Per la politica italiana, agosto è sempre stato il mese delle dichiarazioni a effetto e dei ballons d’essai sui temi più controversi. Non stupiscono dunque né la recente proposta di Angelino Alfano sull’abolizione dell’articolo 18 «entro la fine d’agosto”, né la lapidaria risposta di Marianna Madia, secondo cui l'art. 18 «non è un problema».
Matteo Renzi sta gettando acqua sul fuoco. Anche per il presidente del Consiglio non è
il caso di aprire una simile discussione. Ma le regole vanno senz’altro cambiate, con un intervento di più ampia portata che magari porti a «riscrivere l’intero Statuto dei lavoratori».
Tra le righe di questi diverbi estivi, apparentemente innocui, si nasconde un problema serio: il governo sta incontrando grandi difficoltà nel delineare un quadro di riferimento chiaro e dettagliato sulla riforma del lavoro, compresa l’inevitabile questione dei rapporti contrattuali e della flessibilità in uscita. Senza un tale quadro, a settembre si rischiano pericolose tensioni politiche.
Non tutti lo ricordano, ma l’articolo 18 ha già subito dei ritocchi con la riforma
Fornero del 2012. In caso di controversie sul licenziamento, il datore di lavoro e il dipendente possono ora avviare una procedura di «conciliazione» e accordarsi su una indennità monetaria, che varia in base all’anzianità di servizio. Il ricorso al giudice resta comunque possibile. La riforma ha modificato il «rito» giudiziale, cercando di renderlo più leggero e veloce.
Quale è stato l’effetto di questi ritocchi? Non lo sappiamo. Nel rapporto di monitoraggio dello scorso gennaio, la «valutazione» del nuovo articolo 18 è contenuta in una paginetta (su più di 50), da cui si evince che il numero di conciliazioni avviate è di circa 20 mila. Poche? Tante? In che tipo di imprese? Con quali risultati? Nessun dato, nessuna risposta.
Come si fa a parlare di articolo 18 (nel bene e nel male) senza una base empirica di riferimento? In una recente intervista il ministro del Lavoro Giuliano Poletti (cui spetterebbe il compito di raccogliere informazioni e valutare) ha detto che quell’articolo non è un totem e che, come tutte le norme umane, può essere modificato (una posizione fatta propria nelle ultime ore dallo stesso Renzi).
Senza argomenti e proposte serie, l’immagine del totem però si rinforza, i contrasti si polarizzano in base a principi inconciliabili. Così si va dritti verso quello scenario che si vorrebbe scongiurare.
In attesa di valutazioni circostanziate della riforma Fornero, il governo può naturalmente fare molte altre cose in tema di relazioni contrattuali. Le più ragionevoli sono la semplificazione del codice del lavoro e la sperimentazione di nuove forme di assunzione a tempo indeterminato, ispirate alle pratiche virtuose di altri Paesi e rispettose delle norme protettive previste dalla Ue.
Il disegno di legge delega sul lavoro (il cosiddetto Jobs Act) sembrava andare proprio in questa direzione. Sul contratto «a tutele crescenti» (proposto da Pietro Ichino) si è tuttavia aperta una accesa controversia all’interno della maggioranza, che ha bloccato tutto. Cosa intende fare il governo alla riapertura del Parlamento?
La domanda è cruciale non solo sul piano dei contenuti, ma anche dei tempi. La previsione è quella di far approvare la legge delega entro dicembre. Poi il governo dovrà predisporre i decreti delegati, superando il vaglio di conformità del Parlamento. Infine ci vorranno i famigerati provvedimenti attuativi.
Con questa scaletta saremo fortunati se la riforma entrerà in vigore fra un anno e mezzo. Solo a quel punto avremo il nuovo codice e potranno avviarsi le sperimentazioni. In tutti i Paesi le riforme contemplano provvedimenti di attuazione. Solo in Italia questo processo richiede tempi biblici (e non è unicamente colpa del bicameralismo).
