Articolo di Irene Tinagli pubblicato su La Stampa del 27 settembre 2016
Fissata la data del Referendum resta ora l’obiettivo più importante: informare i cittadini su tutte le implicazioni della Riforma, soprattutto in quelle materie economiche e sociali che li toccano più da vicino. Per aspetti economici non si intendono i risparmi derivanti dall’abolizione di Senato, ma qualcosa di più profondo e che vale molto di più. Quanto vale poter completare opere strategiche senza impantanarsi in ricorsi di anni? Quanto vale poter riorganizzare porti e aeroporti secondo criteri di competitività nazionale anziché di spartizione e propaganda politica locale? Quanto vale poter varare un piano nazionale di politiche sociali con criteri omogenei e che non cambiano da regione e regione?
Questi sono solo alcuni degli aspetti toccati da una parte di Riforma poco o per nulla spiegata ai cittadini: la parte che modifica il Titolo V, ovvero i rapporti tra Stato e Regioni. Viene banalizzata parlando di “riaccentramento”. Ma in realtà si tratta di ridare allo Stato gli strumenti per adottare delle politiche economiche e sociali coordinate, evitando duplicazioni, sprechi, e soprattutto evitando gli infiniti ricorsi costituzionali che dopo la Riforma del 2001 hanno intasato la Corte paralizzando l’azione dello Stato a danno dei cittadini. Un indicatore di queste disfunzioni è l’incidenza dei giudizi della Corte Costituzionale legati al conflitto Stato Regioni è aumentata di otto volte. Dal 2000 al 2015 è aumentata di otto volte. Se nel 2000 questa pesava per il 5% sulle pronunce della Corte, nel 2015 il peso superava il 40% (dopo aver raggiunto picchi del 47%). Questo contenzioso non solo ha bloccato opere importanti, gettando nell’incertezza cittadini, enti ed investitori, ma in molti casi ha impedito o indebolito l’adozione di politiche nazionali in materie come il turismo, il commercio estero, le infrastrutture strategiche, le politiche sociali e quelle del lavoro.
Pensiamo per esempio alle politiche sociali. La Riforma Costituzionale ne riattribuisce la potestà legislativa allo Stato dopo che la Riforma del 2001 l’aveva interamente attribuita alle Regioni. Pochi sanno che all’indomani di quella Riforma, le Regioni hanno impugnato quasi tutte le principali iniziative e strumenti nazionali in materia di politiche sociali. E che a seguito di quei ricorsi sono stati aboliti, perché dichiarati illegittimi, il Fondo per gli asili nido(sentenza 370/2003), il Fondo di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano asilo nido (sentenza 320/2004), il Fondo di garanzia per prestiti agli studenti meritevoli (sentenza 308/2004). Sono state inoltre dichiarate illegittime norme che direzionavano risorse alle politiche abitative per le giovani famiglie, o ancora la norma che istituiva un cofinanziamento per le Regioni che istituissero un “reddito di ultima istanza”. Tutti dichiarati incostituzionali perché, ai sensi della Riforma del 2001, lesivi dell’autonomia delle Regioni (sentenza 423/ 2004).
L’unico modo con cui lo Stato può affrontare determinate priorità sociali è tramite un accordo con la Conferenza Unificata Stato-Regioni. Ma gli accordi sono spesso lunghi nei tempi e disomogenei nell’implementazione. Prendiamo quello del 2007 sul Piano straordinario per i servizi per la prima infanzia (su cui il Governo aveva stanziato fondi mai visti su questa voce di spesa). Ci volle quasi un anno per la prima intesa, alcune regioni hanno impegnato anni per completare le procedure (bandi, accreditamenti, etc.) mentre altre non sono riuscite a fare programmazione e spendere le risorse stanziate. Di fronte alle emergenze sociali, alle disparità territoriali, e all’inadeguatezza del nostro attuale assetto a farvi fronte, l’ultima cosa di cui i cittadini hanno bisogno è una speculazione teorica sul federalismo. C’è invece bisogno di risposte incisive, che non richiedano anni di intese per essere attuate, e che possano realizzare eguaglianza di opportunità per tutti i cittadini. E questo è il senso della Riforma. Le regioni continueranno ad avere autonomia di programmazione e organizzazione, e quelle economicamente virtuose potranno anche chiedere una “deroga” all’esclusiva statale (in base al nuovo articolo 116),ma lo Stato sarà responsabile del coordinamento e delle priorità delle politiche sociali. Certo, anche lo Stato dovrà dimostrare di esserne all’altezza. E questa sarà la vera sfida.
