martedì 6 novembre 2012

Pietro Ichino: ragioni e genesi della riforma Fornero

La nostra vecchia disciplina dei licenziamenti non era ‘la’ causa della crisi; ma era una delle tante concause della debolezza del sistema economico italiano. Innanzitutto perché era la causa prima del dualismo del mercato del lavoro, che costituisce un fattore grave di inefficienza e di opacità, quindi di chiusura agli investimenti stranieri; dualismo che, in un periodo di crisi grave come questo, era destinato ad aggravarsi: gli imprenditori sono tanto più riluttanti ad assumere con contratto di lavoro regolare a tempo indeterminato, quanto più è rigida la protezione della stabilità dei lavoratori regolari e quanto maggiore è l’incertezza circa il futuro prossimo.
Un altro effetto negativo dell’articolo 18 consisteva nel rallentamento dei processi di aggiustamento industriale, che generava un costo rilevante per le nostre imprese, pari all’entità delle retribuzioni dei lavoratori eccedentari, moltiplicata per il ritardo con cui esse potevano ottenere la cessazione dei relativi rapporti. Quella norma, poi, costituiva uno degli elementi essenziali di un sistema di protezione della sicurezza economica e professionale fondato su di un legame pressoché indissolubile tra il lavoratore e l’impresa datrice di lavoro: con la conseguenza che, quando l’impresa stessa entrava in crisi, la sola cosa che eravamo capaci di fare era di prolungare il più possibile il rapporto di lavoro, magari fingendo che esistesse qualche possibilità di ripresa del lavoro nell’azienda, ma in realtà tenendo il lavoratore in Cassa integrazione o ‘in mobilità’ per anni e anni. È il modo sbagliato di affrontare le crisi occupazionali di cui si è tanto parlato in questi anni. Soprattutto in un momento di crisi, invece, il sistema deve essere in grado di favorire il rapido trasferimento dei lavoratori dalle imprese che chiudono o si contraggono a quelle in espansione.
Nonostante il dibattito un po’ fumogeno che ha accompagnato la gestazione della legge Fornero, anche le imprese hanno capito subito che essa avrebbe reso più fluido il sistema, se è vero che nei due o tre mesi che hanno preceduto l’entrata in vigore di questa nuova legge si è registrata una contrazione dei licenziamenti: evidentemente le aziende, dove hanno potuto, hanno preferito collocare il provvedimento nel nuovo regime. Certo, se fosse passata la proposta iniziale del Governo e le parti contrapposte non avessero fatto tutto il possibile per annacquarla, il cambiamento in questa direzione sarebbe stato più incisivo. E anche il contrasto al lavoro precario sarebbe stato più efficace. Ma, pur con tutti i limiti e i condizionamenti che sono stati imposti all’iniziativa legislativa del Governo, con questa legge si è fatto un passo avanti importante nella direzione giusta.
Sperimentare la flexsecurity
Un’idea che riecheggiava da vicino il mio progetto flexsecurity era stata proposta dal ministro Fornero in un primo tempo, tra gennaio e febbraio, per una possibile sperimentazione nelle imprese che si fossero rese disponibili per questo, nel quadro di accordi-quadro regionali. Era una proposta molto sensata, anche perché la sperimentazione del nuovo ordinamento e della nuova strumentazione in aree limitate, e solo per rapporti di lavoro costituiti da qui in avanti, avrebbe consentito al Governo di dedicare all’esperimento risorse in proporzione molto maggiori. Se, poi, la sperimentazione avesse dato esiti positivi, essa avrebbe potuto gradualmente espandersi in modo spontaneo, preparando il terreno per una riforma organica di portata generale nell’arco di pochi anni.
