martedì 13 novembre 2012

Big data: dai dati all’informazioni

Articolo di Enrico Grazzini pubblicato sul Corriere Economia il 12 novembre 2012
Per molti contribuenti è stata una (brutta) sorpresa vedersi recapitare nelle ultime settimane dall'Agenzia delle Entrate, una letterina non proprio piacevole: la comunicazione indica, infatti, che le spese effettuate non sono apparentemente giustificate dal livello di reddito dichiarato.
L'onda
Questa è solo una delle innumerevoli applicazioni del Big Data, la nuova tecnologia che riesce a elaborare anche centinaia di miliardi di dati provenienti da diverse fonti e che è diventata la nuova frontiera dell'informatica. La mole di informazioni a disposizione è immensa: un recente studio di McKinsey riporta che le imprese con oltre 1.000 dipendenti in 15 settori su 17 hanno nei loro archivi più informazioni della colossale libreria del Congresso degli Stati Uniti. Anche se i dati interni ed esterni alle aziende possono diventare la nuova miniera d'oro del business, non sono ancora molte le imprese in grado di gestirli. «Il 90% dei dati attualmente disponibile non esisteva due anni fa ? afferma Marco Icardi, amministratore delegato di Sas Institute, gigante americano della business intelligence ?. I dati stanno esplodendo ma hanno valore solo se vengono interpretati bene. Con il Big Data è possibile scoprire correlazioni nascoste e comprendere fenomeni che altrimenti sarebbe impossibile interpretare». Idc stima che i dati cresceranno del 50% all'anno e che il 95% dei nuovi dati non saranno strutturati ma passeranno dalla rete.«La tecnologia Big Data sta conoscendo un salto di qualità ? continua Icardi -. Ormai il Big Data è capace di analizzare le chiacchiere dei social network e dei blog, ed è in grado non solo di fare statistiche ma di capire anche il significato delle informazioni». Secondo Morgan Stanley nei prossimi tre anni gli enti pubblici e le imprese spenderanno 150 miliardi di dollari per la gestione dei dati.
Privacy
Spesso l'uso dei Big Data non è pubblicizzato per non risvegliare timori sulla privacy, ma queste tecniche sono sempre più utilizzate dalle grandi aziende in tutti i settori: nel marketing, nella finanza per il risk management, nel comparto della sicurezza e dell'intelligence, nella sanità e nella ricerca scientifica, nella logistica, nell'ottimizzazione dei processi aziendali, nelle previsioni di vendita e dei consumi, nell'individuazione delle frodi in tempo reale. Sogei non è, quindi, certamente l'unica: Istat, Inps, Enel, le grandi banche e le catene della grande distribuzione, stanno utilizzando le tecnologie più avanzate per elaborare miliardi di dati di diversa provenienza. CartaSi, il gestore delle carte di credito, rileva per esempio automaticamente comportamenti anomali di spesa e invia immediatamente ai titolari degli avvisi via sms per verificare se le carte sono state smarrite o rubate. Telepass in tre anni ha ridotto del 90% i mancati pagamenti. BTicino monitora in Rete il sentiment dei clienti.
Reti
Enel utilizza il Big Data nel trading. «Operiamo in diversi mercati: emissioni di CO2, energia e gas internazionale, derivati da petrolio, carbone e servizi di nolo ? - spiega Filippo Casertano di Enel Trade -. Prima dell'utilizzo dei Big Data ogni mercato era analizzato separatamente e non erano possibili elaborazioni avanzate sul rischio di trading. Attualmente gestiamo invece i diversi portafogli in maniera integrata e forniamo al top management gli indicatori con i risultati economici e i rischi correnti per guidare le scelte strategiche». Tutti i giganti dell'informatica, come Apple, eBay, Facebook, Google, rilevano in tempo reale quello che accade in Rete. Amazon è in grado di offrire immediatamente dei suggerimenti di acquisto ai suoi visitatori analizzando i comportamenti di milioni di persone online. I gestori mobili, come Tim, Vodafone e Poste mobile analizzano milioni di informazioni sui comportamenti dei loro clienti per mirare le campagne di marketing. Il Comune di Torino usa i Big Data per fornire ai responsabili della sicurezza e ai vertici politici il monitoraggio dinamico dei territori e la percezione che i cittadini hanno sulla sicurezza nelle diverse zone urbane. «L'integrazione dei dati isolati nelle diverse funzioni amministrative con i dati esterni al Comune provenienti da Prefettura, Questura, Guardia di Finanza e da altre istituzioni, fornisce una visione immediata del territorio consentendo analisi prima impossibili ? spiega Mario Sechi, responsabile del progetto ?. È possibile estrarre informazioni da oltre tremila microzone della città con i dati storici e quelli aggiornati all'ultimo giorno».

