Caro direttore, i
documenti ufficiali del governo italiano e delle istituzioni europee
sottolineano l'urgenza di una svolta politica che abbia al centro il lavoro. Il
problema è che quando si passa alle proposte concrete tutto ricade in
provvedimenti parziali, aggiustamenti marginali. Si è deciso di usare il
cacciavite, come ha efficacemente scritto Dario Di Vico sul Corriere del 16
giugno per descrivere il «decreto del fare» del governo Letta e che vale anche
per le decisioni del Consiglio europeo di Bruxelles. Tutto giusto, certamente,
ma l'impressione è che siano assolutamente parziali, non tali, comunque, da
essere adatte ad imprimere quella svolta decisa richiesta dalla drammaticità
della situazione.
Il mantra della crescita,
recitato ormai in ogni consesso, è ormai diventato per l'appunto un mantra
senza conseguenze effettive. Il pericolo è che si coltivi la falsa illusione
che la ripresa della crescita porti con sé, automaticamente, l'aumento
dell'occupazione. Non è vero, e gli esempi statunitensi e anche di molte
economie emergenti dimostrano il contrario.
La metafora del cacciavite può indicare una strada giusta per tempi tutto sommato «normali». Si aggiustano macchine che hanno ancora potenzialità di funzionamento, ma non quelle che ormai hanno dato tutto quello che potevano dare, altrimenti si buttano via risorse per motori inefficienti a scapito degli investimenti necessari per l'innovazione e l'eccellenza, i veri campi sui quali impostare i programmi di ripresa. Anche qui, però, bisogna che sia chiara a tutti una cosa: le riforme su pubblica amministrazione, ammodernamento delle istituzioni, riduzione della burocrazia, liberalizzazioni dei servizi, sono indispensabili, ma hanno obbligatoriamente dei tempi medio-lunghi. Il lavoro è invece l'emergenza assoluta che abbiamo, che non può aspettare, pena il rischio per quell'equilibrio sociale che è invece indispensabile proprio per far sì che quelle riforme possano essere messe in atto.
È qui, dunque, che la classe dirigente nazionale deve dimostrare di essere all'altezza del proprio ruolo, magari mettendo finalmente mano ad un'azione drastica di abbattimento del debito, non con il «cacciavite», ma con la «ruspa» della cessione reale di asset pubblici, ma anche con proposte shock.
Provo ad avanzarne una: la creazione di un «Progetto Italia» per il lavoro, finanziato da una «tassa di scopo», una patrimoniale ad hoc, separata dal bilancio dello Stato, che vada a costituire una sorta di «Iri delle imprese sociali», per finanziare progetti innovativi nei settori quali la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, i beni ambientali, il turismo, le attività ad alto rilievo sociale.
Gli ultimi dati ufficiali indicano la ricchezza finanziaria privata del Paese in circa 3.300 miliardi. Propongo un prelievo straordinario dell'1% su tale ricchezza (o in alternativa un prestito forzoso di pari entità). Sono circa 30 miliardi da destinare esclusivamente alla nascita e allo sviluppo di imprese sociali nei campi sopra indicati.
Sarebbe una tassa con tre obiettivi precisi: 1) tassa per il lavoro - per l'immediata creazione di occupazione, con priorità rivolta ai giovani, ma non esclusivamente a loro; 2) tassa per lo sviluppo - la promozione di progetti innovativi di sviluppo nei settori che ho prima segnalato e che rappresentano un potenziale di creazione di valore aggiunto pressoché unico nel mondo; 3) tassa per la ricchezza (non sulla ricchezza) - è un ossimoro apparente, perché fatto cento il valore della ricchezza finanziaria individuata, quell'un per cento di prelievo sarebbe non un impoverimento della stessa, bensì un suo incremento, qualitativo ma anche quantitativo. La nascita di imprese sociali innovative, infatti, creando lavoro e sviluppo, contribuirebbero a reinserire quel 99% di ricchezza finanziaria restante in un quadro di crescita generale che ne accrescerebbe il valore.