Le regole non «creano» lavoro, siamo d’accordo. Ma alcune facilitano, altre ostacolano le assunzioni (quelle «buone», a tempo indeterminato) da parte delle imprese. Da noi prevalgono le seconde e le conseguenze sono pagate soprattutto dai giovani. Perciò non possiamo aspettare la fine del 2015 per avere la riforma.
Francesco Giavazzi e Alberto Alesina hanno proposto di accelerare drasticamente i tempi, in modo da presentare a Bruxelles i decreti delegati insieme alla legge di stabilità per il 2015 (Corriere, 8 agosto). Credo che sarebbe già un bel risultato approvare entro ottobre la legge delega, magari con una sintesi di ciascun decreto delegato che il governo intende poi varare e un cronoprogramma.
A torto o a ragione, gli investitori internazionali si aspettano il superamento del «totem». Se non li convinceremo in tempi rapidi che con il Jobs Act il governo italiano intende cambiare nel profondo tutto il nostro mercato del lavoro (circoscrivendo così anche la portata e la rilevanza dell’articolo 18), dovremo rassegnarci alla recessione. E sarà solo colpa nostra.
Come si fa a parlare di articolo 18 (nel bene e nel male) senza una base empirica di riferimento? In una recente intervista il ministro del Lavoro Giuliano Poletti (cui spetterebbe il compito di raccogliere informazioni e valutare) ha detto che quell’articolo non è un totem e che, come tutte le norme umane, può essere modificato (una posizione fatta propria nelle ultime ore dallo stesso Renzi).
Senza argomenti e proposte serie, l’immagine del totem però si rinforza, i contrasti si polarizzano in base a principi inconciliabili. Così si va dritti verso quello scenario che si vorrebbe scongiurare.
In attesa di valutazioni circostanziate della riforma Fornero, il governo può naturalmente fare molte altre cose in tema di relazioni contrattuali. Le più ragionevoli sono la semplificazione del codice del lavoro e la sperimentazione di nuove forme di assunzione a tempo indeterminato, ispirate alle pratiche virtuose di altri Paesi e rispettose delle norme protettive previste dalla Ue.
Il disegno di legge delega sul lavoro (il cosiddetto Jobs Act) sembrava andare proprio in questa direzione. Sul contratto «a tutele crescenti» (proposto da Pietro Ichino) si è tuttavia aperta una accesa controversia all’interno della maggioranza, che ha bloccato tutto. Cosa intende fare il governo alla riapertura del Parlamento?
La domanda è cruciale non solo sul piano dei contenuti, ma anche dei tempi. La previsione è quella di far approvare la legge delega entro dicembre. Poi il governo dovrà predisporre i decreti delegati, superando il vaglio di conformità del Parlamento. Infine ci vorranno i famigerati provvedimenti attuativi.
Con questa scaletta saremo fortunati se la riforma entrerà in vigore fra un anno e mezzo. Solo a quel punto avremo il nuovo codice e potranno avviarsi le sperimentazioni. In tutti i Paesi le riforme contemplano provvedimenti di attuazione. Solo in Italia questo processo richiede tempi biblici (e non è unicamente colpa del bicameralismo).
Le regole non «creano» lavoro, siamo d’accordo. Ma alcune facilitano, altre ostacolano le assunzioni (quelle «buone», a tempo indeterminato) da parte delle imprese. Da noi prevalgono le seconde e le conseguenze sono pagate soprattutto dai giovani. Perciò non possiamo aspettare la fine del 2015 per avere la riforma.
Francesco Giavazzi e Alberto Alesina hanno proposto di accelerare drasticamente i tempi, in modo da presentare a Bruxelles i decreti delegati insieme alla legge di stabilità per il 2015 (Corriere, 8 agosto). Credo che sarebbe già un bel risultato approvare entro ottobre la legge delega, magari con una sintesi di ciascun decreto delegato che il governo intende poi varare e un cronoprogramma.
A torto o a ragione, gli investitori internazionali si aspettano il superamento del «totem». Se non li convinceremo in tempi rapidi che con il Jobs Act il governo italiano intende cambiare nel profondo tutto il nostro mercato del lavoro (circoscrivendo così anche la portata e la rilevanza dell’articolo 18), dovremo rassegnarci alla recessione. E sarà solo colpa nostra.
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