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domenica 11 novembre 2012

Crescita e disuguaglianza

Articolo di Roger Abravanel pubblicato sul Corriere della Sera il 10 novembre 2012
Nel mondo inizia il sesto anno di crisi economica e si accende il dibattito sulla disuguaglianza. In realtà è da 20 anni che la disuguaglianza cresce, ma la crisi ha innescato la protesta sociale: un conto è arricchirsi meno degli altri quando l'economia va bene, un altro è diventare più poveri mentre i ricchi accrescono il loro benessere. Oggi il grande dilemma della maggioranza dei leader politici nel mondo è come ridurre la disuguaglianza senza penalizzare la crescita.
In Italia, invece, quasi nessuno si lamenta ancora del nostro elevatissimo livello di disuguaglianza, anch'esso di lunga data. Da sempre l'indice Gini in Italia (misura il divario tra i più ricchi e i più poveri) è tra i maggiori d'Europa: è al livello della iperliberista Inghilterra e vicino a quello degli Usa, molto più alto di quello di altri Paesi europei, come la Germania o i Paesi scandinavi.
Anche la mobilità sociale, ovvero la possibilità per i figli di genitori poveri di raggiungere un reddito alto, in Italia è bassa. Siamo a livello degli Usa, ma con caratteristiche diverse: in America il gruppo dei super-ricchi (il top 1% dei redditi) è sempre più costituito da manager e professionisti, e sempre meno da imprenditori. Il reddito in queste carriere dipende dalle scuole che si frequentano, i professionisti più ricchi spesso si sposano tra di loro e possono mandare a loro volta i figli nelle scuole più care. Questa è la causa principale della riduzione della mobilità sociale in Usa negli ultimi vent'anni.
La mobilità sociale italiana è bassa da sempre, ma per un'altra ragione: perché i figli dei ricchi ereditano l'azienda e le proprietà del padre. Nel nostro Paese non solo i poveri sono sempre stati molto più poveri, ma non hanno mai avuto molte possibilità di diventare ricchi, come invece avviene negli Usa grazie alle borse di studio per le migliori Università.
Peraltro il nostro welfare non è certo costato poco: oggi, in rapporto al Pil, è a livelli scandinavi, ovvero delle società che hanno la più bassa disuguaglianza e la maggiore mobilità sociale. Questi Paesi hanno trasformato negli anni il loro stato assistenziale in un welfare in grado di creare opportunità per ogni cittadino senza falsare le regole di mercato per sostenere la crescita dell'economia. Per esempio il sussidio di disoccupazione termina se il lavoratore non si attiva seriamente per rioccuparsi, mentre lo Stato lo aiuta a imparare un altro mestiere e a trovare un lavoro diverso. La disuguaglianza sociale in Italia è quindi un problema enorme. Tuttavia se ne parla poco: sorprende soprattutto il disinteresse delle sinistre. Prendiamo uno degli slogan lanciati proprio dalla sinistra in questi mesi di crisi: «tassare i ricchi». Aumentare le tasse per pagare il welfare dei poveri? No, farle salire per far «pagare il costo della crisi ai ricchi». Di dare soldi ai poveri, se ne parla poco. Del resto il nostro welfare non protegge i più poveri, i giovani e le donne: difende piuttosto i capofamiglia maschi, ai quali garantisce il posto di lavoro e una pensione prima di tutti gli altri Paesi.
Quando la sinistra parla di «politiche per la crisi», parla sempre e solo di «difesa»: difesa del posto di lavoro, difesa delle pensioni, difesa dei diritti. Non di creazione di opportunità, se non in termini generici e vaghi. Questo linguaggio è figlio di un'impostazione conservatrice e anti-capitalista, che pone la sinistra italiana (e buona parte del Paese) su un pianeta ideologico arretrato rispetto alle altre nazioni occidentali. Nel «pianeta Italia» la disuguaglianza viene oggi affrontata basandosi su principi quasi feudali. Non è l'impresa che crea benessere, ma il lavoro (art. 1 della Costituzione). Il lavoro esiste indipendentemente dal capitale, dall'impresa, dal consumo. Interessa poco il fatto che senza imprese e consumatori che comprano i loro prodotti non ci sono lavoratori. Il lavoro, inteso come posto di lavoro, è un diritto inalienabile dell'uomo, come la vita. Corollario: tutti i posti di lavoro vanno difesi. Dunque se sei fortunato e vai in pensione quando sei ancora molto giovane, è un tuo diritto. Lavori in miniera nel Sulcis? Un altro diritto che va difeso, anche se difenderlo costa dieci volte il tuo stipendio. Inoltre, come la vita, il lavoro di chi oggi ha un impiego è un bene molto più importante dell'occupazione potenziale di chi un lavoro non ce l'ha. In un ospedale, i vivi hanno la precedenza sui morti. È lo stesso atteggiamento del sindacato, di fronte a occupati e disoccupati. È così che si crea l'«apartheid» di cui parla Pietro Ichino tra i dodici milioni di intoccabili (assunti a tempo indeterminato) e i nove milioni di «precari» e dipendenti delle piccole imprese.
La sinistra italiana non ha capito che è il mercato a creare il lavoro e che il compito dello Stato non è dichiarare che lo status quo è un diritto e congelarlo, ma diminuire la disuguaglianza di opportunità favorendo meritocrazia, concorrenza, scuola di qualità. Se il centrodestra è sempre stato il protettore dei grandi privilegi, la sinistra si è trasformata in protettrice di quelli piccoli. La soluzione per ridurre la disuguaglianza da noi è quella che serve anche a fare ripartire la crescita: rule of law (ovvero quel rispetto delle regole senza il quale non nascono regole giuste necessarie al libero mercato); e una «vera» meritocrazia, intesa come ricerca della competizione, non come semplice riduzione delle raccomandazioni.
La sinistra si pone come alternativa a una destra incapace di fare nascere questi valori negli ultimi 25-30 anni. Ma riuscirà a superare quei tabù che l'hanno resa un alleato della destra per creare il Paese più disuguale del mondo occidentale?

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venerdì 9 novembre 2012

Federico Testa contro il caro bolletta

Stralcio dell’articolo "Caro-bolletta e (assenza di) strategia energetica nazionale: le implicazioni e qualche ipotesi di soluzione" di Federico Testa* pubblicato su Management delle Utilities, n. 2, 2012
Nella primo paragrafo dell’articolo Federico Testa specifica le cause che hanno portato al caro bolletta e nel secondo individua tra le cause l’assenza di una seria politica energetica.
All’origine del caro bolletta
“La bolletta energetica per le aziende e le famiglie italiane è sempre più cara, con gravi ripercussioni sulla competitività del sistema delle imprese e sui livelli di vita delle persone. ……….....
Nel terzo paragrafo che si riporta integralmente vengono indicati i possibili interventi da realizzare.
Cosa fare a questo punto?
Senza alcuna pretesa di esaustività e completezza, si vogliono di seguito elencare alcuni possibili “filoni di intervento” su cui stimolare la riflessione e le decisioni, in un quadro organico che il Paese aspetta da troppo tempo:
