È ormai evidente come l'attuale
sforzo di ristrutturazione della politica si orienti più ai suoi assetti
istituzionali che all'evoluzione della sua dimensione partitica. Siamo un po'
tutti speranzosi che i comitati di saggi portino frutti sostanziali sulla
configurazione futura dei pubblici poteri; che il metter mano ad alcune crisi
gravi (nel federalismo incompiuto come nella incerta revisione delle Province)
porti a una precisa ridefinizione del rapporto fra poteri centrali e poteri
periferici; che la fatica quotidiana delle larghe intese di governo possa
ridare funzionalità fisiologica alla dialettica delle parti in campo; che gli
stessi impegni europei ci aiutino a fare ordine nelle decisioni a forte carica
istituzionale, dal controllo della spesa al fiscal compact .
La politica sembra quindi volersi
rinnovare lavorando su percorsi istituzionali, mettendo in secondo piano la
revisione delle sue forme interne, cioè della sua dimensione partitica e delle
componenti a essa complementari, dall'associazionismo al movimentismo, alle
campagne d'opinione. Su questi aspetti c'è oggi il deserto, basta guardarsi
intorno e fare quattro semplici constatazioni: il movimentismo grillino non
riesce a tramutarsi in partito e rischia la disarticolazione; l'onda d'opinione
per Scelta civica non si consolida in partito e rischia la frammentazione; il
berlusconismo resta avventura personale e non si può prevedere se mai finirà
per essere partito; e il Pd è attraversato da diverse ambizioni, posizioni e
lotte. Le quattro componenti della attuale dialettica politica, in sintesi, non
sembrano in grado di ripensare il loro destino partitico; e non ricevono alcun
aiuto dalle sedi (le élite come i movimenti di base) tradizionalmente deputate
ad alimentare un'avventura partitica.
Fare partito per farne strumento della politica sembra oggi dannatamente difficile perché impone cinque scelte decisive. Anzitutto impone qualche aggettivo che dia un senso di condivisione e appartenenza. Non bastano i richiami botanici o stellari o civici, bisogna esprimere quel che si vuole: in fondo nei grandi partiti del passato erano gli aggettivi (comunista o democristiano) a dare l'indispensabile messaggio. In secondo luogo c'è bisogno di individuare il blocco sociale di riferimento: non basta una condivisione d'opinione, necessariamente volatile, bisogna capire di quali componenti sociali si vuole fare interpretazione politica e rappresentanza istituzionale. In terzo luogo serve almeno un'idea di «forma partito» (assembleare, federale, burocratico che si voglia) per sfuggire alle scorciatoie recentemente percorse (l'enfasi sulle primarie, rivelatesi poi prigioniere degli apparati). E da tale necessità ne discende un'altra, quella di definire regole certe e costanti nel tempo; perché senza di esse si naviga a vista e con spinte e controspinte di ogni tipo. E infine, quinta esigenza, c'è bisogno di un programma, magari non di un lungo elenco delle cose da fare, ma di interpretazione e orientamento dei fenomeni e dei processi che attraversano la società italiana in questo momento di intensa e contraddittoria globalizzazione.
Nessuna delle forze politiche oggi in campo si è seriamente esercitata su queste cinque esigenze, e le conseguenze si vedono, così come si vedono le paure di potenziale caos disgregativo. Forse uno sforzo di ripensamento va fatto, magari in parallelo alle revisioni istituzionali oggi di maggior moda.
Fare partito per farne strumento della politica sembra oggi dannatamente difficile perché impone cinque scelte decisive. Anzitutto impone qualche aggettivo che dia un senso di condivisione e appartenenza. Non bastano i richiami botanici o stellari o civici, bisogna esprimere quel che si vuole: in fondo nei grandi partiti del passato erano gli aggettivi (comunista o democristiano) a dare l'indispensabile messaggio. In secondo luogo c'è bisogno di individuare il blocco sociale di riferimento: non basta una condivisione d'opinione, necessariamente volatile, bisogna capire di quali componenti sociali si vuole fare interpretazione politica e rappresentanza istituzionale. In terzo luogo serve almeno un'idea di «forma partito» (assembleare, federale, burocratico che si voglia) per sfuggire alle scorciatoie recentemente percorse (l'enfasi sulle primarie, rivelatesi poi prigioniere degli apparati). E da tale necessità ne discende un'altra, quella di definire regole certe e costanti nel tempo; perché senza di esse si naviga a vista e con spinte e controspinte di ogni tipo. E infine, quinta esigenza, c'è bisogno di un programma, magari non di un lungo elenco delle cose da fare, ma di interpretazione e orientamento dei fenomeni e dei processi che attraversano la società italiana in questo momento di intensa e contraddittoria globalizzazione.
Nessuna delle forze politiche oggi in campo si è seriamente esercitata su queste cinque esigenze, e le conseguenze si vedono, così come si vedono le paure di potenziale caos disgregativo. Forse uno sforzo di ripensamento va fatto, magari in parallelo alle revisioni istituzionali oggi di maggior moda.
Nessun commento:
Posta un commento