Articolo di Pietro Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 6 gennaio 2016
Caro direttore, ci sono Paesi come il nostro dove si fanno le barricate contro l’idea di tradurre la qualità del lavoro in indici quantitativi, per poter misurare la prestazione e quindi valutarla. Ultimamente abbiamo visto erigere quelle barricate contro la pretesa dell’Invalsi di valutare l’efficacia dell’insegnamento scolastico, ma le avevamo viste erigere anche contro la pretesa dell’Anvur di valutare l’attività di ricerca universitaria, o contro l’idea che una parte della retribuzione degli impiegati pubblici possa essere collegata a indici di produttività degli uffici o dei singoli. Da noi viene mobilitato persino il diritto alla privacy per impedire la valutazione della performance dei dipendenti pubblici, o quanto meno la conoscibilità del suo esito.
In altri Paesi, invece, soprattutto nel Nord Europa e nel Nord America, il principio della valutazione è non solo acquisito, sia nel settore pubblico sia in quello privato, ma praticato talvolta in modo eccessivo, acritico, quindi inutile o addirittura fuorviante. Per avvertirci di questo rischio tre studiosi — Dina Gray, Pietro Micheli e Andrey Pavlov, tutti e tre docenti in atenei inglesi, che a misurazione e valutazione hanno dedicato la vita — ora hanno ritenuto di dedicare un libro alla Measurement Madness: recognizing and avoiding the pitfalls of performance measurement (Wiley, 2015); cioè alle follie, o anche soltanto alle insidie, agli errori, e alle vere e proprie trappole in cui si può cadere quando ci si avventura su questo terreno senza il know-how e le avvertenze necessarie. Lo hanno fatto nel modo più amichevole verso la generalità dei possibili lettori, quindi con un linguaggio assolutamente semplice, scevro da tecnicismi, rifuggendo da ogni astrazione e proponendo invece decine di casi di uso della misurazione della performance avventato, sprovveduto, inerziale, opportunistico, furbesco, o inconsulto, comunque non utile per una valutazione attendibile, effettivamente verificatisi nell’ultimo decennio in amministrazioni pubbliche o in grandi imprese private di tutto il mondo. Oppure di casi nei quali il sistema di misurazione consente ai misurati di distorcere il risultato a proprio vantaggio, o li induce a distorcere la prestazione dalla sua vera funzione al solo fine di ottenere un indice di performance falsamente migliore. Dall’osservazione di questi casi si traggono diverse conclusioni per nulla scontate: la misurazione funziona poco se viene introdotta soltanto per controllare i comportamenti, mentre dà i risultati migliori se è mirata a trarne indicazioni utili per migliorare servizi, prodotti, o processi; se ai risultati della misurazione si collegano direttamente dei premi, i rischi di distorsione aumentano: meglio comunque attribuire i premi a gruppi di persone e non ai singoli; la valutazione individuale, invece, può costituire essa stessa, da sola, un premio efficace, dando risultati ottimi in termini di motivazione del personale. E dalle loro osservazioni gli autori traggono dieci regole auree per la buona impostazione della misurazione e della valutazione, che probabilmente diventeranno d’ora in poi un decalogo ineludibile per chiunque si occupi di questa materia.
Viene citato anche un «caso» ambientato in Italia. Ma questa volta soltanto per denunciare l’allergia alla valutazione della performance che ispira i vertici delle nostre amministrazioni pubbliche. E qui non è difficile vedere la mano di quello, dei tre autori, di origine italiana, che cinque anni fa venne richiamato in patria dall’Inghilterra per far parte della Civit, l’autorità per la valutazione delle amministrazioni pubbliche — appunto — istituita dalla cosiddetta legge Brunetta del 2009, e che dopo un anno clamorosamente si dimise constatando che il meccanismo girava a vuoto.
Nonostante su questo terreno in Italia siamo tanto più indietro rispetto al Nord Europa, la lezione sofisticata di Gray, Micheli e Pavlov riguarda direttamente e immediatamente anche noi. Perché anche le nostre grandi imprese cadono negli stessi errori in cui cadono quelle straniere; e perché, sia pure in ritardo, finalmente anche noi stiamo incominciando a praticare la misurazione e la valutazione della performance nel settore pubblico. E proprio il ritardo con cui affrontiamo il problema ci rende più inesperti, quindi più esposti al rischio di errori, di trappole, di pratiche controproducenti. L’unico vantaggio insito nell’essere, per questo aspetto, un Paese arretrato sta nella possibilità di sfruttare a costo zero l’esperienza accumulata da altri attraverso decenni di sperimentazione e affinamento delle tecniche di misurazione e valutazione. Ecco perché sarebbe molto importante che questo libro venisse letto attentamente — oltre che da molti amministratori delegati di imprese private — soprattutto negli uffici del ministero della Funzione pubblica e in quelli di molti altri ministeri romani.