• è urgente aprire una discussione su cosa va in bolletta e cosa va in tassazione generale (evidentemente situazione economica permettendo): voci come i regimi tariffari speciali per le ferrovie od altre di natura più generica andrebbero infatti spostate a carico del bilancio dello Stato. Ma non diversamente bisognerebbe affrontare il nodo della “tassa sulla tassa”, che caratterizza ad esempio il gas metano, per il quale è prevista il calcolo dell’IVA sulle accise, che procura allo Stato un extra gettito di oltre il 6% (costituendo l’accisa circa il 30% del totale imponibile comprendendo anche l’addizionale regionale in favore delle regioni che la richiedono). La tassazione diventa ancor più odiosa per tutte le situazioni di morosità del cliente finale, in cui l’impresa di vendita pur non recuperando gli importi dovuti, è tenuta al versamento del tributo, senza possibilità di rivalsa;
• conseguentemente, decidere chi paga e chi no in bolletta. Si tratta di rimettere mano agli attuali schemi di incentivazione attivando un percorso logico corretto, che preveda innanzitutto l’individuazione delle priorità di politica industriale per il Paese (quali settori di base, energivori e non, rilevanti per la competitività di sistema, nonché settori particolarmente esposti a concorrenza internazionale), a cui concedere le agevolazioni, con una selezione di merito che abbia quindi alla base le scelte prospettiche strategiche, superando gli attuali criteri troppo spesso meramente quantitativi;
• chiedere ai produttori di energia rinnovabile di farsi carico degli oneri di bilanciamento del sistema, dotandosi (singolarmente, in forma associata o pagando terzi) delle necessarie strutture di accumulo, così da fornire l’energia con continuità e prevedibilità nell’arco delle 24h.
Accumuli che se invece predisposti da Terna o Enel Distribuzione finirebbero necessariamente in bolletta, e quindi pagati ancora una volta prevalentemente da famiglie e pmi;
• spingere sullo sviluppo della generazione distribuita ad alta efficienza (così da minimizzare i costi di produzione), individuando un nuovo paradigma di sistema elettrico che superi il modello di produzione accentrata ed i conseguenti costi in infrastrutture, consentendo progressivamente di ridurre i costi di trasporto, dispacciamento e bilanciamento. In questo senso, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (segnalazione AS898) ha, tra l’altro, rappresentato recentemente che “il mancato sviluppo di reti private – a servizio non solo di imprese industriali, ma anche commerciali e di servizi, come previsto dall’articolo 28 della Direttiva 2009/72/CE – si potrebbe tradurre da un lato in una riduzione delle opportunità di crescita per la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile e in cogenerazione ad alto rendimento – che quindi sarebbero limitate ai sistemi di auto-approvvigionamento e agli impianti che immettono l’energia prodotta nella rete pubblica – e, dall’altro lato, in una minore concorrenza nei confronti dei gestori delle reti pubbliche di trasmissione e di distribuzione e, indirettamente, ai proprietari dei grandi impianti di generazione che immettono l’energia prodotta nella rete pubblica. Per quanto riguarda i gestori delle reti pubbliche di trasmissione e di distribuzione, infatti, essendo i loro ricavi proporzionali all’energia che transita su tali reti, la minaccia di una riduzione di domanda a causa dello sviluppo dei Sistemi di Distribuzione Chiusi costituisce un potente incentivo ad una efficiente gestione di tali reti pubbliche, al fine di ridurre gli oneri di trasmissione e dispacciamento e quindi la convenienza ad adottare soluzioni impiantistiche basate su reti private”. Tale posizione induce a ritenere che la mancata corresponsione delle tariffe di rete da parte degli utenti appartenenti ai sistemi di utenza non si debba tradurre per forza in un aumento delle tariffe di rete per gli utenti esterni ai sistemi di utenza in quanto tale mancato gettito potrebbe/dovrebbe rimanere in capo ai gestori delle reti e costituire un driver per i medesimi gestori di rete all’efficientamento delle proprie attività senza alcun costo aggiuntivo in bolletta e per il consumatore finale sia esso domestico o industriale;
• accelerare gli investimenti di interconnessione con gli altri Paesi europei, al fine di valorizzarne le peculiarità del mix produttivo e di conseguenza anche l’efficienza e la flessibilità del nostro parco di cicli combinati, che ben si presta a modulare le produzioni più rigide di altri Paesi. È davvero impossibile pensare di costruire una politica energetica che superi il livello nazionale, per integrare i sistemi energetici continentali e per realizzare l’interconnessione dell’intero spazio mediterraneo (anche Nord Africa per intercettare gli impianti del futuro progetto Desertec, se verrà effettivamente realizzato a costi competitivi)? Questo permetterebbe di effettuare una “divisione del lavoro” tra i vari Paesi, che valorizzi specificità, competenze, storie industriali, ad esempio concentrando l’eolico nel Nord Europa, dove i venti sono forti e costanti, ed i fondali bassi per l’off-shore, utilizzando il carbone tedesco, così come il nucleare francese, per fare la produzione di base (base load) per tutta l’Europa, ed i cicli combinati italiani per la modulazione dell’offerta. Quest’ipotesi, affascinante, ha però biso¬gno della costruzione di un siste¬ma europeo che superi gli egoismi nazionali e la logica per cui ogni Paese deve avere un suo campione nazionale, e di investimenti importantissimi nelle reti di trasmissione, nazionali e transnazionali, che superino i colli di bottiglia esistenti, che nascono dalla storia e dalle logiche nazionali, ma sono anche funzionali – dobbiamo saperlo – ad arbitraggi e rendite di posizione dei vari produttori (spesso proprio i “campioni nazionali”).
Si tratta quindi, in sostanza, di riprendere in mano assetti, equilibri, rendite di posizione, facendo lo sforzo di individuare un modello sostenibile per gli anni a venire, là dove la sostenibilità sia interpretata nella sua accezione ambientale ma anche economica, così da consentire il mantenimento e – se possibile lo sviluppo – di una presenza industriale qualificata nel nostro Paese, in coerenza con la sua storia. Il Governo Monti ha di recente dimostrato di voler “prendere per le corna” il tema della liberalizzazione dell’ap¬provvigionamento del gas (attraverso la separazione proprietaria di Snam da Eni), forse la “partita elettrica” potrebbe essere la prossima sfida. È l’auspicio di chi scrive.
* Federico Testa è Professore di Economia e gestione delle imprese all’Università degli Studi di Verona, componente della Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati e responsabile Energia del PD