Le cose sono andate così. Alla fine di gennaio il ministro del Lavoro ha presentato alle parti sociali l’abbozzo di un progetto che prevedeva la sperimentazione, destinata a svolgersi nelle regioni dove fossero stati stipulati appositi accordi-quadro, di un nuovo regime ispirato ai principi della flexsecurity, applicabile alle nuove assunzioni nelle imprese interessate alla sperimentazione stessa: si pensava soprattutto a investimenti esteri, nuovi insediamenti, nuovi piani industriali. Questo avrebbe consentito, per un verso, di mettere a frutto la disponibilità, spontaneamente manifestata dalle Regioni e dalle imprese interessate, a farsi carico di rilevanti oneri per il sostegno del reddito e per l’assistenza intensiva – mediante l’ingaggio delle migliori agenzie di outplacement – ai lavoratori che sarebbero stati licenziati in un futuro non immediatamente prossimo; per altro verso avrebbe consentito di sperimentare un nuovo diritto del lavoro semplificato, emancipato dalla mediazione necessaria di funzionari, sindacalisti, consulenti del lavoro, avvocati. Il riferimento, in quella fase, era al testo unico in 70 articoli proposto nel mio disegno di legge n. 1873/2009: quel progetto non avrebbe innescato le ansie e le tensioni che sono invece inevitabilmente prodotte da una riforma che riguardi anche i rapporti di lavoro regolari già in essere; e non avrebbe richiesto pertanto i compromessi altrimenti necessari per superare quelle tensioni. Tra i pregi di questa soluzione ci sarebbe stato anche quello di consentire che i nuovi ammortizzatori sociali – trattamento di disoccupazione e assistenza intensiva ai lavoratori che perdono il posto – potessero essere costruiti con la necessaria gradualità; e di evitare una riduzione del grado di stabilità dei rapporti di lavoro esistenti, in un periodo come quello attuale di grave recessione, facendo sì che la nuova disciplina dei licenziamenti incominciasse gradualmente a essere sperimentata negli anni a venire, via via che la necessità del recesso si fosse presentata nei nuovi rapporti costituiti da qui in avanti.
La vera opposizione veniva dagli ambienti sindacali. A questo primo progetto una delle confederazioni maggiori, la Cisl, ne ha contrapposto – in via ufficiosa e riservata, in un primo tempo – uno drasticamente alternativo: quello di una modifica un po’ meno incisiva dell’articolo 18 dello Statuto del 1970, ma con effetti estesi a tutti i rapporti di lavoro, anche a quelli già in essere.
La proposta avanzata in quella fase della trattativa dalla Cisl – dovuta, credo, soprattutto all’elaborazione di Tiziano Treu – può riassumersi così: attrazione della materia del licenziamento individuale per motivo oggettivo nell’area di applicazione della disciplina del licenziamento collettivo, con predisposizione di una procedura di esame congiunto in sede sindacale adeguatamente ridotta; modifica dell’articolo 18, con attribuzione al giudice, nel caso di giudizio negativo circa la validità del licenziamento, della facoltà di condannare il datore di lavoro alla reintegrazione, oppure al solo indennizzo, secondo il modello tedesco.
La Cgil non era d’accordo, ovviamente; ma tutto sommato preferiva questa proposta della Cisl a quella della sperimentazione di un ordinamento molto più semplice e più radicalmente innovativo, quale quello delineato nel mio ‘progetto flexsecurity’. In quei giorni ne discussi proprio con un alto dirigente della Cgil che invece simpatizzava per l’idea della sperimentazione del mio progetto. Alla domanda sul perché della preferenza tacitamente espressa dalla Cgil per la proposta avanzata dalla Cisl, mi rispose: “Hanno paura che la sperimentazione riesca, dia esiti positivi: a quel punto l’intero vecchio sistema protettivo diventerebbe politicamente indifendibile, e l’apparato sindacale perderebbe una parte importante delle proprie funzioni e prerogative”.
Fatto sta che il Governo ci ha riflettuto sopra per una settimana, ha registrato il sostanziale consenso di Confindustria e ha quindi sostanzialmente accolto la proposta della Cisl come base sulla quale proseguire la trattativa. Questo ha fatto sì che verso la metà di febbraio il fuoco del confronto politico-sindacale si sia spostato su di un progetto molto più ambizioso quanto all’ampiezza del campo immediato di applicazione, ma più limitato quanto alla portata innovativa sul sistema di protezione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori dipendenti.
In questo modo è stato contraddetto l’intendimento enunciato da Monti nel suo discorso programmatico, nel senso di riferire la riforma della materia dei licenziamenti soltanto ai nuovi rapporti di lavoro e non ai vecchi. Ma questo, curiosamente, è avvenuto a seguito di una proposta venuta da una delle confederazioni sindacali maggiori e con il consenso dell’associazione degli industriali: è difficile, dunque, contestare al Governo questa incoerenza rispetto al programma iniziale. Forse quelle organizzazioni hanno ritenuto più facile controllare i contenuti della riforma in questo modo, rispetto all’ipotesi di una sperimentazione più incisiva ma in ambito più limitato, rispetto alla quale hanno temuto di poter essere tagliate fuori.
Quello che è certo è che in quelle settimane la parola ‘sperimentazione’ generava più apprensione che non la menzione del grande tabù, la riforma dell’articolo 18.