Caro direttore, ci sono Paesi come il nostro dove si fanno le barricate contro l’idea di tradurre la qualità del lavoro in indici quantitativi, per poter misurare la prestazione e quindi valutarla. Ultimamente abbiamo visto erigere quelle barricate contro la pretesa dell’Invalsi di valutare l’efficacia dell’insegnamento scolastico, ma le avevamo viste erigere anche contro la pretesa dell’Anvur di valutare l’attività di ricerca universitaria, o contro l’idea che una parte della retribuzione degli impiegati pubblici possa essere collegata a indici di produttività degli uffici o dei singoli. Da noi viene mobilitato persino il diritto alla privacy per impedire la valutazione della performance dei dipendenti pubblici, o quanto meno la conoscibilità del suo esito.
In altri Paesi, invece, soprattutto nel Nord Europa e nel Nord America, il principio della valutazione è non solo acquisito, sia nel settore pubblico sia in quello privato, ma praticato talvolta in modo eccessivo, acritico, quindi inutile o addirittura fuorviante. Per avvertirci di questo rischio tre studiosi — Dina Gray, Pietro Micheli e Andrey Pavlov, tutti e tre docenti in atenei inglesi, che a misurazione e valutazione hanno dedicato la vita — ora hanno ritenuto di dedicare un libro alla Measurement Madness: recognizing and avoiding the pitfalls of performance measurement (Wiley, 2015); cioè alle follie, o anche soltanto alle insidie, agli errori, e alle vere e proprie trappole in cui si può cadere quando ci si avventura su questo terreno senza il know-how e le avvertenze necessarie. Lo hanno fatto nel modo più amichevole verso la generalità dei possibili lettori, quindi con un linguaggio assolutamente semplice, scevro da tecnicismi, rifuggendo da ogni astrazione e proponendo invece decine di casi di uso della misurazione della performance avventato, sprovveduto, inerziale, opportunistico, furbesco, o inconsulto, comunque non utile per una valutazione attendibile, effettivamente verificatisi nell’ultimo decennio in amministrazioni pubbliche o in grandi imprese private di tutto il mondo. Oppure di casi nei quali il sistema di misurazione consente ai misurati di distorcere il risultato a proprio vantaggio, o li induce a distorcere la prestazione dalla sua vera funzione al solo fine di ottenere un indice di performance falsamente migliore. Dall’osservazione di questi casi si traggono diverse conclusioni per nulla scontate: la misurazione funziona poco se viene introdotta soltanto per controllare i comportamenti, mentre dà i risultati migliori se è mirata a trarne indicazioni utili per migliorare servizi, prodotti, o processi; se ai risultati della misurazione si collegano direttamente dei premi, i rischi di distorsione aumentano: meglio comunque attribuire i premi a gruppi di persone e non ai singoli; la valutazione individuale, invece, può costituire essa stessa, da sola, un premio efficace, dando risultati ottimi in termini di motivazione del personale. E dalle loro osservazioni gli autori traggono dieci regole auree per la buona impostazione della misurazione e della valutazione, che probabilmente diventeranno d’ora in poi un decalogo ineludibile per chiunque si occupi di questa materia.
Viene citato anche un «caso» ambientato in Italia. Ma questa volta soltanto per denunciare l’allergia alla valutazione della performance che ispira i vertici delle nostre amministrazioni pubbliche. E qui non è difficile vedere la mano di quello, dei tre autori, di origine italiana, che cinque anni fa venne richiamato in patria dall’Inghilterra per far parte della Civit, l’autorità per la valutazione delle amministrazioni pubbliche — appunto — istituita dalla cosiddetta legge Brunetta del 2009, e che dopo un anno clamorosamente si dimise constatando che il meccanismo girava a vuoto.
Nonostante su questo terreno in Italia siamo tanto più indietro rispetto al Nord Europa, la lezione sofisticata di Gray, Micheli e Pavlov riguarda direttamente e immediatamente anche noi. Perché anche le nostre grandi imprese cadono negli stessi errori in cui cadono quelle straniere; e perché, sia pure in ritardo, finalmente anche noi stiamo incominciando a praticare la misurazione e la valutazione della performance nel settore pubblico. E proprio il ritardo con cui affrontiamo il problema ci rende più inesperti, quindi più esposti al rischio di errori, di trappole, di pratiche controproducenti. L’unico vantaggio insito nell’essere, per questo aspetto, un Paese arretrato sta nella possibilità di sfruttare a costo zero l’esperienza accumulata da altri attraverso decenni di sperimentazione e affinamento delle tecniche di misurazione e valutazione. Ecco perché sarebbe molto importante che questo libro venisse letto attentamente — oltre che da molti amministratori delegati di imprese private — soprattutto negli uffici del ministero della Funzione pubblica e in quelli di molti altri ministeri romani.
1 commento:
Il settore pubblico dovrebbe essere guidato dalle idee di un sistema individual performance review come avviene nelle più moderne e performanti organizzazioni private. Sino a quando non si riuscirà ad arrivare a questo, assisteremo inesorabilmente ad un sistema autorefernziante di scarsa utilità per se stesso e per il cittadino (con i relativi sprechi del caso).
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