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martedì 6 novembre 2012

Pietro Ichino: ragioni e genesi della riforma Fornero

La nostra vecchia disciplina dei licenziamenti non era ‘la’ causa della crisi; ma era una delle tante concause della debolezza del sistema economico italiano. Innanzitutto perché era la causa prima del dualismo del mercato del lavoro, che costituisce un fattore grave di inefficienza e di opacità, quindi di chiusura agli investimenti stranieri; dualismo che, in un periodo di crisi grave come questo, era destinato ad aggravarsi: gli imprenditori sono tanto più riluttanti ad assumere con contratto di lavoro regolare a tempo indeterminato, quanto più è rigida la protezione della stabilità dei lavoratori regolari e quanto maggiore è l’incertezza circa il futuro prossimo.
Un altro effetto negativo dell’articolo 18 consisteva nel rallentamento dei processi di aggiustamento industriale, che generava un costo rilevante per le nostre imprese, pari all’entità delle retribuzioni dei lavoratori eccedentari, moltiplicata per il ritardo con cui esse potevano ottenere la cessazione dei relativi rapporti. Quella norma, poi, costituiva uno degli elementi essenziali di un sistema di protezione della sicurezza economica e professionale fondato su di un legame pressoché indissolubile tra il lavoratore e l’impresa datrice di lavoro: con la conseguenza che, quando l’impresa stessa entrava in crisi, la sola cosa che eravamo capaci di fare era di prolungare il più possibile il rapporto di lavoro, magari fingendo che esistesse qualche possibilità di ripresa del lavoro nell’azienda, ma in realtà tenendo il lavoratore in Cassa integrazione o ‘in mobilità’ per anni e anni. È il modo sbagliato di affrontare le crisi occupazionali di cui si è tanto parlato in questi anni. Soprattutto in un momento di crisi, invece, il sistema deve essere in grado di favorire il rapido trasferimento dei lavoratori dalle imprese che chiudono o si contraggono a quelle in espansione.
Nonostante il dibattito un po’ fumogeno che ha accompagnato la gestazione della legge Fornero, anche le imprese hanno capito subito che essa avrebbe reso più fluido il sistema, se è vero che nei due o tre mesi che hanno preceduto l’entrata in vigore di questa nuova legge si è registrata una contrazione dei licenziamenti: evidentemente le aziende, dove hanno potuto, hanno preferito collocare il provvedimento nel nuovo regime. Certo, se fosse passata la proposta iniziale del Governo e le parti contrapposte non avessero fatto tutto il possibile per annacquarla, il cambiamento in questa direzione sarebbe stato più incisivo. E anche il contrasto al lavoro precario sarebbe stato più efficace. Ma, pur con tutti i limiti e i condizionamenti che sono stati imposti all’iniziativa legislativa del Governo, con questa legge si è fatto un passo avanti importante nella direzione giusta.
Sperimentare la flexsecurity
Un’idea che riecheggiava da vicino il mio progetto flexsecurity era stata proposta dal ministro Fornero in un primo tempo, tra gennaio e febbraio, per una possibile sperimentazione nelle imprese che si fossero rese disponibili per questo, nel quadro di accordi-quadro regionali. Era una proposta molto sensata, anche perché la sperimentazione del nuovo ordinamento e della nuova strumentazione in aree limitate, e solo per rapporti di lavoro costituiti da qui in avanti, avrebbe consentito al Governo di dedicare all’esperimento risorse in proporzione molto maggiori. Se, poi, la sperimentazione avesse dato esiti positivi, essa avrebbe potuto gradualmente espandersi in modo spontaneo, preparando il terreno per una riforma organica di portata generale nell’arco di pochi anni.
Le cose sono andate così. Alla fine di gennaio il ministro del Lavoro ha presentato alle parti sociali l’abbozzo di un progetto che prevedeva la sperimentazione, destinata a svolgersi nelle regioni dove fossero stati stipulati appositi accordi-quadro, di un nuovo regime ispirato ai principi della flexsecurity, applicabile alle nuove assunzioni nelle imprese interessate alla sperimentazione stessa: si pensava soprattutto a investimenti esteri, nuovi insediamenti, nuovi piani industriali. Questo avrebbe consentito, per un verso, di mettere a frutto la disponibilità, spontaneamente manifestata dalle Regioni e dalle imprese interessate, a farsi carico di rilevanti oneri per il sostegno del reddito e per l’assistenza intensiva – mediante l’ingaggio delle migliori agenzie di outplacement – ai lavoratori che sarebbero stati licenziati in un futuro non immediatamente prossimo; per altro verso avrebbe consentito di sperimentare un nuovo diritto del lavoro semplificato, emancipato dalla mediazione necessaria di funzionari, sindacalisti, consulenti del lavoro, avvocati. Il riferimento, in quella fase, era al testo unico in 70 articoli proposto nel mio disegno di legge n. 1873/2009: quel progetto non avrebbe innescato le ansie e le tensioni che sono invece inevitabilmente prodotte da una riforma che riguardi anche i rapporti di lavoro regolari già in essere; e non avrebbe richiesto pertanto i compromessi altrimenti necessari per superare quelle tensioni. Tra i pregi di questa soluzione ci sarebbe stato anche quello di consentire che i nuovi ammortizzatori sociali – trattamento di disoccupazione e assistenza intensiva ai lavoratori che perdono il posto – potessero essere costruiti con la necessaria gradualità; e di evitare una riduzione del grado di stabilità dei rapporti di lavoro esistenti, in un periodo come quello attuale di grave recessione, facendo sì che la nuova disciplina dei licenziamenti incominciasse gradualmente a essere sperimentata negli anni a venire, via via che la necessità del recesso si fosse presentata nei nuovi rapporti costituiti da qui in avanti.
La vera opposizione veniva dagli ambienti sindacali. A questo primo progetto una delle confederazioni maggiori, la Cisl, ne ha contrapposto – in via ufficiosa e riservata, in un primo tempo – uno drasticamente alternativo: quello di una modifica un po’ meno incisiva dell’articolo 18 dello Statuto del 1970, ma con effetti estesi a tutti i rapporti di lavoro, anche a quelli già in essere.
La proposta avanzata in quella fase della trattativa dalla Cisl – dovuta, credo, soprattutto all’elaborazione di Tiziano Treu – può riassumersi così: attrazione della materia del licenziamento individuale per motivo oggettivo nell’area di applicazione della disciplina del licenziamento collettivo, con predisposizione di una procedura di esame congiunto in sede sindacale adeguatamente ridotta; modifica dell’articolo 18, con attribuzione al giudice, nel caso di giudizio negativo circa la validità del licenziamento, della facoltà di condannare il datore di lavoro alla reintegrazione, oppure al solo indennizzo, secondo il modello tedesco.
La Cgil non era d’accordo, ovviamente; ma tutto sommato preferiva questa proposta della Cisl a quella della sperimentazione di un ordinamento molto più semplice e più radicalmente innovativo, quale quello delineato nel mio ‘progetto flexsecurity’. In quei giorni ne discussi proprio con un alto dirigente della Cgil che invece simpatizzava per l’idea della sperimentazione del mio progetto. Alla domanda sul perché della preferenza tacitamente espressa dalla Cgil per la proposta avanzata dalla Cisl, mi rispose: “Hanno paura che la sperimentazione riesca, dia esiti positivi: a quel punto l’intero vecchio sistema protettivo diventerebbe politicamente indifendibile, e l’apparato sindacale perderebbe una parte importante delle proprie funzioni e prerogative”.
Fatto sta che il Governo ci ha riflettuto sopra per una settimana, ha registrato il sostanziale consenso di Confindustria e ha quindi sostanzialmente accolto la proposta della Cisl come base sulla quale proseguire la trattativa. Questo ha fatto sì che verso la metà di febbraio il fuoco del confronto politico-sindacale si sia spostato su di un progetto molto più ambizioso quanto all’ampiezza del campo immediato di applicazione, ma più limitato quanto alla portata innovativa sul sistema di protezione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori dipendenti.
In questo modo è stato contraddetto l’intendimento enunciato da Monti nel suo discorso programmatico, nel senso di riferire la riforma della materia dei licenziamenti soltanto ai nuovi rapporti di lavoro e non ai vecchi. Ma questo, curiosamente, è avvenuto a seguito di una proposta venuta da una delle confederazioni sindacali maggiori e con il consenso dell’associazione degli industriali: è difficile, dunque, contestare al Governo questa incoerenza rispetto al programma iniziale. Forse quelle organizzazioni hanno ritenuto più facile controllare i contenuti della riforma in questo modo, rispetto all’ipotesi di una sperimentazione più incisiva ma in ambito più limitato, rispetto alla quale hanno temuto di poter essere tagliate fuori.
Quello che è certo è che in quelle settimane la parola ‘sperimentazione’ generava più apprensione che non la menzione del grande tabù, la riforma dell’articolo 18.
Nell’ultima settimana di marzo la pressione esercitata sul Governo dall’ala sinistra della sua maggioranza ha portato a una significativa riduzione della portata innovativa della riscrittura dell’articolo 18. E questo, a sua volta, ha poi comportato l’accoglimento della richiesta dell’ala destra, di un rinvio dell’entrata in vigore delle norme in materia di collaborazioni autonome e di una riduzione dell’incisività delle norme in materia di contratti a termine. Rimane, comunque, un rilevante sfrondamento dei tipi contrattuali diversi da quello normale a tempo indeterminato.
Una riforma per contrastare il dualismo del nostro tessuto produttivo
Sul terreno della semplificazione e dell’innovazione nel linguaggio legislativo, purtroppo non mi sembra che la legge Fornero dia alcun contributo positivo. Su quello dell’armonizzazione europea e della razionalizzazione dell’ordinamento, invece, il contributo è notevole. Nonostante la ‘riduzione bilanciata’ di incisività della riforma sui suoi due versanti – quello della disciplina dei licenziamenti e quello del contrasto al precariato – e l’insufficienza del suo contenuto per quel che riguarda i servizi nel mercato, resta il fatto che per la prima volta essa affronta i nodi centrali del nostro diritto del lavoro, dopo quarant’anni nei quali quasi tutti gli interventi legislativi si sono limitati a intervenire al margine, sui rapporti di lavoro periferici. Per la prima volta la legge Fornero affronta concretamente la questione del dualismo del nostro tessuto produttivo, cioè dell’apartheid fra protetti e non protetti; e lo fa accogliendo, almeno in parte, un’idea che è frutto della mia elaborazione e delle mie proposte: quella secondo cui la situazione di ‘dipendenza’ che giustifica la protezione inderogabile è individuata dagli elementi della continuità del rapporto, dalla monocommittenza e dal livello di reddito medio-basso (questo concetto di ‘dipendenza’ è destinato ad assumere un’importanza notevole nel nostro diritto del lavoro, sul piano sistematico). Per la prima volta questa legge – pur conservando all’Italia la posizione di testa nella graduatoria dei Paesi più protettivi – si propone di superare l’anomalia della nostra disciplina dei licenziamenti rispetto al resto degli ordinamenti europei, costituita dall’automatismo della reintegrazione nel posto di lavoro in ogni caso in cui il giudice ravvisi anche il minimo difetto formale o sostanziale nell’atto di recesso dell’imprenditore. Dopo quindici anni nei quali si è parlato molto della riforma e universalizzazione degli ammortizzatori sociali senza combinare nulla, per la prima volta questa legge compie infine un passo concreto molto importante nella direzione giusta, istituendo un’unica assicurazione contro la disoccupazione, uguale per tutti i lavoratori dipendenti, e riconducendo la Cassa integrazione guadagni alla sua funzione originaria: quella di tenere i lavoratori legati all’impresa nelle situazioni di difficoltà temporanea, per evitare la dispersione di professionalità quando vi è la ragionevole prospettiva della ripresa del lavoro nella stessa impresa.
In materia di licenziamenti la nuova norma porta un cambio di regime molto rilevante, che elimina un’anomalia del nostro ordinamento rispetto al resto d’Europa: in sostanza passiamo da un regime centrato come regola generale su di una property rule (che sostanzialmente garantisce una inamovibilità del lavoratore senza il suo consenso, salve le situazioni di sua colpa gravissima, o le situazioni prefallimentari), a un regime centrato su di una liability rule, cioè su di una regola generale di responsabilizzazione economica dell’impresa nei confronti del lavoratore che perde il posto. Ora è importante che questo cambiamento di regime avvenga in modo sereno, senza incertezze e soprattutto senza lasciar intravvedere prospettive di possibile ritorno indietro. Altrimenti correremmo il rischio di rimanere in mezzo al guado più dello stretto necessario, generando sfiducia da parte degli imprenditori circa l’effettività e affidabilità del mutamento di equilibrio che stiamo perseguendo e così privandoci dei vantaggi di questa operazione in termini di maggiore propensione degli imprenditori stessi a investire nel nostro Paese e ad assumere i propri dipendenti a tempo indeterminato, quindi anche in termini di riassorbimento del lavoro precario nell’area del lavoro regolare. Solitamente non brilliamo per capacità di valorizzare le nostre scelte di governo facendo su di esse gioco di squadra, facendo prevalere l’interesse del Paese su quelli di parte. Ma in diverse occasioni si è visto che sappiamo dare il meglio nei momenti di massimo pericolo. E Dio sa quanto quello attuale lo sia.

