L’iter parlamentare della legge
di stabilità si sta trasformando in un disordinato attacco alla diligenza. Come
ai tempi della Prima Repubblica, vi è il rischio che il provvedimento finisca
per premiare gli interessi dei più forti, a spese dei più deboli. Un esito
disastroso: la crisi ha colpito duramente il ceto medio-basso e infoltito le
fila degli indigenti. Dal 2005 ad oggi la povertà “assoluta” è passata dal 4,1%
all’8% della popolazione. Si tratta di quasi cinque milioni di italiani, fra
cui moltissimi bambini, che non possono permettersi consumi di base (vitto,
alloggio, vestiti adeguati) e che si trovano all’estrema periferia del sistema
di welfare, se non del tutto fuori.
In questo quadro va salutata con favore l’iniziativa del Movimento 5 Stelle per
introdurre un “reddito di cittadinanza”, ossia un trasferimento monetario a chi
si trova in difficoltà ed è disponibile al lavoro. L’idea non è certo nuova, ma
è la prima volta che diventa cavallo di battaglia di una forza politica di
primo piano nel bel mezzo di una legge finanziaria: governo e maggioranza non
potranno far finta di niente.
La proposta dei grillini è
precisa e dettagliata. Può diventare la base di partenza di una riforma
efficace e praticabile? Su questo è lecito nutrire dubbi. Innanzitutto c’è il
problema del nome. Ciò che i 5 Stelle prospettano è un classico schema di
reddito minimo garantito, riservato ai poveri: non un reddito universale
erogato a tutti i cittadini. E’ bene precisarlo, per non creare confusioni e
alimentare irrealistiche aspettative. Altre perplessità riguardano le regole di
accesso alla prestazione. Perché tener conto solo del reddito dichiarato dei
richiedenti e non del patrimonio? In questo modo si rischia di premiare gli
evasori. Sulla effettiva gestione dello schema (accompagnamento al lavoro,
verifiche, sanzioni) la proposta coinvolge un numero eccessivo di soggetti
istituzionali, attribuendo ai centri per l’impiego responsabilità e funzioni
che nella situazione attuali questi non possono in alcun modo sobbarcarsi.
Infine, il piano 5 Stelle ha un costo proibitivo (19 miliardi all’anno, dal
2014) e l’idea di finanziarlo tramite misure “giustiziere” (patrimoniale,
prelievo sulle pensioni d’oro) non aiuta certo la sua praticabilità
economico-politica. Ciò che stupisce dell’iniziativa grillina è poi il fatto
che non tiene conto del ricco dibattito degli ultimi mesi sul reddito minimo e
delle due articolate proposte già emerse a riguardo: quella del Reddito di
inclusione sociale (Reis), predisposta dalle Acli (http://www.redditoinclusione.it/) e quella del Sostegno di inclusione attiva (SIA, http://www.linkiesta.it/sostegno-per-inclusione-attiva)
elaborata da una commissione di esperti presso il Ministero del Lavoro. Sia
detto senza offesa: entrambe queste proposte sono assai più meditate e coerenti
rispetto a quella targata 5 Stelle e dunque più adatte a fungere da base di
partenza (ovviamente migliorabile).
Proprio domani nasce a Roma un’”Alleanza contro la povertà in Italia” promossa dalle Acli, con la partecipazione di una ventina di soggetti pubblici e del Terzo Settore. L’obiettivo è quello di elaborare un piano organico e ampiamente condiviso di riforma “partendo dagli ultimi”. Se davvero i grillini vogliono passare dalla stagione della protesta a quello della proposta (che implica sempre mediazioni e collaborazioni), un raccordo costruttivo con questa iniziativa sarebbe fortemente auspicabile.
Intervista aPietro Ichino su Affaritaliani del 7 ottobre
Proprio domani nasce a Roma un’”Alleanza contro la povertà in Italia” promossa dalle Acli, con la partecipazione di una ventina di soggetti pubblici e del Terzo Settore. L’obiettivo è quello di elaborare un piano organico e ampiamente condiviso di riforma “partendo dagli ultimi”. Se davvero i grillini vogliono passare dalla stagione della protesta a quello della proposta (che implica sempre mediazioni e collaborazioni), un raccordo costruttivo con questa iniziativa sarebbe fortemente auspicabile.
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