Ci sono ormai molteplici studi ed esperienze che illustrano come l'impresa sociale sia un modello di business efficace e che può contribuire concretamente al rilancio di economie in crisi strutturali.
Per avviare il «Progetto Italia» è necessario uno sforzo di responsabilità collettiva delle classi dirigenti, politiche e non, per costituire una governance adeguata. Penso ad una struttura il più possibile agile, sotto l'egida del Presidente della Repubblica, alle dirette dipendenze del premier e con la partecipazione della Banca d'Italia e delle parti sociali.
I componenti di tale struttura avranno due compiti immediati: 1) il monitoraggio delle esperienze esistenti nel campo dell'impresa sociale e delle attività legate alle nuove iniziative di welfare aziendale (già adesso sono molto numerose e in crescente sviluppo), individuando quelle a maggiore contenuto di innovazione e con migliori potenzialità; 2) l'individuazione, con l'aiuto delle Regioni e delle associazioni di categoria, dei settori prioritari nei quali avviare i primi progetti di impresa, coinvolgendo anche i patrimoni di conoscenze ed esperienze dei principali gruppi imprenditoriali nella responsabilità sociale.
L'avvio immediato del «Progetto Italia» avrà come conseguenza il ritorno all'attività di una serie di soggetti fino ad allora a carico esclusivo del sistema di ammortizzatori sociali e potrà fungere da volano per ulteriori iniziative. Non solo, progressivamente dovranno confluire nel suo finanziamento le risorse disponibili dal fondo sociale europeo e dalle Fondazioni (penso a quelle ingenti delle Fondazioni bancarie) in modo da ridurre progressivamente il peso della tassazione straordinaria, fino ad azzerarla in un tempo ipotizzabile in 5-7 anni.
Progetto velleitario? Forse, ma non voglio e non posso credere che, in tempi quali quelli attuali, con il rischio evocato da tutte le parti di rottura traumatica della coesione nazionale, le nostre classi dirigenti non sappiano trovare le risorse etiche, intellettuali e professionali che seppero esprimere, ottant'anni orsono, persone quali Beneduce, Menichella, Sinigaglia, Mattioli, Reiss e Rocca. I padri fondatori dell'Iri seppero costruire quel progetto in un contesto economico altrettanto drammatico. Oggi come allora le priorità sono chiare: le riforme sono tutte necessarie ma la prima urgenza è solo una: il lavoro.
Presidente di Intek Group Spa, la holding che controlla Kme (multinazionale dei semilavorati di rame e leghe di rame) e della Fondazione Dynamo
La metafora del cacciavite può indicare una strada giusta per tempi tutto sommato «normali». Si aggiustano macchine che hanno ancora potenzialità di funzionamento, ma non quelle che ormai hanno dato tutto quello che potevano dare, altrimenti si buttano via risorse per motori inefficienti a scapito degli investimenti necessari per l'innovazione e l'eccellenza, i veri campi sui quali impostare i programmi di ripresa. Anche qui, però, bisogna che sia chiara a tutti una cosa: le riforme su pubblica amministrazione, ammodernamento delle istituzioni, riduzione della burocrazia, liberalizzazioni dei servizi, sono indispensabili, ma hanno obbligatoriamente dei tempi medio-lunghi. Il lavoro è invece l'emergenza assoluta che abbiamo, che non può aspettare, pena il rischio per quell'equilibrio sociale che è invece indispensabile proprio per far sì che quelle riforme possano essere messe in atto.
È qui, dunque, che la classe dirigente nazionale deve dimostrare di essere all'altezza del proprio ruolo, magari mettendo finalmente mano ad un'azione drastica di abbattimento del debito, non con il «cacciavite», ma con la «ruspa» della cessione reale di asset pubblici, ma anche con proposte shock.
Provo ad avanzarne una: la creazione di un «Progetto Italia» per il lavoro, finanziato da una «tassa di scopo», una patrimoniale ad hoc, separata dal bilancio dello Stato, che vada a costituire una sorta di «Iri delle imprese sociali», per finanziare progetti innovativi nei settori quali la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, i beni ambientali, il turismo, le attività ad alto rilievo sociale.