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domenica 4 novembre 2012

Smart city per migliorare le città

Per descrivere le città più innovative, non basta l'aggettivo «moderne». Perché l'uso della tecnologia di ultima generazione le trasforma in «intelligenti». All'inglese, smart city.
Sensori e dispositivi collegati in Rete raccolgono dati sui centri urbani, ossia informazioni che diventano disponibili al computer in tempo reale, dal traffico al consumo di energia, dalla telemedicina ai servizi online al cittadino, dal telelavoro alle soluzioni eco-friendly, giusto per fare qualche esempio. A questo punto l'elaborazione online dei dati permette di prendere decisioni per razionalizzare la gestione pubblica (e privata).
Gap
Con un risultato: il risparmio di risorse e il miglioramento della vita per gli abitanti. Ma pochi italiani sanno che cosa sono le smart city: uno su quattro ha un'idea sull'argomento, magari con qualche confusione, mentre il 78% della popolazione non ne ha mai sentito parlare, come indica un rapporto Abb/The European Huose Ambrosetti. Eppure il tema si trova spesso all'ordine del giorno, soprattutto negli uffici delle aziende e delle pubbliche amministrazioni, oggi impegnate a snellire operazioni e pratiche, evitando gli sprechi. Senza contare le discussioni e le domande sui social network. «Non ci devono essere differenze tra cittadini informati, di serie A, e quelli di serie B ? spiega Antonio De Bellis, responsabile smart grid regione mediterranea di Abb ?. Bisogna programmare una sorta di "alfabetizzazione" all'uso delle tecnologie per rendere questi strumenti accessibili a tutti». Forse non se ne parla abbastanza? «Carta stampata e social media danno visibilità alla materia con una certa continuità ? sottolinea il manager Abb ?. La televisione, che ha un effetto più dirompente e arriva in tutte le case, è un pò indietro».
A livello concreto, qualcosa cambia per il cittadino della smart city. «Immaginiamo di entrare in farmacia e "strisciare" la carta sanitaria per avere subito il farmaco, senza passare dal medico ? precisa De Bellis ? perché la prescrizione è online. Quanto tempo abbiamo guadagnato se non siamo andati a ritirare la ricetta cartacea? E quanto tempo guadagniamo se richiediamo la carta d'identità e altri documenti attraverso il web e non facendo la fila agli sportelli? Un aumento di tempo libero non può che incrementare il benessere. In futuro, quando penseremo alla gestione del traffico, dovremo anche tenere conto della gente che non si muoverà da casa, perché avrà i servizi su Internet».
Per diventare più smart l'Italia deve investire almeno tre punti di Pil ogni anno, da qui al 2030, pari a 50 miliardi di euro annui (rapporto Abb/Teh Ambrosetti), che potrebbero ridursi a sei miliardi se si focalizzasse l'attenzione sulle 10 città principali. Il gioco varrebbe la candela: il ritorno economico stimato è di 10 punti di Pil all'anno, guadagnati grazie ai risparmi energetici.
Storie
Nella classifica italiana dei centri urbani più «smartness» (secondo il rapporto Abb/Ambrosetti) il podio va ai grandi capoluoghi. Milano è al primo posto, con Roma sul secondo gradino, seguita da Venezia. Per il Sud la miglior performance spetta a Palermo che si piazza in nona posizione. «Questa graduatoria si basa su dati statistici del 2011 ? commenta Sara Lelli, consulente di The European House Ambrosetti? per cui non rispecchia le ultime iniziative tecnologiche progettate dai comuni. Per stilarla abbiamo analizzato 10 indicatori che riguardano tre aree: mobilità, gestione risorse e qualità della vita. E' proprio per mettere in rilievo il wellness degli italiani che abbiamo concentrato la ricerca su certi aspetti, prendendo in esame quali sono realmente le innovazioni che portano benefici concreti alla popolazione. A Milano per esempio ha avuto successo il bike sharing, forse un pò meno il car sharing. Inoltre, c'è una buona gestione delle risorse energetiche. A Roma, invece, funziona la mobilità integrata. Alcune città sono smart per un motivo, altre per una ragione diversa, ma sono ancora poche quelle che puntano a diventare smart a 360 gradi, considerando tutti i singoli ambiti. In ogni caso, è sempre meglio iniziare il cambiamento, magari con soluzioni a basso costo, più accessibili in questo periodo, che sono capaci di stimolare altri programmi di rinnovamento, con un effetto domino».
Certo, le smart city italiane non reggono il paragone con alcune realtà europee. Amsterdam è tra le più «intelligenti» del vecchio continente. Già dal 2009 ha adottato, nelle case e nelle industrie, rivelatori di consumi per gas e luce, in modo da controllare in tempo reale le quantità di risorse usate con l'obiettivo di ridurle. Conclusione: un calo del 14% nei consumi. «Non dobbiamo scimmiottare le soluzioni degli altri ? sottolinea Lelli ? perché snaturerebbero le nostre peculiarità. Abbiamo un patrimonio artistico da valorizzare. Prima, è importante rendere smart i settori in cui siamo forti: turismo, cultura e cibo, per poi fare leva sul resto».