Fissata la data del Referendum resta ora l’obiettivo più importante: informare i cittadini su tutte le implicazioni della Riforma, soprattutto in quelle materie economiche e sociali che li toccano più da vicino. Per aspetti economici non si intendono i risparmi derivanti dall’abolizione di Senato, ma qualcosa di più profondo e che vale molto di più. Quanto vale poter completare opere strategiche senza impantanarsi in ricorsi di anni? Quanto vale poter riorganizzare porti e aeroporti secondo criteri di competitività nazionale anziché di spartizione e propaganda politica locale? Quanto vale poter varare un piano nazionale di politiche sociali con criteri omogenei e che non cambiano da regione e regione?
Questi sono solo alcuni degli aspetti toccati da una parte di Riforma poco o per nulla spiegata ai cittadini: la parte che modifica il Titolo V, ovvero i rapporti tra Stato e Regioni. Viene banalizzata parlando di “riaccentramento”. Ma in realtà si tratta di ridare allo Stato gli strumenti per adottare delle politiche economiche e sociali coordinate, evitando duplicazioni, sprechi, e soprattutto evitando gli infiniti ricorsi costituzionali che dopo la Riforma del 2001 hanno intasato la Corte paralizzando l’azione dello Stato a danno dei cittadini. Un indicatore di queste disfunzioni è l’incidenza dei giudizi della Corte Costituzionale legati al conflitto Stato Regioni è aumentata di otto volte. Dal 2000 al 2015 è aumentata di otto volte. Se nel 2000 questa pesava per il 5% sulle pronunce della Corte, nel 2015 il peso superava il 40% (dopo aver raggiunto picchi del 47%). Questo contenzioso non solo ha bloccato opere importanti, gettando nell’incertezza cittadini, enti ed investitori, ma in molti casi ha impedito o indebolito l’adozione di politiche nazionali in materie come il turismo, il commercio estero, le infrastrutture strategiche, le politiche sociali e quelle del lavoro.
Pensiamo per esempio alle politiche sociali. La Riforma Costituzionale ne riattribuisce la potestà legislativa allo Stato dopo che la Riforma del 2001 l’aveva interamente attribuita alle Regioni. Pochi sanno che all’indomani di quella Riforma, le Regioni hanno impugnato quasi tutte le principali iniziative e strumenti nazionali in materia di politiche sociali. E che a seguito di quei ricorsi sono stati aboliti, perché dichiarati illegittimi, il Fondo per gli asili nido(sentenza 370/2003), il Fondo di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano asilo nido (sentenza 320/2004), il Fondo di garanzia per prestiti agli studenti meritevoli (sentenza 308/2004). Sono state inoltre dichiarate illegittime norme che direzionavano risorse alle politiche abitative per le giovani famiglie, o ancora la norma che istituiva un cofinanziamento per le Regioni che istituissero un “reddito di ultima istanza”. Tutti dichiarati incostituzionali perché, ai sensi della Riforma del 2001, lesivi dell’autonomia delle Regioni (sentenza 423/ 2004).
L’unico modo con cui lo Stato può affrontare determinate priorità sociali è tramite un accordo con la Conferenza Unificata Stato-Regioni. Ma gli accordi sono spesso lunghi nei tempi e disomogenei nell’implementazione. Prendiamo quello del 2007 sul Piano straordinario per i servizi per la prima infanzia (su cui il Governo aveva stanziato fondi mai visti su questa voce di spesa). Ci volle quasi un anno per la prima intesa, alcune regioni hanno impegnato anni per completare le procedure (bandi, accreditamenti, etc.) mentre altre non sono riuscite a fare programmazione e spendere le risorse stanziate. Di fronte alle emergenze sociali, alle disparità territoriali, e all’inadeguatezza del nostro attuale assetto a farvi fronte, l’ultima cosa di cui i cittadini hanno bisogno è una speculazione teorica sul federalismo. C’è invece bisogno di risposte incisive, che non richiedano anni di intese per essere attuate, e che possano realizzare eguaglianza di opportunità per tutti i cittadini. E questo è il senso della Riforma. Le regioni continueranno ad avere autonomia di programmazione e organizzazione, e quelle economicamente virtuose potranno anche chiedere una “deroga” all’esclusiva statale (in base al nuovo articolo 116),ma lo Stato sarà responsabile del coordinamento e delle priorità delle politiche sociali. Certo, anche lo Stato dovrà dimostrare di esserne all’altezza. E questa sarà la vera sfida.
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