico, non è certo la prima volta che ci viene chiesto di «fare i compiti a casa» per promuovere il lavoro delle donne. Siamo davvero la maglia nera su questo versante? E, soprattutto, perché i nostri governi fanno così poco per colmare il divario che ci separa dagli altri Paesi?
L’indicatore che meglio riassume il ritardo italiano è il tasso di occupazione femminile. Da noi lavora solo il 47% delle donne in età compresa fra i 16 e i 64 anni, più di dieci punti sotto la media dell’eurozona. Le donne inattive sono molto più
numerose al Sud che al Nord. Ma anche in regioni relativamente ricche e sviluppate come l’Emilia Romagna o la Lombardia il tasso di occupazione femminile resta più basso rispetto alle aree con cui queste regioni dovrebbero confrontarsi: il Baden Württemberg tedesco, ad esempio, o il Rodano-Alpi francese, dove il tasso supera il 70%. Un altro elemento preoccupante è che, invece di diminuire, il divario italiano sta aumentando. Nel 2002 la distanza dalla Germania era di 16 punti percentuali, ora è di 20. Persino la Spagna è riuscita a fare meglio di noi nell’ultimo decennio e ci supera di ben tre
punti, nonostante i posti di lavoro perduti durante la crisi.
Come ha osservato Christine Lagarde, il basso livello di occupazione femminile è uno
dei più ingombranti ostacoli alla crescita. Se ci allineassimo agli standard europei, le dimensioni del nostro Prodotto interno lordo aumenterebbero di circa sei o sette punti percentuali. L’esperienza dei Paesi che hanno già seguito questa strada dimostra che il lavoro delle donne costituisce un vero e proprio volano di sviluppo. E guardando al settore dell’imprenditoria femminile possiamo già trovare numerose conferme di questa sindrome anche per l’Italia: nell’ultimo decennio le piccole e medie aziende guidate da donne sono andate meglio di quelle guidate da uomini, a dispetto dei maggiori ostacoli incontrati nell’accedere al credito bancario.
Dove stanno i blocchi al lavoro femminile? Sicuramente non nelle preferenze o nella mentalità delle donne italiane. I sondaggi dicono che il quaranta per cento delle donne inattive vorrebbe un’occupazione. Le donne in età fertile dichiarano però in larga maggioranza che desidererebbero avere almeno due figli. Il nodo principale sta qui. Il nostro modello economico-sociale ostacola la realizzazione del progetto di vita a cui aspirano le donne italiane (come quelle di tutti i Paesi sviluppati): avere un lavoro e fare figli. Tutte e due le cose, non solo una.
La scarsa disponibilità di servizi per l’infanzia e per gli anziani rende molto difficile conciliare responsabilità lavorative e familiari. Ma giocano contro anche la cultura e i comportamenti di molte imprese. Le aziende italiane sono ancora in buona misura organizzate in base a una prospettiva maschile: la quota di donne che devono abbandonare il lavoro quando sono incinte o quando nasce un figlio resta elevata, il ricorso ai congedi parentali è scoraggiato, soprattutto per gli uomini - i quali peraltro collaborano ancora troppo poco al lavoro domestico e di cura. L’altro grande ostacolo è il costo economico dei figli, non adeguatamente controbilanciato, come avviene in altri Paesi, da sgravi fiscali, trasferimenti e servizi pubblici.
La creazione di un welfare e di un mercato del lavoro più amichevole per le donne deve imporsi come una delle priorità più urgenti. Vi sono molte misure di sostegno che costerebbero poco o nulla: pensiamo a nuove regole sull’organizzazione del lavoro o sui periodi e orari di apertura degli uffici pubblici, degli asili, delle scuole. Certo, un pacchetto incisivo dovrebbe includere anche misure onerose per la finanza pubblica (fiscalità premiale, asili, congedi parentali e così via). La legge delega sul lavoro appena presentata in Parlamento prevede numerosi interventi che vanno nella giusta direzione, ma «senza oneri per la finanza pubblica». Saprà il governo ristrutturare la spesa in modo da liberare risorse a favore delle donne?