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sabato 3 novembre 2012

Alessandra Moretti si racconta a Vittorio Zincone

Intervista a Alessandra Moretti a cura di Vittorio Zincone pubblicata su Sette il 2 novembre 2012
Alessandra Moretti, 39 anni, è la sorridente portavoce del bersanismo in tempi di primarie. L'antidoto al giovanilismo renziano. Vicesindaco dí Vicenza, parlantina con cadenza veneta e battuta pronta. La incontro in un bar romano. Chiede un "macchiatone". La bocca del cameriere diventa un punto interrogativo. Lei gongola: «È un caffè molto macchiato. Dopo lo spritz, esporteremo dal Veneto anche questo».
Moretti, catapultata dal segretario nell'arena del Pd, sostiene che l'impatto non sia stato morbido. Ha notato qualche occhiataccia da parte delle colleghe democratiche. Dice: «Nella capitale mi sento un po' come la protagonista del film di Virzì "Caterina va in città"». Davanti alle telecamere, invece, è molto disinvolta. Ha cominciato a imperversare nei talk show un paio di anni fa. Ora è una presenza fissa sulle poltroncine catodiche degli approfondimenti politici tivvù. Appena accenno alla sua telegenia e all'evoluzione del suo look, mi stoppa: «Ebbene sì, ci tengo al mio aspetto. Tra i democratici ci sono molte belle ragazze, brave, che curano la loro eleganza». Le faccio notare che questa fierezza cosmetica è un elemento di novità nella comunicazione gauchista. Lei spiega: «Per colpa del berlusconismo, una bella ragazza ormai attrae solo pregiudizi e atteggiamenti misogeni». Chiedo: «È successo anche a te?». Replica: «Certo. Appena ho una minima distrazione o faccio il più stupido erroretto mi attaccano con cattiveria sospetta».
Un esempio? «Ho appena avuto un battibecco con Luca Sofri. Mi ha accusata via Twitter di essere impreparata perché ho detto che Bersani è alla seconda legislatura». Effettivamente è stato eletto tre volte, non due. «Ma una legislatura l'ha interrotta. Quindi sono due e mezzo. Sulle regole delle primarie del Pd, poi...». Sulle regole del Pd lo stesso Sofri ha scritto un pezzo sul Post.it: avete messo talmente tanti paletti per la partecipazione alle primarie che ormai si può parlare di sforzocrazia.
Per arginare Renzi siete diventati il Partito Sforzocratico?
Qui il resto del post«Con le primarie cediamo una parte della nostra sovranità. Chiediamo solo onestà e serietà a chi verrà a votare».
CasaPound, l'organizzazione di estrema destra, ha invitato i suoi militanti a votare per Bersani alle primarie.
«Il solo pensiero è un colpo al cuore».
Gli farete un esame per capire quanto sono di sinistra?
«Gli diciamo con cortesia che i voti dei neo-fascisti non ci interessano».
Test su alcuni temi cari all'elettorato del Pd. Sei favorevole o contraria ai matrimoni gay?
«Favorevole».
Hai avvertito Rosy Bindi e i cattolici del tuo partito?
«Chi fa politica dovrebbe separare la propria vocazione spirituale dalla necessaria applicazione dei principi costituzionali».
Favorevole o contraria all'adozione da parte di coppie gay?
«Ho qualche dubbio. Ma esistono già. In linea di massima dobbiamo evitare che la società sia sempre più avanti rispetto alla legislazione».
Riforma Fornero sul lavoro e sull'articolo 18. Vendola la vuole abolire, Renzi la considera un caposaldo.
«Credo che Fornero abbia agito abbastanza bene. Ma dai tecnici non mi aspettavo un errore grossolano come quello sugli esodati».
Fornero ha detto che i nostri giovani non devono essere choosy, cioè schizzinosi. Condividi o è stata una gaffe?
«È stata una frase fuori luogo, in questo momento».
Tasse...
«Ciò che non produce lavoro va tassato maggiormente. Rendite finanziarie, transazioni finanziarie...».
Sei favorevole a introdurre una tassa con aliquote "alla Hollande", fino al 75% per i redditi sopra il milione di euro?
«In tempi di crisi, e solo per un periodo, penso che si possa arrivare a una soluzione come quella proposta dai socialisti francesi».
Con quale legge elettorale andremo a votare? Roberto Giachetti si è fatto più di 50 giorni di sciopero della fame per convincere il Parlamento a cambiare quella in vigore.
«Spero che venga approvata una nuova legge elettorale con un premio di maggioranza tale da mandare al governo uno degli schieramenti».
C'è chi dice che comunque vada, sarà Monti bis. Tu lo voteresti un Monti bis?
«No. Non voglio più sostenere un governo insieme con il Pdl».
Autodefinisciti. Sei: di sinistra, comunista, socialista...
«Sono una riformista progressista».
Quando hai cominciato a fare politica?
«Come attività principale? Quattro anni fa. Sono una nativa del Pd. Ma la politica è una passione che ho da quando ero bambina».
Come mai?
«Mio padre, dirigente di un liceo, comunista, era segretario della Cgil scuola. Assistevo in un angolo alle sue riunioni. E mio nonno, partigiano democristiano, mi portava con sé alle manifestazioni del 25 aprile. Ricordo le loro discussioni, anche molto dure».
Eri adolescente negli Eighties. Anni di disimpegno.
«Ballavo molto. Ma ero anche impegnata».
Sei mai stata iscritta ai giovani comunisti, la Fgci?
«No. Ero segretaria dell'associazione studentesca di Vicenza. Dialogavamo con tutti, tranne che con la destra».
Università?
«Legge. Appena iscritta scoppiò Tangentopoli. Ero affascinata da Colombo, D'Ambrosio e Borrelli».
Ti sei scordata Antonio Di Pietro.
«Era un ottimo magistrato. Avrebbe fatto bene a continuare quella carriera».
In quegli anni in Veneto esplose la Lega. Hai mai pensato di aderire al Carroccio?
«No. Anche se qualcuno ha provato a dire che sono stata di destra».
Chi?
«I renziani vicentini. E pensare che al liceo ero soprannominata "la comunista"».
Su quali basi hanno detto che sei stata di destra?
«Nel 2003 partecipai come indipendente alle Amministrative perché non mi volevo iscrivere ai Ds».
Perché non ti volevi iscrivere?
«Perché facevo fatica a frequentare quelle sezioni. Non erano luoghi accoglienti per i giovani. Nel 2007, poi, insieme con un gruppo di amici, anche di ambiente cattolico-scoutista, decidemmo di partecipare alle provinciali con una nostra lista. Lì dentro rappresentavo l'anima sinistra».
Come si chiamava questa lista?
«Under 35, ponevamo il problema generazionale. Il nostro motto era: Adesso tocca a noi».
Stai scherzando?
«No».
Tu sei una renziana ante litteram, un'infiltrata tra i bersaniani. Confessa.
«Sono una bersaniana della prima ora. Nel 2008 sono stata eletta in una lista civica. Pochi giorni dopo mi sono iscritta al Pd. E nel 2009 ho appoggiato Bersani alle primarie».
Perché Bersani sì e Renzi no?
«Bersani è un vero riformista europeo. Renzi mi sembra più vicino al neoliberismo».
Se vince Renzi resti nel Pd o te ne vai?
«Resto. Il Pd è la mia casa».
Come sei stata reclutata nel pacchetto di mischia bersaniano per le primarie?
«Avevo incrociato Pier Luigi durante una direzione del partito e mi aveva accennato alla possibilità di aiutarlo con ì comitati. Poi un sabato mattina è squillato il telefono».
Era Bersani?
«Sì. Sentire la sua voce è stato un colpo. È andato dritto, senza convenevoli: "Ho pensato a tre nomi: Tommaso Giuntella per le associazioni. Roberto Speranza per l'organizzazione e te come portavoce. Datti da fare". Clic».
Secondo te quanto ha influito nella scelta di Bersani il fatto che eri stata molto in tv?
«Mi ha scelta per un ruolo mediatico, immagino che la tv abbia avuto la sua importanza».
Ricordi la tua prima volta ospite di un talk show?
«Certo. Da Lilli Gruber. Prima ero stata solo nei salottini delle emittenti locali».
Dimmi una cosa che non condividi di quel che dice Bersani.
«In Direzione nazionale sono intervenuta spesso per sollecitare la questione della legge dì stabilità...».
E...
«Trovo che il segretario sia molto attento alle politiche del territorio».
Ti avevo chiesto un elemento di disaccordo e tu mi srotoli un complimento?
«Bersani è uno che ascolta».
Condividi anche la sua battuta anti-renziana contro chi ha società alle Cayman?
«È necessario distinguere tra finanza buona e finanza cattiva».
Maurizio Mian ha detto a Wanda Marra del Fatto Quotidiano che i capitali con cui ha comprato il 37% dell'Unità prima stavano in Lichtenstein. E che li ha fatti rientrare con lo scudo fiscale di Tremonti. Buona o cattiva finanza?
«Per rispondere dovrei conoscere meglio la vicenda».
Hai letto della segretaria di Bersani, Zoia Veronesi, indagata per truffa aggravata?
«Conosco Zoia. È una persona onesta. Si risolverà tutto».
Che cosa pensi della nomina dell'ex ministro Melandri al Maxxi? È una nuova freccia per l'arco del Rottamatore?
«Ma quale freccia? Quella nomina ci sta tutta».
A cena col nemico?
«Giorgia Meloni. Distante da me, ma seria e appassionata».
Hai un clan di amici?
«Ne cito una su tutti: Alessandra, avvocato».
Una tua collega e omonima. Tu che avvocato sei?
«Matrimonialista».
Sei sposata?
«Sì. E ho due figli: Guido, 6 anni, e Margherita, 4».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«Accettare di presentarmi alle amministrative del 2008. Mio padre mi ha molto aiutata nel prendere la decisione».
Come?
«Achille Variati, ìl candidato sindaco, un giorno mi chiamò per sapere se, in caso di vittoria, avrei voluto far parte della sua giunta. Io avevo appena avuto il mio primo figlio. Andai a casa e quando riferii a papà la proposta lui mi rassicurò: "Noi ci siamo. Ti appoggiamo". Se i miei genitori non mi dessero una mano con i piccoli, non potrei fare quel che faccio».
Che cosa guardi in tv?
«È raro che io mi ritrovi davanti alla televisione. La sera spesso mi addormento mentre racconto una fiaba ai miei figli. O mi metto a studiare».
Il libro preferito?
«Botteghe oscure addio, di Miriam Mafal».
La canzone?
«Una qualunque di Jovanotti».
Il film?
«Quattro matrimoni e un funerale. La commedia inglese mi fa impazzire».
Quanto costa un litro di benzina?
«Il diesel un euro e ottanta».
Sai qual è l'articolo 3 della Costituzione?
«È quello sull'uguaglianza».
Conosci i confini della Siria?
«No, la geografia non è il mio forte».
Perché intervenire in Libia e non in Siria?
«La violazione dei diritti. ci dovrebbe coinvolgere sempre. Ma ecco... diciamo che anche la politica estera non è il mio forte».