Nell’ultima settimana di marzo la pressione esercitata sul Governo dall’ala sinistra della sua maggioranza ha portato a una significativa riduzione della portata innovativa della riscrittura dell’articolo 18. E questo, a sua volta, ha poi comportato l’accoglimento della richiesta dell’ala destra, di un rinvio dell’entrata in vigore delle norme in materia di collaborazioni autonome e di una riduzione dell’incisività delle norme in materia di contratti a termine. Rimane, comunque, un rilevante sfrondamento dei tipi contrattuali diversi da quello normale a tempo indeterminato.
Una riforma per contrastare il dualismo del nostro tessuto produttivo
Sul terreno della semplificazione e dell’innovazione nel linguaggio legislativo, purtroppo non mi sembra che la legge Fornero dia alcun contributo positivo. Su quello dell’armonizzazione europea e della razionalizzazione dell’ordinamento, invece, il contributo è notevole. Nonostante la ‘riduzione bilanciata’ di incisività della riforma sui suoi due versanti – quello della disciplina dei licenziamenti e quello del contrasto al precariato – e l’insufficienza del suo contenuto per quel che riguarda i servizi nel mercato, resta il fatto che per la prima volta essa affronta i nodi centrali del nostro diritto del lavoro, dopo quarant’anni nei quali quasi tutti gli interventi legislativi si sono limitati a intervenire al margine, sui rapporti di lavoro periferici. Per la prima volta la legge Fornero affronta concretamente la questione del dualismo del nostro tessuto produttivo, cioè dell’apartheid fra protetti e non protetti; e lo fa accogliendo, almeno in parte, un’idea che è frutto della mia elaborazione e delle mie proposte: quella secondo cui la situazione di ‘dipendenza’ che giustifica la protezione inderogabile è individuata dagli elementi della continuità del rapporto, dalla monocommittenza e dal livello di reddito medio-basso (questo concetto di ‘dipendenza’ è destinato ad assumere un’importanza notevole nel nostro diritto del lavoro, sul piano sistematico). Per la prima volta questa legge – pur conservando all’Italia la posizione di testa nella graduatoria dei Paesi più protettivi – si propone di superare l’anomalia della nostra disciplina dei licenziamenti rispetto al resto degli ordinamenti europei, costituita dall’automatismo della reintegrazione nel posto di lavoro in ogni caso in cui il giudice ravvisi anche il minimo difetto formale o sostanziale nell’atto di recesso dell’imprenditore. Dopo quindici anni nei quali si è parlato molto della riforma e universalizzazione degli ammortizzatori sociali senza combinare nulla, per la prima volta questa legge compie infine un passo concreto molto importante nella direzione giusta, istituendo un’unica assicurazione contro la disoccupazione, uguale per tutti i lavoratori dipendenti, e riconducendo la Cassa integrazione guadagni alla sua funzione originaria: quella di tenere i lavoratori legati all’impresa nelle situazioni di difficoltà temporanea, per evitare la dispersione di professionalità quando vi è la ragionevole prospettiva della ripresa del lavoro nella stessa impresa.
In materia di licenziamenti la nuova norma porta un cambio di regime molto rilevante, che elimina un’anomalia del nostro ordinamento rispetto al resto d’Europa: in sostanza passiamo da un regime centrato come regola generale su di una property rule (che sostanzialmente garantisce una inamovibilità del lavoratore senza il suo consenso, salve le situazioni di sua colpa gravissima, o le situazioni prefallimentari), a un regime centrato su di una liability rule, cioè su di una regola generale di responsabilizzazione economica dell’impresa nei confronti del lavoratore che perde il posto. Ora è importante che questo cambiamento di regime avvenga in modo sereno, senza incertezze e soprattutto senza lasciar intravvedere prospettive di possibile ritorno indietro. Altrimenti correremmo il rischio di rimanere in mezzo al guado più dello stretto necessario, generando sfiducia da parte degli imprenditori circa l’effettività e affidabilità del mutamento di equilibrio che stiamo perseguendo e così privandoci dei vantaggi di questa operazione in termini di maggiore propensione degli imprenditori stessi a investire nel nostro Paese e ad assumere i propri dipendenti a tempo indeterminato, quindi anche in termini di riassorbimento del lavoro precario nell’area del lavoro regolare. Solitamente non brilliamo per capacità di valorizzare le nostre scelte di governo facendo su di esse gioco di squadra, facendo prevalere l’interesse del Paese su quelli di parte. Ma in diverse occasioni si è visto che sappiamo dare il meglio nei momenti di massimo pericolo. E Dio sa quanto quello attuale lo sia.

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