La questione non è tecnica, ma politica. Negli altri Paesi il motore dell’occupazione femminile si è acceso quando si sono formate «coalizioni pro donne» in seno alla classe dirigente (imprenditori, leader sindacali, intellettuali) e all’élite di governo. Purtroppo, nonostante i meritevoli sforzi di alcune singole personalità e organizzazioni, nel nostro Paese una simile coalizione ancora non c’è, in parte anche a causa (va detto) della bassa capacità di pressione dell’associazionismo femminile. Le cose possono però cambiare oggi. Sul piano della rappresentanza, le elezioni del febbraio 2013 hanno segnato un punto di svolta: le donne parlamentari sono il 30,8% del totale (erano il 20,2% nella passata legislatura). Nel nuovo governo, metà dei ministri sono donne. L’adozione delle quote di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate è stato un altro passo importante, così come la nascita, negli ultimi anni, di nuovi soggetti e di nuove iniziative mediatiche di aggregazione (come il blog 27esimaora.corriere.it ).
Fra pochi giorni sarà reso noto non solo il Documento di economia e finanza (Def), ma anche il Programma nazionale di riforma (Pnr), che conterrà gli obiettivi strategici del governo per il prossimo anno. Ci sarà un’agenda donne, riconoscibile e adeguata? Non possiamo che augurarcelo. Puntare sull’occupazione femminile è uno dei pochi atout di cui disponiamo per tornare a crescere. Approfittiamone.
Dove stanno i blocchi al lavoro femminile? Sicuramente non nelle preferenze o nella mentalità delle donne italiane. I sondaggi dicono che il quaranta per cento delle donne inattive vorrebbe un’occupazione. Le donne in età fertile dichiarano però in larga maggioranza che desidererebbero avere almeno due figli. Il nodo principale sta qui. Il nostro modello economico-sociale ostacola la realizzazione del progetto di vita a cui aspirano le donne italiane (come quelle di tutti i Paesi sviluppati): avere un lavoro e fare figli. Tutte e due le cose, non solo una.
La scarsa disponibilità di servizi per l’infanzia e per gli anziani rende molto difficile conciliare responsabilità lavorative e familiari. Ma giocano contro anche la cultura e i comportamenti di molte imprese. Le aziende italiane sono ancora in buona misura organizzate in base a una prospettiva maschile: la quota di donne che devono abbandonare il lavoro quando sono incinte o quando nasce un figlio resta elevata, il ricorso ai congedi parentali è scoraggiato, soprattutto per gli uomini - i quali peraltro collaborano ancora troppo poco al lavoro domestico e di cura. L’altro grande ostacolo è il costo economico dei figli, non adeguatamente controbilanciato, come avviene in altri Paesi, da sgravi fiscali, trasferimenti e servizi pubblici.
La creazione di un welfare e di un mercato del lavoro più amichevole per le donne deve imporsi come una delle priorità più urgenti. Vi sono molte misure di sostegno che costerebbero poco o nulla: pensiamo a nuove regole sull’organizzazione del lavoro o sui periodi e orari di apertura degli uffici pubblici, degli asili, delle scuole. Certo, un pacchetto incisivo dovrebbe includere anche misure onerose per la finanza pubblica (fiscalità premiale, asili, congedi parentali e così via). La legge delega sul lavoro appena presentata in Parlamento prevede numerosi interventi che vanno nella giusta direzione, ma «senza oneri per la finanza pubblica». Saprà il governo ristrutturare la spesa in modo da liberare risorse a favore delle donne?
La questione non è tecnica, ma politica. Negli altri Paesi il motore dell’occupazione femminile si è acceso quando si sono formate «coalizioni pro donne» in seno alla classe dirigente (imprenditori, leader sindacali, intellettuali) e all’élite di governo. Purtroppo, nonostante i meritevoli sforzi di alcune singole personalità e organizzazioni, nel nostro Paese una simile coalizione ancora non c’è, in parte anche a causa (va detto) della bassa capacità di pressione dell’associazionismo femminile. Le cose possono però cambiare oggi. Sul piano della rappresentanza, le elezioni del febbraio 2013 hanno segnato un punto di svolta: le donne parlamentari sono il 30,8% del totale (erano il 20,2% nella passata legislatura). Nel nuovo governo, metà dei ministri sono donne. L’adozione delle quote di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate è stato un altro passo importante, così come la nascita, negli ultimi anni, di nuovi soggetti e di nuove iniziative mediatiche di aggregazione (come il blog 27esimaora.corriere.it ).
Fra pochi giorni sarà reso noto non solo il Documento di economia e finanza (Def), ma anche il Programma nazionale di riforma (Pnr), che conterrà gli obiettivi strategici del governo per il prossimo anno. Ci sarà un’agenda donne, riconoscibile e adeguata? Non possiamo che augurarcelo. Puntare sull’occupazione femminile è uno dei pochi atout di cui disponiamo per tornare a crescere. Approfittiamone.
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