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Le due sinistre divergenti

Articolo di Giuseppe Bedeschi pubblicato sul Corriere della Sera il 30 ottobre 2012
La grave crisi che ha investito gli Stati Uniti e l’Europa ha sollecitato gli economisti a riflettere sui meccanismi dello sviluppo economico quale si è realizzato negli ultimi decenni, a rivedere convincimenti che sembravano ormai assodati, a rimettere in discussione teoremi che apparivano acquisiti una volta per tutte. Questo ripensamento ha luogo sia nello schieramento di centrosinistra che in quello di centrodestra. Ma direi che a sinistra la ricerca e il dibattito mostrano un impegno e una intensità maggiori. Una interessantissima testimonianza di ciò è il saggio di due economisti, Pietro Reichlin e Aldo Rustichini, Pensare la sinistra. Tra equità e libertà (ed. Laterza), che essi hanno sottoposto a un buon numero di personalità (economisti, sociologi, giuristi, politologi).
Secondo un pensiero molto diffuso a sinistra, essi dicono, la crisi che l’Italia e altri Paesi attraversano è il risultato della speculazione, della globalizzazione finanziaria e di un mercato libero da ogni vincolo. Essendo queste le cause, i rimedi sarebbero la crescita della spesa pubblica e una maggiore presenza dello Stato nell’economia. Ma, dicono gli autori, nel caso dell’Italia gridare contro la speculazione e la finanza globale significa schivare questioni reali e parlare d’altro. «I nostri problemi non nascono con la crisi del 2008, ma sono stati prodotti in un arco di tempo molto più ampio. Un trentennio in cui le scelte pubbliche hanno sacrificato la crescita economica e l’equità intergenerazionale, provocato una lievitazione incontrastata della pressione fiscale e prodotto una crisi del patto sociale».
Ci piacerebbe, incalzano gli autori, che la sinistra riconoscesse queste premesse e tornasse a discutere come migliorare le politiche e le istituzioni pubbliche, in nome della giustizia sociale sì, ma anche dell’efficienza. Ma per fare ciò la sinistra dovrebbe assumere «un volto moderno che, noi crediamo, non è ancora riuscita ad avere»; dovrebbe «trovare il modo di parlare alle nuove generazioni e all’insieme della società presentandosi come agente di cambiamento e non di conservazione». In particolare, la sinistra dovrebbe affrontare di petto alcuni nodi di grande rilevanza. C’è in primo luogo l’enorme problema del lavoro. Qui bisogna cercare di eliminare il dualismo del nostro mercato del lavoro e fare in modo che i giovani (oltre che le donne e gli immigrati) abbiano un trattamento migliore, cioè salari più elevati e più contratti a tempo indeterminato. Ma questo risultato può essere ottenuto solo riducendo i costi di licenziamento e allineando i salari alla produttività. La recente riforma del mercato del lavoro in tema di licenziamenti, varata dal governo Monti, è solo un primo tentativo in questa direzione. Ma è evidente, dicono gli autori, che bisogna fare di più (e rinviano al disegno di legge del senatore Ichino).
Un altro fronte sul quale la sinistra dovrebbe realizzare un ripensamento radicale è quello del nostro Mezzogiorno. «Ha senso, ad esempio, che le organizzazioni sindacali nazionali si sforzino di imporre condizioni contrattuali uniformi su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dalle condizioni economiche regionali, come la produttività, le infrastrutture e il costo della vita?» No, non ha senso. Del resto la contrattazione collettiva nazionale ha perso terreno rispetto alla contrattazione a livello aziendale quasi ovunque, anche nei Paesi a tradizione socialdemocratica, come la Germania e la Svezia.
Un altro grande problema da ripensare è quello dell’istruzione. Si sente spesso affermare che l’istruzione deve essere gratuita per consentire anche ai figli dei poveri di andare a scuola o all’Università. Ma l’obiettivo dell’equità può essere raggiunto in tanti modi diversi, e, probabilmente, lo strumento della scuola gratuita per tutti non è quello più efficace. Nel caso della nostra istruzione universitaria, con tasse uguali per tutti facciamo un grande regalo alle famiglie benestanti, e mettiamo in difficoltà le famiglie povere (fino a escluderle completamente dall’educazione terziaria). Sarebbe molto più equo aumentare il costo d’iscrizione all’Università e, nello stesso tempo, creare un ampio sistema di borse di studio, di «prestiti d’onore» ecc. per gli studenti economicamente svantaggiati.
Queste alcune delle argomentazioni di Reichlin e Rustichini. Come hanno reagito i loro interlocutori? Alcuni con vivo interesse (Michele Salvati, Claudia Mancina ecc.), altri assai negativamente. Così Salvatore Biasco dichiara che la discussione avviata dai due economisti, è «del tutto estranea alla sinistra»; Stefano Fassina rifiuta con forza l’idea che l’unica ideologia possibile per una sinistra dinamica e innovativa sia quella liberista; Piero Bevilacqua afferma che la critica di Reichlin e Rustichini alla sinistra «è un distillato ideologico del neoliberismo», e come tale da respingere fermamente. Anche in questo confronto appare evidente che nella cultura della sinistra ci sono (nettamente distinte, anzi contrapposte) due anime.