Gli ultimi dati ufficiali indicano la ricchezza finanziaria privata del Paese in circa 3.300 miliardi. Propongo un prelievo straordinario dell'1% su tale ricchezza (o in alternativa un prestito forzoso di pari entità). Sono circa 30 miliardi da destinare esclusivamente alla nascita e allo sviluppo di imprese sociali nei campi sopra indicati.
Sarebbe una tassa con tre obiettivi precisi: 1) tassa per il lavoro - per l'immediata creazione di occupazione, con priorità rivolta ai giovani, ma non esclusivamente a loro; 2) tassa per lo sviluppo - la promozione di progetti innovativi di sviluppo nei settori che ho prima segnalato e che rappresentano un potenziale di creazione di valore aggiunto pressoché unico nel mondo; 3) tassa per la ricchezza (non sulla ricchezza) - è un ossimoro apparente, perché fatto cento il valore della ricchezza finanziaria individuata, quell'un per cento di prelievo sarebbe non un impoverimento della stessa, bensì un suo incremento, qualitativo ma anche quantitativo. La nascita di imprese sociali innovative, infatti, creando lavoro e sviluppo, contribuirebbero a reinserire quel 99% di ricchezza finanziaria restante in un quadro di crescita generale che ne accrescerebbe il valore.
Ci sono ormai molteplici studi ed esperienze che illustrano come l'impresa sociale sia un modello di business efficace e che può contribuire concretamente al rilancio di economie in crisi strutturali.
Per avviare il «Progetto Italia» è necessario uno sforzo di responsabilità collettiva delle classi dirigenti, politiche e non, per costituire una governance adeguata. Penso ad una struttura il più possibile agile, sotto l'egida del Presidente della Repubblica, alle dirette dipendenze del premier e con la partecipazione della Banca d'Italia e delle parti sociali.
I componenti di tale struttura avranno due compiti immediati: 1) il monitoraggio delle esperienze esistenti nel campo dell'impresa sociale e delle attività legate alle nuove iniziative di welfare aziendale (già adesso sono molto numerose e in crescente sviluppo), individuando quelle a maggiore contenuto di innovazione e con migliori potenzialità; 2) l'individuazione, con l'aiuto delle Regioni e delle associazioni di categoria, dei settori prioritari nei quali avviare i primi progetti di impresa, coinvolgendo anche i patrimoni di conoscenze ed esperienze dei principali gruppi imprenditoriali nella responsabilità sociale.
L'avvio immediato del «Progetto Italia» avrà come conseguenza il ritorno all'attività di una serie di soggetti fino ad allora a carico esclusivo del sistema di ammortizzatori sociali e potrà fungere da volano per ulteriori iniziative. Non solo, progressivamente dovranno confluire nel suo finanziamento le risorse disponibili dal fondo sociale europeo e dalle Fondazioni (penso a quelle ingenti delle Fondazioni bancarie) in modo da ridurre progressivamente il peso della tassazione straordinaria, fino ad azzerarla in un tempo ipotizzabile in 5-7 anni.
Progetto velleitario? Forse, ma non voglio e non posso credere che, in tempi quali quelli attuali, con il rischio evocato da tutte le parti di rottura traumatica della coesione nazionale, le nostre classi dirigenti non sappiano trovare le risorse etiche, intellettuali e professionali che seppero esprimere, ottant'anni orsono, persone quali Beneduce, Menichella, Sinigaglia, Mattioli, Reiss e Rocca. I padri fondatori dell'Iri seppero costruire quel progetto in un contesto economico altrettanto drammatico. Oggi come allora le priorità sono chiare: le riforme sono tutte necessarie ma la prima urgenza è solo una: il lavoro.
Presidente di Intek Group Spa, la holding che controlla Kme (multinazionale dei semilavorati di rame e leghe di rame) e della Fondazione Dynamo
1 commento:
Fortuna Volle che Italia ha una
Delle migliori costituzioni del
Mondo Rispettiamola come una cosa
"Sagra" leggiamola almeno Tre volte
al giorno.I signori del palazzo
imitano-Benebetto!à questo sì chè
Un Uomo.
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