Professor Pietro Ichino, senatore di Scelta Civica, il suo emendamento al Jobs Act sta mettendo in crisi la maggioranza?
«L’avevo preparato nella
convinzione che potesse essere appoggiato da tutti: non fa altro che attuare,
alla lettera, ciò su cui si era impegnata tutta la maggioranza con la
“premessa” al decreto Poletti, frutto di un preciso accordo tradotto dal
governo in un emendamento. A meno di due mesi da quell’accordo il PD non può
rinnegarlo».
Ci spiega a cosa mira la sua proposta?
L’emendamento mira ad adempiere i due impegni che avevano
preso a suo tempo Letta e Renzi: Codice semplificato del lavoro e contratto a protezione crescente. Su entrambi i punti la formulazione lascia larga discrezionalità al governo. D’altra parte, oggi nel testo del disegno di legge la delega per il Codice semplificato non c’è; ed è un punto molto importante per rendere il Paese più attrattivo per gli investimenti stranieri. Quanto al contratto a protezione crescente, in occasione della discussione del decreto Poletti abbiamo raggiunto un accordo politico preciso: non deve essere il contratto unico che elimina tutti gli altri, ma neanche un tipo di contratto aggiuntivo rispetto a quelli già esistenti».
E che cosa deve essere, dunque?
«È il contratto ordinario a tempo indeterminato, ridisciplinato. Il fulcro centrale di una vera riforma del mercato del lavoro sta qui, nel voltar pagina, dopo mezzo secolo, rispetto al regime dijob property. L’emendamento serve anche a eliminare una contraddizione, perché l’attuale testo parla di uno sfrondamento dei contratti esistenti, allude a una riduzione, ma poi aggiunge un nuovo tipo di contratto».
E di conseguenza, in pratica l’articolo 18, come lo conosciamo, per i nuovi contratti non si applicherà più. Ma se invece fosse un contratto aggiuntivo?
«Se il contratto a protezione crescenti si aggiunge al contratto ordinario a tempo indeterminato, non c’è la riforma annunciata del mercato del lavoro, ma solo un ennesimo intervento “al margine”, come ne abbiamo fatti tanti negli ultimi vent’anni, proprio per non toccare il contratto a tempo indeterminato. Col solo risultato di comprimere l’area del tempo indeterminato ed allargare quella del lavoro a termine. In contrasto anche con la direttiva europea 70/99, che dice che il contratto a tempo indeterminato dev’essere la norma e non l’eccezione. Ma oggi su 100 nuove assunzioni in Italia solo 16 sono a tempo indeterminato, 68 sono a termine e altre 15 in forme ulteriori variamente precarie. Insomma, dopo il decreto Poletti, se vogliamo dare competitività nuova al tempo indeterminato non possiamo non intervenire proprio qui. Il mio emendamento, del resto, lascia al Governo una amplissima discrezionalità nella scelta tra i possibili modelli di contratto “a protezione crescente”, tra il modello Boeri-Garibaldi, che flessibilizza solo il primo triennio, e il modello proposto da me, che lascia la flessibilità anche dopo il primo triennio coniugandola con misure per dare maggiore sicurezza economica e professionale al lavoratore nel mercato. Il ministro del Lavoro è uomo del Pd: sarà lui a interpretare la delega; il Pd non ha motivo di opporsi».
E se la sua proposta non passasse?
«Sarebbe il venir meno dell’Italia a uno degli impegni presi e ribaditi, anche di recente, dal presidente del Consiglio nei confronti dei suoi interlocutori a Bruxelles. L’Italia perderà il potere negoziale che ha acquisito negli ultimi mesi in Europa; e sarà molto più difficile ottenere la flessibilità sui conti che ci serve».
«È il contratto ordinario a tempo indeterminato, ridisciplinato. Il fulcro centrale di una vera riforma del mercato del lavoro sta qui, nel voltar pagina, dopo mezzo secolo, rispetto al regime dijob property. L’emendamento serve anche a eliminare una contraddizione, perché l’attuale testo parla di uno sfrondamento dei contratti esistenti, allude a una riduzione, ma poi aggiunge un nuovo tipo di contratto».
E di conseguenza, in pratica l’articolo 18, come lo conosciamo, per i nuovi contratti non si applicherà più. Ma se invece fosse un contratto aggiuntivo?
«Se il contratto a protezione crescenti si aggiunge al contratto ordinario a tempo indeterminato, non c’è la riforma annunciata del mercato del lavoro, ma solo un ennesimo intervento “al margine”, come ne abbiamo fatti tanti negli ultimi vent’anni, proprio per non toccare il contratto a tempo indeterminato. Col solo risultato di comprimere l’area del tempo indeterminato ed allargare quella del lavoro a termine. In contrasto anche con la direttiva europea 70/99, che dice che il contratto a tempo indeterminato dev’essere la norma e non l’eccezione. Ma oggi su 100 nuove assunzioni in Italia solo 16 sono a tempo indeterminato, 68 sono a termine e altre 15 in forme ulteriori variamente precarie. Insomma, dopo il decreto Poletti, se vogliamo dare competitività nuova al tempo indeterminato non possiamo non intervenire proprio qui. Il mio emendamento, del resto, lascia al Governo una amplissima discrezionalità nella scelta tra i possibili modelli di contratto “a protezione crescente”, tra il modello Boeri-Garibaldi, che flessibilizza solo il primo triennio, e il modello proposto da me, che lascia la flessibilità anche dopo il primo triennio coniugandola con misure per dare maggiore sicurezza economica e professionale al lavoratore nel mercato. Il ministro del Lavoro è uomo del Pd: sarà lui a interpretare la delega; il Pd non ha motivo di opporsi».
E se la sua proposta non passasse?
«Sarebbe il venir meno dell’Italia a uno degli impegni presi e ribaditi, anche di recente, dal presidente del Consiglio nei confronti dei suoi interlocutori a Bruxelles. L’Italia perderà il potere negoziale che ha acquisito negli ultimi mesi in Europa; e sarà molto più difficile ottenere la flessibilità sui conti che ci serve».
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