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venerdì 2 novembre 2012

Federico Testa interviene sull’energia

Il Presidente dell’Eni, Paolo Scaroni, ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera presentanto tre ipotesi: “Nella prima si riduce l’ammontare di gas oggetto del "take or pay" con una maggiore flessibilità di prezzi. La seconda, quella del "capacity payment", implicherebbe che la sicurezza di approvvigionamento assicurata dai nostri "take or pay" ci venga remunerata. Oppure, come terza alternativa, condividiamo con il governo che questa garanzia di approvvigionamento non è più necessaria e negoziamo con i nostri fornitori altre formule contrattuali». Dall’intervento di Scaroni si delinea il rischio di produrre un aumento dei costi dell’energia e di battere cassa allo Stato.
Federico Testa, deputato del Pd e responsabile Energia, è intervenuto con una interrogazione al Ministro dello Sviluppo Economino per sapere,
premesso che:
in più passaggi del documento per consultazione pubblica prodotto dal MiSE “Strategia energetica nazionale: per un’energia più competitiva e sostenibile” si sostiene che l’Italia ha subito negli ultimi anni “un prezzo del gas elevato (nel 2011 in media superiore del 25% rispetto ai mercati europei)” (pag. 57);
tale maggior prezzo ha certamente influito sulle potenzialità competitive del Sistema-Paese, nonché sulle condizioni di vita delle famiglie e dei cittadini;
l’approvvigionamento in Italia ha visto come protagonista e leader di mercato la società Eni, fino a pochi mesi fa verticalmente integrata, con attività che spaziavano dall’upstream, al trasporto internazionale e nazionale, agli stoccaggi, fino alla distribuzione locale e vendita al cliente finale; appare quindi possibile ipotizzare che il differenziale positivo di prezzo sul mercato italiano abbia potuto configurarsi o come una qualche forma di rendita legata alla molto limitata apertura del mercato, o in alternativa come una scarsa volontà/capacità di contrattare condizioni di approvvigionamento più convenienti (legata peraltro alla possibilità di “scaricare” gli eventuali maggiori costi su clienti sostanzialmente captive);
che le “crisi gas”succedutesi negli anni hanno dimostrato come i contratti take or pay non abbiano consentito al Paese di evitare la crisi delle forniture, comportando invece costi significativi scaricati sulle bollette dei clienti;
nel momento in cui il Governo è intervenuto a mitigare il potere di mercato di Eni, attraverso il raggiungimento della separazione proprietaria di Snam, l’amministratore delegato di Eni dr. Paolo Scaroni, con l’intervista resa in data 29/10/2012 al Corriere della Sera, avanza –tra le altre- la proposta di introdurre un “capacity payment ..che..implicherebbe che la sicurezza di approvvigionamento assicurata dai …contratti take or pay…ci venga remunerata”;
su questo tema il Presidente dell’AEEG, ing. Guido Bortoni, nel corso dell’audizione presso la Commissione X del senato dello scorso 24 ottobre ha dichiarato di ritenere che “spetti a Governo e Parlamento dare una chiara valutazione” sul tema (ANSA 24 ott);
come il Governo, che è anche socio di riferimento della società, intenda rispondere alla proposta formulata dall’Amministratore Delegato dell’Eni che certamente produrrebbe, nel breve periodo, un ulteriore incremento dei costi dell’energia per le famiglie e le imprese
se non ritenga invece più efficace orientare ogni sforzo, anche economico, alla diversificazione delle fonti e delle rotte geopolitiche di approvvigionamento del gas, favorendo altresì le interconnessioni con i mercati del nord Europa.

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giovedì 1 novembre 2012

A. Moretti e F. Zanonato a Verona per Bersani

Inizia la campagna elettorale del Comitato Verona x Bersani con i seguenti appuntamenti:

- San Bonifacio
martedì 6 novembre alle ore 18,00 presso il Bar Centrale in Piazza Costituzione 1 di San Bonifacio

- Verona
martedì 6 novembre alle ore 19,30 presso il Caffè Liston 12 in Piazza Bra di Verona.

A tali incontri interverranno Alessandra Moretti, vice sindaco di Vicenza e portavoce del team di Pierluigi Bersani, e Flavio Zanonato, Sindaco di Padova.
Alessandra Moretti, impegnata ad incontrare gli elettori delle diverse regioni e provincie, per promuovere i contenuti programmatici e sostenere la candidatura di Pierluigi Bersani, risponde ad alcune domande con disponibilità e attenzione.
Lei ha partecipato a numerosi incontri finalizzati a sostenere la candidatura di Pierluigi Bersani alle primarie. Cosa ha proposto di nuovo per il paese?
Il prossimo governo dovrà proseguire nel rigore e nella tenuta dei conti, ma sarà tenuto soprattutto a ridare slancio alla crescita, sostegno al lavoro e alle imprese, varare una riforma fiscale che determini maggiore equità e uguaglianza tra i contribuenti, correggere la riforma del lavoro per quanto riguarda gli esodati e gli ammortizzatori sociali, promuovere una riforma del welfare che sostenga davvero le giovani coppie e le famiglie, determinare una forte riduzione degli sprechi nella PA e ridurre gli apparati burocratici e i costi connessi. Infine, il prossimo Governo dovrà ricominciare, dopo 20 anni di tagli indiscriminati, ad investire nel sapere, nella scuola, nella ricerca e in formazione perché solo così possiamo garantire un futuro di speranza ai nostri giovani, al passo con i loro competitors internazionali.
Cosa ha colto da parte degli elettori? Speranza e impegno o distacco rispetto al cambiamento che serve all’Italia?
Incontrare le persone e stare tra la gente é il regalo più bello di questa campagna per le primarie. Essere portavoce significa anche cogliere i suggerimenti e le istanze dei territori per poter migliorare il nostro programma. Devo dire che riscontro grande entusiasmo tra i militanti e anche tra chi era da tempo lontano dalla politica attiva. Sento anche una grande fiducia in Pierluigi Bersani.
La spinta al cambiamento si è rafforzata?
C'é voglia di cambiamento soprattutto tra le donne e la società civile. I movimenti e le associazioni ci guardano con interesse perché recepiscono che questa volta può essere l'occasione per cambiare e rinnovare davvero. Credo che Bersani si caricherà sulle spalle questa responsabilità: di portare il Paese fuori dalla crisi e di restituire alla politica fiducia e credibilità.
“Le primarie del centrosinistra sono primarie vere e bisogna guardare ai contenuti, alle proposte per il paese”. Lo ha dichiarato Diego Zardini, consigliere della Provincia di Verona e coordinatore del Comitato Tutti per Bersani.
“Io credo, continua Zardini, che la ricetta che propone Pierluigi Bersani sia la più credibile ed efficace”.
“Bersani rappresenta, conclude Diego Zardini, lo sforzo gigantesco di questi ultimi anni in cui il PD ha lavorato per costruire una vera alternativa, alternativa a chi ci ha portato sull'orlo del baratro, con il populismo e la demagogia, con il parlare alla pancia. Al contrario Bersani vuol parlare agli italiani, alle persone, a donne e uomini in carne ed ossa, propone soluzioni ai tanti problemi che ciascuno di noi, ogni giorno, si trova a dover affrontare”.
Ritengo che Bersani rappresenti la domanda di cambiamento dei cittadini che da molto tempo sono stati usati e strumentalizzati dai Governi del centro destra e da Berlusconi. Bersani con le sue competenze e la sua visione potrà realizzare le innovazioni necessarie per ricreare quel rapporto essenziale tra le istituzioni ed il paese reale con i suoi problemi e contraddizioni e realizzare una maggiore giustizia sociale attraverso il rigore, l’equità e la crescita. Da molto tempo i più deboli, coloro che vivono il problema della sopravvivenza e fanno appello, senza essere ascoltati, ad uno Stato giusto, responsabile e democratico nelle politiche, sono stati emarginati.
E’ ora di cambiare con Pierluigi Bersani.

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